mercoledì 23 febbraio 2011

JESI LIBERO COMUNE



Jesi libero Comune


Alla maniera di Ottone I e di Ottone III, anche il successore di quest'ultimo, Enrico II di Sassonia, riconobbe alla Chiesa il possesso dei suoi territori, fra i quali la città di Jesi; ma anche quello di Enrico II era un riconoscimento interessato perché concesso solo per poter essere incoronato da papa Benedetto VIII. Ed infatti Gregorio VI si lamentava apertamente che imperatori, re, principi e persone di altri ordini avevano invaso i territori della Chiesa e vi facevano da padroni.
Questa situazione era però aggravata, oltre che dalla grande confusione che regnava in tutta Italia, dalla corruzione che aveva contaminato tutti gli ordini della vita ecclesiastica. Cos'era successo? Era successo che la Chiesa, nel corso dei secoli, aveva accumulato notevoli ricchezze e queste avevano finito col suscitare sempre più la cupidigia dei sovrani e dei feudatari. I quali, per entrarne in possesso, avevano scelto la via meno rischiosa e più ignominiosa: manipolando uomini e leggi, facevano eleggere parenti ed amici nelle cariche più alte della gerarchia ecclesiastica. Gli abati, i vescovi e lo stesso pontefice non erano più scelti fra persone di vocazione religiosa, ma tra feudatari ambiziosi, ignoranti e viziosi.
L'OPERA DEI BENEDETTINI
Le cose si aggravarono in modo particolare dopo Ottone I in seguito alla creazione dei «vescovi-conti»; tutti i vescovi, infatti, erano allora nominati soltanto dagli Imperatori, i quali, per ricavare denaro, si erano messi a vendere le cariche ecclesiastiche al miglior offerente. Una specie di baratto, passato alla storia col nome di Simonia. Fu a questo punto che, condannando quegli scandali e quel disordine, intervennero con fermezza e rettitudine i monaci benedettini.
Già si è fatto cenno, nel capitolo precedente, ai monaci benedettini. Ma è doveroso riparlarne e più diffusamente, data l'importanza che la loro opera ebbe nella rinascita della Vallesina.
I Benedettini erano qui giunti attorno al 750. Allora la nostra zona era quasi completamente ricoperta da boscaglie e paludi. Tra le selve rimaste più famose per la loro vastità si ricordano quelle della Castagnola, che da Chiaravalle si estendeva fino al mare, e della Gangalia, stendentesi per lungo tratto nelle colline e nel piano tra levante e mezzogiorno di Jesi; essa fu interamente distrutta nella prima metà del secolo XVII; nel secolo precedente vi scorrazzavano i lupi, i quali ai nobili jesini davano occasione di clamorose cacce; la contrada ancor ritiene il nome. Altre selve della Vallesina erano il Cerreto e il Gualdo sulla collina a sinistra dell'Esino, la Selva Bandita e il Guardengo tra Morro e Monsanvito, la Sterpara verso Moie sulla destra, la Selva Santa tra Maiolati e Castelplanio, la Tessenaria fra Rosora, Castelplanio e Poggio San Marcello, le selve della Romitella, del Paganello, di Sant'Andrea, della Cesola e la Selva Lunga nel perimetro segnato da Cupramontana, Apiro, Staffolo e il Musone.
Prima opera dei Benedettini fu quella di sboscare il terreno, ridurlo a coltivazione: sgorgavano paludi, disseccavan laghi, correggevano il corso dei torrenti e dei fiumi, facevano argini per impedire le inondazioni, irrigavano le campagne con l'acqua del fiume, aprivano strade, costruivano ponti. Nei campi si estendevano messi di grano, vigneti, frutteti ed oliveti. E lungo l'Esino venivano costruendo molini sia da grano che da olio (nel 1295, in un tratto di appena trenta chilometri, se ne conteranno addirittura una sessantina).
I Benedettini erano quasi tutti laici; tra essi rari erano i sacerdoti; sembra, anzi, che lo stesso San Benedetto non avesse mai ricevuto gli ordini sacri. Erano però vincolati dai voti della povertà volontaria, della castità perpetua e della obbedienza in ogni cosa. Nei loro monasteri — naturalmente avevano avuto cura di edificarne anche nella Vallesina — la vita sociale era presente in ogni suo aspetto: vi erano scienziati e letterati, artisti e manufattieri, operai ed agricoltori. Pertanto, oltre che dedicarsi al lavoro dei campi, questi monaci erano capaci di qualsiasi opera: d'artigianato e d'arte. Commerciavano poi i prodotti della terra ed i manufatti nei grossi mercati che si svolgevano periodicamente presso gli stessi conventi (alcune delle fiere che oggi vanno per la maggiore ebbero inizio a quei tempi e continuano a tenersi negli stessi luoghi, anche se molte cose sono cambiate).

VENTISEI ABBAZIE
Attorno al Mille la Vallesina era popolata di abbazie. Dopo quattro secoli e più dall'arrivo dei Benedettini, una quantità sterminata di chiese era sorta dappertutto: non meno di ventisei erano i monasteri benedettini nella Vallesina e le celle monastiche (piccole case con pochi monaci) dovevano essere ben più numerose. Di quei ventisei monasteri, undici erano ubicati nell'attuale territorio del nostro Comune.
Delle abbazie di Santa Maria del Piano e di San Nicolò abbiamo detto in precedenza. Le altre erano: l'abbazia di San Savino, che sorgeva vicino all'area della chiesetta di oggi (che è del 1500), e di cui sono visibili i resti in Viale Don Minzoni; l'abbazia di San Marco, la cui chiesa è senza dubbio uno dei più preziosi gioielli architettonici di Jesi; l'abbazia di San Luca, ceduta poi dai Benedettini agli Agostiniani Calzati che intitoleranno appunto la chiesa a Sant'Agostino (oggi dissacrata, in piazza Colocci); l'abbazia di Santa Croce Urbana, situata presso l'attuale piazza Spontini (la chiesetta, di modeste dimensioni, si trovava all'imbocco di vicolo Fiorenzuola: di questa chiesetta, a detta del Cecon, sarebbe rimasta soltanto la porta); l'abbazia di San Settimio con la chiesa cattedrale, che i Benedettini avevano costruito nel cuore della città e precisamente sull'area ove sorge il duomo attuale (era sede del vescovo: «prima del secolo XIII — osserva l'Annibaldi — i vescovi erano quasi tutti benedettini»); l'abbazia di Santa Croce Rurale, che era situata all'uscita di Jesi, nei pressi del bivio per Tabano: sul luogo ove sorgeva v'è oggi una nicchia con un'immagine della Madonna con il Cristo morto; l'abbazia di San Lorenzo, a proposito della quale sappiamo solo che era situata fra Jesi e Chiaravalle; l'abbazia di San Chiaro, che sorgeva sulla sinistra del fiume (ma non si è riusciti a localizzarne l'esatta ubicazione); e l'abbazia di San Lorenzo di Maccarata o Mazzangrugno.
A proposito delle due chiese di Santa Croce, non si ha alcun dubbio sulla loro esistenza. Ne fanno fede alcuni documenti, fra i quali una bolla pontificia del 1133 con la quale Papa Innocenzo II confermava ai frati di Fonte Avellana i beni di loro proprietà nello Jesino, fra cui «la chiesa ed il monastero di S. Croce verso Tabano e Campolungo». Della antica chiesa di San Settimio ci rimane oggi — conservata nel museo civico — un'ara marmorea monolite che si trovava nell'altare di S. Giovanni di quella cattedrale; si tratta del più antico monumento sacro jesino: è fornito di un'epigrafe in esametri nella quale si dice che un certo abate a nome Pietro nel 1084 l'aveva dedicata al Signore e ai SS. Giovanni Battista ed Evangelista; sulla stessa ara sono scolpiti, in maniera piuttosto rozza, i simboli dei quattro evangelisti.
Tra gli altri monasteri benedettini più importanti della Vallesina, ricordiamo quelli di Chiaravalle (anticamente detto di Santa Maria di Castagnola), di Santa Maria di Moje, la Romita di Cupramontana, le abbazie di San Lorenzo di Cupramontana, di Sant'Apollinare e di Sant'Elena. Quest'ultima, che sorge sul punto di confluenza dell'Esinante nell'Esino, sarebbe stata fondata da San Romualdo tra il 1005 e il 1009, insieme ai monasteri di Valdicastro, di Sant'Urbano e di San Vittore alle Chiuse: cosa possibilissima, perché il Santo ravennate, dei Camaldolesi, aveva tenuto nello Jesino molte predicazioni ed ebbe sepoltura proprio in Valdicastro.

La Storia di Jesi

sabato 19 febbraio 2011

FRA ROMA, RAVENNA E L'IMPERO




FRA ROMA RAVENNA E L'IMPERO
Mentre gli Jesini si sistemavano alla meno peggio nella zona di Terravecchia, in Italia le cose non procedevano nella invocata tranquillità. Jesi e la Vallesina facevano parte, come si è detto, dello Stato della Chiesa. Ma si trattava, in realtà, di un possesso poco stabile e spesso contrastato. Le terre dell'Esarcato e della Pentapoli, per essere le più lontane da Roma, erano più esposte alle influenze imperiali e di altri popoli vicini.
Anche nell'interno dello Stato Pontificio non regnava la più completa armonia. Ad esempio, i rapporti fra Roma e Ravenna. L'arcivescovo romagnolo, facendosi forte dell'appoggio dell'imperatore francese, considerava gli abitanti dell'Esarcato e della Pentapoli come suoi vassalli, imponeva loro tasse ed usurpava i beni della Chiesa romana. Il Papa, a sua volta, ingiungeva ai vescovi di non sottostare agli arbitrii dell'arcivescovo di Ravenna. Senza dire che gli imperatori francesi succedutisi dopo Carlo Magno non avevano rinunciato al diritto di disporre liberamente delle terre della Chiesa.
A questo proposito, il Natalucci ricorda che «per condannare le ingiustizie commesse dal duca di Camerino, Lodovico (l'imperatore) stabiliva, ad esempio, il suo tribunale fra Jesi e Camerino nei pressi di Ancona» . L'insubordinazione dell'arcivescovo di Ravenna cessò allorché l'imperatore Lodovico gli tolse la sua protezione, costringendolo, di conseguenza, a sottomettersi al Papa ed a limitare le sue attribuzioni.
Nel frattempo il Sacro Romano Impero andava rapidamente disgregandosi; questo perché i successori di Carlo Magno avevano fatto di tutto per mandarlo all'aria. Duchi, conti e marchesi, per rendersi indipendenti, si erano ribellati all'autorità del sovrano, cosicché in breve si erano andati formando in Europa tanti staterelli, centinaia di feudi, quali più piccoli quali più grandi. Quando nell'anno 887 l'impero fondato da Carlo Magno si sfasciò definitivamente, sorsero al suo posto vari regni (di Francia, di Germania, d'Italia, ecc.), a capo dei quali s'erano posti i feudatari più grossi. Il regno d'Italia però non comprendeva tutta la penisola, ma solo la parte settentrionale e la Toscana, cioè a dire i soli territori che erano stati un tempo dei Longobardi e che Carlo Magno aveva annesso al suo impero. Jesi e la Pentapoli rimasero sotto la giurisdizione dello Stato Pontificio.
Il regno d'Italia fu tenuto prima da vari feudatari italiani e stranieri, finché cadde sotto l'autorità del re di Germania, Ottone I, il quale, divenuto imperatore (962), ricostruì il Sacro Romano Impero. Al quale cercò di annettere, manco a dirlo, le terre dell'Esarcato e della Pentapoli. Anche a Jesi quindi giungevano i nuovi «padroni»: continuava il drammatico carosello degli invasori-liberatori e dei liberatori-invasori.
La Chiesa, che non voleva rinunciare alle sue terre, cercò di porre termine, amichevolmente, agli sconfinamenti delle milizie dell'imperatore tedesco. Nella Pasqua del 967 papa Giovanni XIII e l'imperatore Ottone I si incontrarono a Ravenna, ove fu celebrato un solenne concilio; Ottone restituì allora molti beni usurpati alla Chiesa di Roma, tra cui l'Esarcato e la Pentapoli. A quel concilio era presente anche il vescovo jesino Eberardo. Altri vescovi di Jesi avevano partecipato ai precedenti concili: Pietro era intervenuto nel 743 al Concilio Romano sotto il pontificato di Zaccaria; Giovanni nell'826 al Concilio Romano sotto il pontificato di Eugenio II. Nell'853 invece il vescovo jesino Anastasio aveva sottoscritto per procura il Concilio Romano promosso da Leone IV.
Ma quella di Ottone I fu una restituzione di breve durata. Un accordo più impegnativo fra le due parti avvenne durante il breve papato di Silvestro II ( 999-1003 ): con un diploma, emanato probabilmente a Roma e munito di bolla plumbea con l'iscrizione «aurea Roma», l'imperatore Ottone III cedeva alla Chiesa otto contee delle Pentapoli e cioè Pesaro, Fano, Senigallia, Ancona, Fossombrone, Cagli, Jesi e Osimo.
RITORNO NELLA JESI ROMANA
A quel tempo la popolazione jesina stava ritornando sull'area dell'acropoli, dove aveva riparato e forse in parte anche ricostruito gli edifici dell'antica città. Il ritorno nell'antica sede sarebbe avvenuto a causa delle invasioni degli Ungari e Saraceni nel 950. Abbandonata la zona di temporaneo esilio e rientrati nella antica città, gli Jesini lasciarono ai soli monaci la custodia della chiesa di San Salvatore, che da qualche decennio era stata intitolata a San Nicolò (nel 950, fra le parrocchie date in beneficio a nove canonici, si ricorda per la prima volta anche la «parrocchia S. Nicolaj»); in questa chiesa avevano trovato sepoltura i resti mortali di alcuni dei primi vescovi jesini — Marciano, Calempioso, Onesto e Pietro — entro un'unica urna sotto l'altar maggiore.

La Storia di Jesi

giovedì 17 febbraio 2011

JESI CITTA' ABBANDONATA



JESI CITTA' ABBANDONATA
Nell'anno 847 un rovinoso terremoto colpiva molte città italiane. Anche Jesi non fu risparmiata; anzi, le scosse sismiche furono così violente che la città ne restò quasi completamente distrutta al punto che la popolazione superstite, sotto la protezione del vescovo e dei monaci, fu costretta ad abbandonare la città ed a rifugiarsi nei pressi della località detta di Terravecchia. Col nome di «Terravecchia» — anticamente, anzi, «Terra vetus» o «Terra guasta» — veniva designata quella parte della città attualmente compresa fra Via Mura Occidentali e Via Mura Orientali.
Secondo alcuni, l'abbandono del centro storico non fu determinato da movimenti tellurici, ma dal fatto che i barbari, con ripetute scorrerie, avevano reso inabitabile la città romana; di questo parere è anche lo storico P. Bernardino Rocchi. Secondo altri, l'esodo fu determinato da una delle tante — la più grave, anzi — delle pesti che periodicamente colpivano allora le popolazioni. Fra le tre ipotesi, ci pare di poter considerare come meglio attendibile quella del terremoto. Il quale terremoto, tuttavia, non sarebbe stato quello dell'847, in quanto, stando al Cecon, le violente scosse sismiche che provocarono lo sfollamento della Jesi romana si verificarono verso la fine del IX secolo.
Sembra certo, comunque, che per un lungo periodo di tempo la vita cittadina si svolgesse a qualche centinaio di metri dal pomerio e fece corpo attorno ad una chiesa già esistente nella zona di Terravecchia. Qui sorse la seconda Jesi, piccolo centro di povere case e capanne. Quella chiesa esiste tuttora, anche se col passare dei secoli ha subito delle trasformazioni, allontanandosi dalla primitiva struttura che doveva essere di linee piuttosto modeste o comunque di non eccezionali pretese architettoniche. E' la chiesa di San Nicolò, un tempo dissacrata, poi restaurata e riportata allo splendore originale; allora era intitolata a San Salvatore.
A proposito di questa chiesa (l'edificio sacro più antico esistente tuttora a Jesi), si è molto discusso circa l'antichità della costruzione. Vi è chi vuoi farla risalire agli albori del cristianesimo: un piccolo e modestissimo oratorio del IV secolo, trasformato successivamente in basilica. Per altri, la prima costruzione dovrebbe essere del secolo XI o X. Per altri ancora la costruzione primitiva può essere fatta risalire alI'VIII o IX secolo e senz'altro prima del Mille. I più, tuttavia, sono decisamente per l'esistenza della chiesa di San Salvatore all'epoca in cui la popolazione jesina si trasferì in Terravechia. E la chiesa, che molto probabilmente faceva parte di un monastero, sarebbe divenuta anche cattedrale. Come tale avrebbe funzionato nel IX e nel X secolo, perché il famoso terremoto che aveva devastato Jesi non aveva risparmiato la vecchia cattedrale di San Settimio; quest'ultima, edificata nel IV secolo, versava in precarie condizioni e non aveva retto al cataclisma tellurico, tanto che aveva dovuto essere chiusa al culto.
LE CHIESE PIÙ ANTICHE
A Jesi, all'epoca del terremoto dell'800, oltre alle chiese di San Settimio (ma non è storicamente provato che a quel tempo la cattedrale fosse così intitolata) e di San Salvatore, ve ne erano indubbiamente altre. Di altre tre almeno si hanno notizie, seppure imprecise e frammentarie, per non dire controverse. Merita di soffermarcisi un po'. Cominciando dalla chiesa di San Giorgio, che in seguito sarà dedicata a San Floriano.
La chiesa di San Giorgio prima edizione viene fatta risalire al VII secolo o alla prima metà del 700, epoca in cui venne edificata sull'area dell'attuale chiesa e sulle fondazioni di un tempio romano. «Non è azzardata l'ipotesi — scrisse il Cecon — che la chiesa di San Giorgio fosse opera di maestri longobardi (tecnici abilissimi, dedicati alla costruzione delle chiese e penetrati nell'Italia centrale; la maggior parte dei templi costruiti in quel periodo nel Piceno sono opera loro) con le caratteristiche architettoniche comuni a quel tempo». Sempre a detta del Cecon, la chiesa «doveva presentarsi a tre navate, divisa da pilastri fra loro collegati alla sommità da archi a pieno centro, con absidi in curva e con la travatura del tetto scoperta». Il grave terremoto di cui abbiamo detto provocò notevoli danni a questa chiesa, che tuttavia non venne mai abbandonata. Fin qui la versione di alcuni. Altri studiosi non escludono invece che la chiesa di San Giorgio sia stata edificata per la prima volta proprio negli anni immediatamente successivi al terremoto per volontà di un gruppo di Jesini (una piccola colonia di illirici) che erano rimasti in città nonostante il disastroso movimento sismico.
La chiesa di Santa Maria del Piano (quella che ci appare oggi è quanto rimane di una delle più antiche, vaste e ricche abbazie benedettine della Vallesina) o meglio l'abbazia di Santa Maria del Piano era stata edificata sull'area di un tempio pagano, di Cibele secondo alcuni, di Minerva secondo altri. Esisteva, dunque, nel 900, e superò senza grosse conseguenze la violenza del terremoto.
Infine la chiesa di San Pietro Apostolo. Premesso che non si tratta dell'attuale edificio, anche se il luogo è sempre lo stesso (la chiesa di oggi ha due secoli di vita), diremo che le origini di quell'antico tempio vengono fatte risalire alla fine del 500. A quei tempi Jesi era arroccata in cima al colle, ma alla base dell'acropoli s'era andata formando una piccola borgata che era un po' il centro degli scambi commerciali con i conduttori dei terreni agricoli che si stavano organizzando al di qua dell'Esino, allora ricco di acque. In quella borgata era stata edificata anche una cappella, sul tipo di quelle che erano distribuite un po' ovunque attorno alla città.
Nei primi anni del 700, Jesi era stata sede di un signorotto longobardo (forse un duca?), il quale aveva fatto costruire, proprio nella borgata in questione, una casa per i suoi dipendenti e per la sua servitù, ed aveva fatto anche ampliare la cappella trasformandola in una vera e propria chiesa, dotata di fonte battesimale. Non si sa se prima di allora la cappella fosse dedicata a San Pietro Apostolo; lo fu in ogni caso dopo che venne ampliata dal signorotto longobardo. E divenne in breve tempo una chiesa molto importante: era considerata regia e, per avere il fonte battesimale, ebbe conferito il titolo di pieve.
«Così Jesi allora possedeva una pieve — ha scritto il Cecon, rifacendo la storia di questa chiesa; — una pieve, ossia un diritto giurisdizionale sulle cappelle minori del territorio viciniore. E questa chiesa era certamente provveduta di monastero longobardo, con canonici e chierici, e prendeva anche nome di chiesa matrice; ed i canonici ed i chierichetti conducevano una vita in comune alle dipendenze di un arciprete. Il monastero annesso alla chiesa accoglieva tutto quell'aggruppamento di chierici e di canonici, che vivevano in comune sotto l'egida longobarda prima e carolingia poi, fino al secolo X. Grande doveva essere l'autorità accordata a questo arciprete. Infatti ancor oggi il parroco di San Pietro Apostolo ha il diritto di precedenza nelle funzioni su tutto il clero della diocesi, eccezion fatta per i canonici della cattedrale».
Anche questa chiesa, come quella di Santa Maria del Piano, non ebbe a subire gravi conseguenze dal terremoto dell'800 o comunque i danni subiti non arrecarono conseguenze immediate.

La Storia di Jesi

venerdì 11 febbraio 2011

IL BASSO MEDIOEVO (DAL 500 ALL'800 D.C.)


IL NUOVO CONFINE

Nel 584 saliva al trono longobardo Autari, il quale, dopo aver tentato di assoggettare definitivamente anche la Vallesina, nel 589 stabilì il confine del suo regno, il quale andava dalla foce del torrente Cesola sino al fiume Musone; il nuovo confine, quindi, passava a pochi chilometri da Jesi, per cui è facile immaginare che, dal momento che le ostilità fra Longobardi e Bizantini erano all'ordine del giorno (e lo furono per circa due secoli), la nostra città dovette sopportare continue sofferenze per le aggressioni, le violenze, le uccisioni dei Longobardi, sempre pronti ad affacciarsi al di là dei propri confini. Un notevole miglioramento delle condizioni dell'Italia si ebbe quando il Papato, intromettendosi fra Bizantini e Longobardi, riuscì ad attrarre a se questi ultimi — che intanto stavano perdendo la loro primitiva barbarie — convertendoli dall'arianesimo alla religione cattolica.
Bisogna tenere presente, a questo punto, che il prestigio della Chiesa era aumentato in misura considerevole e la sua influenza era spesso determinante anche nelle cose civili. Il vescovo veniva considerato quasi ovunque il personaggio più importante della città e finì per avere ampi poteri nell'elezione delle magistrature cittadine e provinciali. Ad accrescere il prestigio della Chiesa aveva contribuito in gran parte l'opera dei monaci. Il monachesimo, che aveva avuto larghissima diffusione nel V e nel VI secolo, era stato rinnovato ed organizzato da San Benedetto da Norcia o dovunque, anche nella Vallesina, erano sorti numerosi monasteri. Nei quali non solo si pregava, ma si lavorava. I monaci facevano tutti i mestieri: coltivavano i campi, insegnavano a leggere e a scrivere, trascrivevano i libri antichi, aiutavano i poveri e i miserabili, curavano gli inferrmi. Insomma, l'ordine benedettino diede una spinta decisiva al progresso civile della società d'allora.
La conversione dei Longobardi al cattolicesimo avvenne per opera di papa Gregorio (il più grande pontefice di quei tempi, a cui i posteri diedero il titolo di Magno) e per l'influsso di una regina longobarda, Teodolinda. Gregorio Magno (590-604), che era stato monaco dei benedettini, fu in effetti un grande benefattore degli Italiani in quel triste periodo della nostra storia. E le popolazioni d'Italia sottoposte ai soprusi bizantini finirono per raccogliersi intorno al papa.
LA REPUBBLICA JESINA
Jesi a quel tempo si governava in forma repubblicana e, seppure sotto la «protezione» dell'esarca ravennate, per molti aspetti era già libera ed indipendente. Che fosse retta a repubblica lo attestano anche due lettere di Gregorio Magno, scritte poco dopo che i Longobardi erano stati ricacciati da Jesi al di là della linea di confine tra il Cesola e il Musone.
A causa dell'occupazione longobarda, la sede vescovile della nostra diocesi era rimasta a lungo vacante. Dalla «Cronografia dei vescovi di Jesi» parrebbe addirittura che, dopo San Settimio, sia stata vacante per quasi due secoli. In realtà si tratta di un «vuoto» dovuto alla dispersione di ogni documento relativo a quel periodo. Dopo San Settimio (sulla cui vera identità peraltro la critica ancora discute), il primo vescovo jesino di cui si ha memoria è Marciano, sul conto del quale tuttavia gii studiosi non sono concordi nell'attribuirgli la sede dell'episcopato: non di Jesi sarebbe stato vescovo, infatti, ma di Aeca, l'attuale Troia, in Puglia. Di Marciano, ad ogni modo, si sa per certo soltanto che il 23 ottobre del 501 presenziò in Roma, con altri settantacinque vescovi, il Sinodo Palmare nel quale venne sancito il principio che il pontefice non può essere giudicato da nessun tribunale umano.
Scacciati dunque i Longobardi, Gregorio Magno, in seguito ad una precisa richiesta delle autorità civili jesine, aveva ordinato al vescovo di Ancona, Severo, di recarsi nella nostra città in visita ufficiale per eleggere il nuovo presule. La prima lettera di papa Gregorio era diretta al vescovo di Ancona: «Ora che la città di Jesi è stata, con l'aiuto di Dio, ricuperata e sappiamo che è retta dalla repubblica, si deve avere della stessa chiesa grande sollecitudine, anche perché sappiamo che per questo motivo il nostro glorioso figlio Baham, capitano delle milizie, attende sostegno e perciò ci siamo preoccupati di indirizzare la presente a te, fratello, affinché personalmente vada a Jesi come visitatore ufficiale...». Questa lettera, come l'altra che segue, naturalmente era scritta in latino.
La seconda lettera era indirizzata da Gregorio Magno «al clero, alle autorità e al popolo della città di Jesi» ed aveva per oggetto, appunto, l'elezione del vescovo: «Sapendo che la vostra chiesa è stata lungamente privata del vescovo e pastore, dopo che la vostra città è stata liberata e, con l'aiuto di Dio, restituita all'ordinamento repubblicano, ci siamo preoccupati di delegare solennemente alla visita della vostra chiesa Severo, fratello nell'episcopato e vescovo di Ancona...».
Le due lettere risalgono alla fine del 600. Come andasse l'elezione del vescovo, non si sa. Certamente fu eletto qualcuno e, dopo di lui, altri vescovi, seppure la «cronografia» elenchi, quale terzo vescovo della diocesi di Jesi, un certo Calempioso di cui si ha notizia nel 647 (non riteniamo che sia lo stesso nominato da Gregorio Magno dopo l'intervento di Severo: mezzo secolo di episcopato sarebbe un bei record!). A Calempioso seguì il vescovo Onesto (detto anche Onorato), il quale è ricordato perché nel 680 sottoscrisse una lettera sinodale con papa S. Agatone.
IL POTERE TEMPORALE
Mentre i Longobardi dirozzavano i loro costumi ed uniformavano sempre più le loro leggi allo spirito cristiano e latino, gli imperatori d'oriente, nonostante avessero le loro gatte da pelare per annose questioni interne e per una logorante lotta contro nemici esterni, non lasciavano passare occasione per inasprire gli animi degli Italiani a loro soggetti, ora con pressioni fiscali e ora con ingerenze di carattere religioso che provocavano frequenti dissidi con la Chiesa di Roma. Tutto ciò contribuì ad accrescere negli Italiani sentimenti di ribellione verso il dispotismo dei Greci. Ed alla fine si giunse, com'era inevitabile, alla rottura.
Furono due decreti dell'imperatore bizantino, Leone l'Isaurico, a far scoppiare la scintilla: col primo si raddoppiava l'imposta fondiaria e col secondo (emanato nel 726) si ordinava, contro la volontà del Papa, la distruzione di tutte le immagini sacre venerate dai cristiani. Il pontefice dell'epoca, Gregorio II, scomunicò Leone come eretico e gli Italiani si sollevarono contro i funzionari bizantini. Anche Jesi partecipò all'insurrezione, cacciando gli ufficiali greci e sostituendoli con elementi del posto.
Di questa nuova situazione cercò di approfittare Liutprando, che nel 712 era stato eletto re dei Longobardi. Liutprando, che era cattolico, mise le sue armi al servizio del papa, ma col segreto proposito di annettere al suo regno le terre dei Bizantini. Secondo alcune fonti, le città dell'Emilia, della Pentapoli e Osimo furono invase dai Longobardi; secondo altre, si sotto-misero spontaneamente a Liutprando. Sta di fatto che i Longobardi stazionarono per lungo tempo nel nostro territorio, fino a quando questo non tornò, per le insistenze del Papa (che, nonostante tutto, non voleva rompere definitivamente con Bisanzio), in potere dell'impero orientale.
Il successore di Liutprando, Astolfo, re di pochi scrupoli, decise subito di assoggettare tutta l'Italia. Occupò le terre dell'Esarcato e puntò su Roma. Papa Stefano II, non potendo contare sull'aiuto di Bisanzio, si rivolse al re dei Franchi, Pipino, il quale venne in Italia con un esercito, affrontò i Longobardi e li sconfisse, ordinando che le provincie italiane dell'impero d'oriente passassero sotto il governo del Papa. Ma l'esercito di Pipino era ancora sulla via del ritorno che già Astolfo assediava di nuovo Roma. Pipino, informato della cosa, tornava sui suoi passi e sbaragliava per la seconda volta le forze longobarde. Questa volta le condizioni imposte dal re franco furono molto più dure: il papa riceveva in dono da Pipino tutte le terre bizantine da Roma a Ravenna e cioè il Lazio, l'Umbria, le Marche e la Romagna. Nasceva così lo Stato della Chiesa — il potere temporale dei papi — che doveva durare ben undici secoli.
La donazione di Pipino a papa Stefano II (754) comprendeva dunque anche Jesi. Più tardi, Desiderio, succeduto ad Astolfo, riconquistava gran parte del territorio assegnato da Pipino alla Chiesa, abbandonandosi ad atti di crudeltà e sac¬cheggi, quindi marciava su Roma. Il nuovo pontefice, Adriano I, chiese l'intervento di Carlo Magno, re dei Franchi. Questi di-scese in Italia deciso a farla finita una volta per tutte con la prepotenza dei Longobardi. Li affrontò a Val di Susa e li annientò, facendo prigioniero lo stesso Desiderio con la moglie e i figli (774). Carlo Magno unì al suo regno quello dei Longobardi, poi confermò al Papa la donazione delle terre fatta a suo tempo da Pipino. Il 25 dicembre dell'800, in San Pietro a Roma, Carlo Magno veniva solennemente incoronato, da papa Leone III, imperatore dei Romani.
L'ISTITUZIONE DELLE MARCHE
Dopo aver distrutto il regno dei Longobardi, Carlo Magno, il più grande sovrano del Medio Evo, aveva sottomesso altri popoli, formando un impero molto vasto che andava, grosso modo, dal Danubio all'oceano Atlantico, dall'Elba ai Pirenei e che fu detto «Sacro Romano Impero» perché sembrava che fosse risorto l'antico impero romano d'occidente. Giova ricordare che Carlo Magno aveva diviso l'impero in tante province dette contee, le più grandi delle quali, quelle di confine, lasciate di proposito più vaste per ragioni militari, erano state chiamate marche; a quel tempo risale dunque l'origine della parola che darà in seguito il nome alla nostra regione.
Intanto si affacciava alla ribalta della nostra storia un nuovo popolo, quello degli Arabi. Questa volta l'attacco veniva dal Sud. Gli Arabi, infatti, partiti della Tunisia, presero ad aggredire con i loro agili vascelli le coste della Sicilia e dell'Italia meridionale, al solito malamente difese dai Bizantini. Le loro scorribande terrorizzarono per lungo tempo soprattutto le popolazioni rivierasche della nostra penisola, facili bersagli di questi predoni del mare, meglio conosciuti come saraceni ossia orientali.
Nei primi decenni del IX secolo gli Arabi riuscirono, dopo aver scacciato i Greci, a stabilirsi in Sicilia. Quindi cercarono di risalire la penisola: occuparono Taranto, distrussero la flotta veneziana e un brutto giorno, agli ordini di un certo Sabba, sbarcarono in Ancona, che incendiarono, conducendo seco molti prigionieri. Forse nell'occasione si spinsero anche verso Jesi, ma, a parere del Gianandrea, non tanto da giungere fino a noi. Sul versante tirrenico riuscirono anche a saccheggiare la chiesa di San Pietro in Roma. Le flotte di Napoli, Gaeta e Amalfi, di comune accordo, affrontarono alla fine quella dei Saraceni e la sconfissero nella battaglia di Ostia (849); ma i Saraceni, anche se in misura minore, continueranno per molti anni ancora a terrorizzare le popolazioni con le loro non infrequenti piraterie.

martedì 8 febbraio 2011

LE INVASIONI BARBARICHE

LA CALATA DEI BARBARI

Nonostante le riforme di Diocleziano e Costantino, l'impero, come un grande organismo stanco, continuò ad indebolirsi. All'interno le condizioni economiche e sociali si facevano sempre più difficili per l'immissione, sempre più poderosa, di genti di origine barbara nell'esercito e nell'amministrazione dello stato; dall'esterno la pressione degli eserciti barbarici si faceva ogni giorno più insostenibile.
Nel 380 Teodosio, l'ultimo grande imperatore romano, richiamandosi all'editto di Costantino, ordinava che unica religione ufficiale dell'impero fosse quella cristiana e che tutti i templi degli dei fossero chiusi e abbandonati. Tale sorte toccò, quindi, anche ai templi pagani che Jesi romana aveva innalzato alla dea Bona, a Giove, alla dea dei Numi, a Cibele, a Giunone, ecc. Teodosio proibì però che fossero distrutti e non volle neppure che fossero trasformati in chiese cristiane, perché tanto gli edifici pagani che le statue degli dei dovevano essere considerati monumenti d'arte e dovevano altresì essere conservati quale ricordo degli antenati. La vecchia religione politeistica sopravvisse ancora per qualche tempo ma soltanto nelle campagne e finirà con lo scomparire definitivamente fra il V ed il VI secolo.
Morendo, Teodosio, per accontentare i suoi due figli, adottò l'infelice soluzione di dividere l'impero in due tronchi: quello d'occidente con capitale Ravenna e quello d'oriente con capitale Costantinopoli. Un decennio dopo l'impero d'occidente era già in pieno sfaldamento; cominciava infatti la lunga successione delle invasioni barbariche. Nel 410 i Visigoti di Alarico, scesi per la via Flaminia, irrompevano in Roma, depredandola e devastandola, mentre altre popolazioni barbare di stirpe germanica si andavano insediando negli altri territori dell'impero: i Franchi ed i Burgundi nella Gallia, i Visigoti in Spagna, i Vandali in Africa, gli Angli ed i Sassoni nella Bretannia.
Dopo i Visigoti, l'Italia tremò per la minaccia degli Unni di Aitila (451), il sanguinario e terribile flagello di Dio, che, con le sue orde, per tanti anni terrorizzò le popolazioni dell'impero. Scampato il pericolo Attila grazie all'intervento di papa Leone I, dilagarono in Italia i Vandali di Genserico, che nel 455 sottoposero Roma ad un secondo saccheggio. A Ravenna, capitale del maltrattato impero d'occidente, si susseguirono poi vari imperatori, creati e deposti dai generali barbari. Finché Odoacre, generale barbaro anche lui, nel 476 assumeva il governo in nome dell'imperatore d'oriente: da quel momento l'Italia diventava una semplice provincia dell'Impero Romano d'Oriente. Era, dopo cinque secoli d'esistenza, l'ingloriosa fine dell'Impero Romano d'Occidente.

ERULI E OSTROGOTI

In quel doloroso periodo della nostra storia — che si protrarrà, purtroppo, ancora per molti secoli — tutta l'Italia ebbe a soffrire delle devastazioni barbariche. Anche Jesi fu inevitabilmente esposta ad aggressioni, rapine, stragi. E, come in tutta la penisola, anche a Jesi la situazione economica, già difficile, si andò facendo sempre più critica.
La plebe, immiserita e oppressa, si rifiuta di prestare la sua opera nelle varie arti e mestieri; i coloni, costretti a rinunciare al loro compiccilo, abbandonano l'aratro; la borghesia, spremuta e impoverita, trascura le industrie e i commerci. Mentre la crisi economica delle classi inferiori si inasprisce sempre più, sorge la nuova aristocrazia, quella dei latifondisti arricchitisi nell'esercizio delle più alte magistrature. Alla reazione delle masse si pone un freno colla coazione al lavoro obbligatorio, per mezzo delle corpora¬zioni dell'artigianato e del colonato forzato. Ma il rimedio non riesce ad impedire più gravi dissesti e molto meno di risolvere il grave problema economico. Anche la Vallesina, feconda di terre e di vini, languisce nel più completo abbandono. E si diffonde, anche nel Piceno, la piaga del brigantaggio. «A tutta questa congerie di mali — osserva il Natalucci — si devono aggiungere ripetute epidemie, terremoti e carestie che hanno contribuito a spopolare non solo i campi e le officine, ma le stesse città».
Per la verità Odoacre, che era giunto in Italia al comando degli Eruli, governò abbastanza bene. Secondo una norma diffusa tra i barbari, egli aveva distribuito ai suoi soldati il terzo delle terre conquistate e sperava in tal modo di contribuire a sollevare l'economia delle popolazioni locali. Tali assegnazioni interessarono anche il Piceno, ove il latifondismo era molto diffuso, ma non diede i frutti sperati perché i barbari che avevano avuto in assegnazione quelle terre, anziché lavorarle direttamente, si limitarono ad esigere dai vecchi coloni, costretti a lavorare i campi per conto degli invasori, un terzo dei prodotti.
D'altra parte gli Eruli non ebbero molto tempo a loro disposizione, perché di lì a poco l'Italia venne invasa dagli Ostrogoti. Correva l'anno 488. Guidati da Teodorico, sciamarono in Italia dalla Balcania: trecentomila persone tra guerrieri, donne, vecchi e bambini. Teodorico si scontrò con Odoacre, lo batté, gli tolse il regno e la vita. Gli Ostrogoti si spinsero nella Tuschia, nel Sannio e nel Piceno; qui essi si stanziarono in gran numero, sostituendosi agli Eruli e fortificandosi nelle città più sicure. Osimo nel Piceno divenne la loro principale roccaforte. I barbari di Teodorico, come gli altri popoli calati dalla Germania nel V secolo, non sapevano lavorare, né leggere, né scrivere; amavano solo le armi e professavano la religione ariana. Impadronitisi dell'Italia, uccisero e spogliarono dei loro beni i più ricchi proprietari ed oppressero duramente le popolazioni.
Tuttavia Teodorico si dimostrò il migliore ed il più potente dei re barbari di quel tempo. Con una politica intelligente ed accorta, nei trenta anni del suo regno risollevò le popolazioni dallo stato di miseria in cui vivevano; nelle città tornarono ad aprirsi le botteghe degli artigiani e la campagna conobbe un nuovo periodo di prosperi raccolti. Vi fu un certo risveglio anche nel commercio, nelle arti e nelle lettere. Purtroppo negli ultimi anni del suo regno, Teodorico, divenuto irascibile e sospettoso, prese a perseguitare gli Italiani. Le relazioni fra questi ultimi e gli Ostrogoti, alla morte di Teodorico, peggiorarono notevolmente, finché Giustiniano, imperatore romano d'Oriente, non decise di intervenire mandando un esercito a liberare l'Italia dagli Ostrogoti.
La «guerra di liberazione» durò ben diciotto anni (dal 535 al 553) e fu vittoriosamente conclusa dalle truppe bizantine comandate da due valenti generali: Belisario e Narsete. Durante questa guerra, nell'estate del 538 — una delle più funeste per la storia d'Italia — a peggiorare le cose giunsero dalla Gallia i Burgundi ed i Franchi. Cosicché, fra tutti, il nostro disgraziato paese sperimentò a proprie spese ogni sorta di rapina e di affronto. In molte regioni per due anni la coltivazione dei campi venne trascurata completamente; il poco e cattivo grano che spuntava veniva lasciato imputridire. Gli abitanti della Toscana si erano ritirati sui monti, dove si cibavano di ghiande; quelli dell'Emilia si trasferivano nel Piceno, colla speranza di trovare di che sfamarsi. Ma qui la desolazione era tanta che si parlava di cinquantamila contadini morti d'inedia.
Burgundi e Franchi, dopo un paio di robuste scorribande, vennero rispediti oltre le Alpi. E infine, nei pressi di Gualdo Tadino, i Bizantini annientavano per sempre gli Ostrogoti, ricongiungendo l'Italia, come si è detto, all'Impero Romano d'Oriente.

LA PENTAPOLI

Sotto l'autorità di Giustiniano, l'Italia poté godere finalmente di un periodo di vera pace, non molto lungo: una quindicina d'anni, che tuttavia diedero modo alle popolazioni della penisola di riorganizzarsi, di ripopolare le città, di riattivare le industrie, il commercio, le arti.
Come in altri territori, anche nella Vallesina tornò in auge il latifondismo ed ebbero incremento, sviluppandosi, le organizzazioni agricole delle villae e delle curtes.
L'Italia, divenuta provincia dell'Impero Romano d'Oriente, in quei quindici anni fu governata da una Esarca, cioè da un emissario di Giustiniano. L'esarca risiedeva a Ravenna ed aveva poteri civili e militari; dall'esarca dipendevano i duchi, asserviti ai Bizantini, e a quel tempo la maggiore preoccupazione dei duchi era quella di spogliare l'Italia e gli Italiani — con provvedimenti fiscali oltremodo onerosi — delle ricchezze che era ancora possibile sottrarre. Ciò doveva essere causa di nuovi lutti e rovine per gli Italiani. Infatti, quando nella primavera del 568 una nuova e più violenta ondata di barbari si riversò sulla penisola, i Bizantini, che erano praticamente senza esercito, non tentarono neppure di resistere, preferendo chiudersi nelle città fortificate. Non si opposero i Bizantini e meno ancora si opposero gli Italiani; i quali, condannati ormai all'inerzia, non reagirono neppure sotto la minaccia di rapine e violenze.
I nuovi arrivati, i Longobardi, pur non essendo molto numerosi, ebbero così facile gioco nell'assoggettare una parte considerevole della penisola. I Longobardi, così detti dalla lunga barba, erano popoli germanici che gli antichi Romani già conoscevano per la loro ferocia, una ferocia eccezionale, quale nessun invasore aveva mai dimostrato. Completamente incivili, di aspetto terrificante, avevano solo sete di sangue e di ricchezze. Sotto il comando di re Alboino, entrarono in Italia saccheggiando e uccidendo. Man mano che avanzavano, distruggevano castelli, incendiavano chiese, radevano al suolo conventi; le città si spopolavano e i campi, abbandonati, restavano incolti. Nonostante ciò, i Bizantini riuscirono a mantenere il possesso di molte zone d'Italia.
Occupata dai Bizantini e soggiogata dai Longobardi (che a loro volta dividevano il loro territorio in trentasei ducati), l'Italia veniva a trovarsi ora divisa in due parti. Quella dom¬nata dai Longobardi comprendeva il Veneto, la Lombardia, il Piemonte, una parte dell'Emilia, la Toscana ed i vasti ducati di Spoleto e Benevento. Tutto il resto era in mano ai Bizantini.
Jesi, che era rimasta nei possedimenti di questi ultimi, faceva parte dell'Esarcato di Ravenna e più precisamente della dodicesima provincia bizantina, detta Pentapoli annonaria o mediterranea, che comprendeva Urbino, Fossombrone, Jesi, Cagli e Gubbio (c'era anche una Pentapoli marittima, di cui facevano parte Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia e Ancona). Nelle città dell'Esarcato la scarsità e la debolezza dei presidii bizantini resero necessario lo sviluppo delle milizie locali; si formarono così le «scholae» o corporazioni della milizia, costituite di uomini avviati all'uso delle armi, che sapevano combattere «pro aris set focis».

PAROLE LONGOBARDE

Jesi, seppure rimasta sotto la giurisdizione di Ravenna, non poté sottrarsi alla ferocia dei Longobardi. Le prime e più sanguinose incursioni di questi barbari avvennero, nella Vallesina, tra il 575 e il 584, cioè a dire nel periodo tristemente famoso dell'interregno. Nel 573 Alboino era stato ucciso in una congiura; analoga sorte era toccata, un anno e mezzo dopo, al suo successore Clefi e per un decennio i Longobardi non erano stati capaci di darsi un re. Cosicché i loro duchi, che inizialmente erano semplici comandanti militari, approfittando dell'anarchia che si era venuta a creare, si atteggiavano a veri padroni dei rispettivi ducati. E le loro soldataglie, assecondando le bramosie dei duchi, scorazzavano e occupavano qualsiasi territorio non adeguatamente difeso. Uno di questi, evidentemente, era quello della Vallesina che, occupato e depre¬dato da bande di Longobardi, passò di fatto sotto il ducato di Spoleto.
A conferma di questa lunga presenza longobarda nello Jesino, il Grizio nota che molte parole del nostro dialetto sono di chiara derivazione longobarda. Gli fa eco, come al solito, il Gianandrea: «Parecchie parole di origine evidentemente germanica si riscontrano infatti nel nostro vernacolo; es. sbregare o sbrego da brechen (rompere) e slmilmente forse breccia (la ghiaia), steppa (manrovescio) da schiappe; maghetti (ventrigli di pollo), magò (peso sullo stomaco) da magen (stomaco), begare (piegare, inchinare) da biegen; luta (favilla) dal gotico liuhtian; sornacchiare (russare) da schnarchen; e così sghescia (fame eccessiva), sguattero (servo di cucina), ecc. Ma non saprei invero — conclude il Gianandrea — come ciò possa parere al Grizio argomento inconvincibile per dimostrare che tali popoli barbari ruinarono Jesi ».

La storia di Jesi

sabato 5 febbraio 2011

SAN FLORIANO



SAN FLORIANO

Con l'editto di Costantino, dunque, cessò lo spargimento di sangue degli innocenti che, anche nella nostra città, avevano preferito subire il martirio piuttosto che sacrificare agli dei falsi e bugiardi. A detta del Grizio, molti erano stati i cristiani di Jesi che, a causa della loro fede, erano stati uccisi prima del febbraio del 313; fra quei martiri v'era stato — secondo la tradizione — anche San Floriano, il quale, con una pietra al collo, fu precipitato per commissione di Aquilino, presidente di Diocleziano, dal ponte del fiume. Intorno a questo santo la tradizione popolare ha imbastito una serie di leggende che ancor oggi vivono tra la nostra gente. «Floriano fu soldato e cavaliere, che più volte combatté per la fede di Cristo»: così il Grizio. Ma la leggenda lo ricorda piuttosto come agricoltore. Seguiamo quest'ultima strada.
Nativo di Cingoli, Floriano era un guardiano di greggi. Un giorno, per rispondere al richiamo divino manifestatosi sottoforma di una dolce eco di rintocchi, aveva lasciato il paese natio e con la sola compagnia di una coppia di candide giovenche, avute in dono dal padre, s'era messo in cammino. Seguendo il suggestivo richiamo delle campane, aveva disceso il corso dell'Esino fino al mare. Sulla spiaggia adriatica, con l'aiuto delle giovenche, aveva tratto a riva una cassa di marmo che galleggiava sulle acque e che conteneva il corpo di Ciriaco, il santo protettore di Ancona. Sempre stando alla leggenda, la spaccatura della Gola della Rossa sarebbe dovuta ad un miracolo operato da San Floriano con le sue invero eccezionali giovenche. Infatti, risalito il corso dell'Esino dal mare a Serra San Quirico, Floriano s'era trovato davanti la barriera invalicabile della catena appenninica. A questo punto era entrato in scena il demonio, che gli aveva fatto pressappoco questo discorso: «Mettiti al mio servizio ed io, con la mia potenza, taglierò in due la montagna per farti passare». Al che Floriano, fattosi il segno della croce ed aggiogato un grosso aratro alle due giovenche, aveva tracciato un solco tale da spaccare in due la montagna, aprendo così quel varco che passa oggi col nome di Gola della Rossa.
L'impresa di Floriano mandò in bestia il demonio, il quale sfidò allora il contadinotto cingolano ad una gara di velocità, dalla Gola della Rossa fino a Jesi: colui che sarebbe giunto per primo in città avrebbe fatto suonare a distesa le campane di tutte le torri jesine. Ma anche questa volta Floriano ebbe la meglio, perché non appena distanziato un po' il singolare concorrente, lo tenne a distanza con dei segni di croce tracciati di tanto in tanto a terra col suo bastone, cosa questa che obbligava il demonio a correre a zig-zag e quindi a perdere continuamente terreno. Floriano non solo giunse nettamente primo a Jesi, ma al suo arrivo fu accolto dal suono festoso delle campane della città che, miracolosamente, s'erano messe a suonare da sole. Il prodigio è ricordato ancor oggi in occasione della festa del santo, che si celebra il 4 maggio, con la vendita sul mercato jesino di piccole campanelle di terracotta: le «campanelle de San Fiora’», appunto.
Stabilitosi definitivamente a Jesi, Floriano condusse qui vita religiosa. II Grizio riferisce che spesso il santo «si riduceva ad orare» nella selva di Gangalìa (anticamente detta Angalea), la quale — precisa il Gianandrea — «si stendeva per lungo tratto nelle colline e nel piano a sud-est della città (una parte di essa o forse una selva più piccola, che le era propinqua, chiamavasi Boarda).
Floriano fu martirizzato, ancora giovanissimo, attorno all'anno 300. Come si è detto, il preside romano lo aveva condannato ad essere gettato nell'Esino con una pietra al collo. Si racconta che il boia non gli concesse neppure il tempo per le ultime preghiere, scaraventandolo subito dal ponte, ma la cosa gli costò la vista perché lo scellerato carnefice restò subito privo del lume degli occhi. A proposito della fine di San Floriano, altri vogliono che patisse morte in Lamagna presso Lauriaco, luogo vicino a Norimberga. Le reliquie di San Floriano saranno ritrovate ai primordi del XV secolo.

giovedì 3 febbraio 2011

SAN SETTIMIO


SAN SETTIMIO
Arriviamo così al 300 dopo Cristo, anno in cui sarebbe giunto a Jesi Settimio, primo messaggero della nuova religione nella Vallesina. L'impero, che negli ultimi decenni ha accusato grossi scricchiolii a causa delle sempre più frequenti scorrerie dei barbari, è ora retto da Diocleziano (284-305). E, questi, un imperatore di origine illirica. Eletto dai soldati, ha afferrato il potere con mano energica; si circonda di una corte sfarzosa, veste alla maniera degli orientali e pretende di essere onorato come un dio. Diocleziano è dunque al potere da una quindicina di anni quando giunge a Jesi Settimio, primo vescovo della nostra diocesi. La vita di questo santo è costruita dalla leggenda e dalla devozione, mancando sul suo conto ogni notizia precisa e documentata; anche noi quindi ci riferiamo, nello scriverne, alla tradizione popolare.
Settimio era nato in Germania nel 250 dopo Cristo da famiglia nobile. Appena quindicenne si era arruolato nell'esercito romano di stanza in Germania e nell'ambiente militare aveva fatto conoscenza con Emidio, dal quale era stato convertito al cristianesimo. Entrambi poi, per meglio dedicarsi alla nuova religione, avevano abbandonato la carriera militare. Dalla Germania erano passati in Francia e quindi in Italia. Dopo essersi fermati per qualche tempo a Milano, si erano portati a Roma.
"Settimio, ivi giunto e visitato con le dovute riverenze il sepolcro dei beatissimi Pietro e Paolo e benignamente ricevuto in casa di un soldato di nome Glaciano, con la virtù di Dio gli liberò una figlia dal flusso del sangue che cinque anni portato l'aveva; onde la famiglia tutta si fece cristiana. Ridiede anche la vista ad un cieco, che pure si convertì."
A Roma, Papa Marcello I aveva consacrato vescovi Settimio ed Emidio, inviandoli nelle Marche, il primo a Jesi ed il secondo ad Ascoli Piceno.
A Jesi, Settimio operò in breve tempo numerose conversioni, il che suscitò la reazione dei più accesi pagani che studiavano il modo per potersi liberare dello straniero. L'occasione venne loro offerta da un decreto dell'imperatore. Infatti, Diocleziano, che aveva trasferito nel frattempo la capitale dell’impero a Nicodemia, nella Bitinia, era diventato sempre più intransigente con i cristiani. Nell'anno 303 emanò il primo di uno dei tanti editti con cui condusse il più grande tentativo fatto dall'impero per estirpare la nuova religione: per la gravita dei danni, il numero delle vittime, l'orrore dei supplizi, quel tentativo passerà alla storia come «la grande persecuzione» o «era dei martiri».
Denunciato dai pagani come «pericoloso nemico dell'impero di Roma», Settimio si trovò così al cospetto di Florenzo, preside romano che governava la colonia di Jesi. Florenzo lo ammonì a non continuare in quella sua attività contraria alla religione di stato, ma il santo intensificò le sue predicazioni, accompagnandole anzi con molti miracoli. Florenzo lo convocò di nuovo e gli intimò di sacrificare agli dei entro cinque giorni, pena la vita. Settimio stimò allora opportuno uscire dalla città per poter continuare con meno rischi l'opera di proselitismo. Si ritirò al di là del fiume, seguito da una folla di convertiti fra i quali la figlia del preside romano, Merenzia, desiderosa di ricevere l'acqua del battesimo di Cristo. Settimio, per praticare il sacramento, avrebbe potuto servirsi delle acque del fiume, ma non osò — dicono gli «storici» — perché sarebbe stato necessario spingersi fin sotto le mura della città, con grave rischio. Fece allora il miracolo di far scaturire dal terreno, in prossimità dell'attuale ponte San Carlo, uno zampillo d'acqua sorgiva.
Allo scadere del quinto giorno si presentò a Florenzo, il quale ordinò che fosse a Settimio percosso il capo con una scure. La sentenza venne eseguita sul luogo stesso ove il santo aveva compiuto il miracolo dell'acqua sorgiva. Prima che la lama del boia gli recidesse il capo, Settimio avrebbe esclamato: «Si bagni pure del mio sangue questo suolo, affinché su di esso nascano non più pagani, ma proseliti alla legge di Dio!».
Secondo il Grizio, la popolazione jesina ebbe un impeto di ribellione contro il prefetto romano: Florenzo fu dal furore dei cittadini irati ammazzato; il popolo gettò a terra il palazzo del detto prefetto, che era posto nella contrada di Fiorenzola, detta dal suo nome in quei tempi Fiorenza, e ne edificò un altro dirimpetto, per la memoria del santo, alla chiesa di San Salvatore (oggi San Nicolò); ma tutto questo è estremamente improbabile. Le ossa del primo vescovo e martire di Jesi, trafugate dai primi cristiani per salvarle dalla profanazione dei pagani, vennero nascoste così bene che per lunghi secoli nessuno seppe più dove erano state riposte: saranno ritrovate soltanto dopo 1.165 anni. San Settimio venne decapitato nel 304. L'anno dopo l'imperatore Diocleziano, stanco e deluso da una politica fallimentare, abdicava. L'abdicazione di Diocleziano significò per l'impero romano nuove guerre civili alimentate dagli immancabili pretendenti alla successione. A mettere fine a quel convulso bailamme ci pensò Costantino, il quale fece piazza pulita di tutto e di tutti, insediandosi quale unico imperatore.
Costantino (il solo fra i successori di Augusto che sia stato capace di rimanere sul trono per più di trent'anni) lasciò di sé una traccia molto importante: non tanto per aver diviso il potere civile da quello militare e neppure per aver trasferito la capitale dell'impero a Bisanzio, ma per il famoso «editto di Milano» del febbraio del 313, grazie al quale finalmente i cristiani potevano professare in piena libertà la loro fede senza essere in alcuna maniera molestati. Anche a Jesi i numerosi convertiti da San Settimio non ebbero più bisogno di tenersi nascosti e le file dei cristiani andarono rapidamente infoltendosi in ogni ordine sociale.

LA PRIMA CATTEDRALE

Primo pensiero dei fedeli jesini fu di erigere una chiesa dedicata a San Settimio. E fu, quella, la prima cattedrale di Jesi. Ma non si sa con precisione quando e dove sorgesse. Alcuni dei nostri storici affermano che venne costruita sul punto più elevato della città, ove si ergeva in precedenza il tempio di Giove, ove cioè è l'attuale chiesa cattedrale; altri indicano come ubicazione più probabile il luogo dov'è oggi la chiesa dissacrata di San Nicolò. Entrambe le ipotesi, però, fanno a pugni con la storia e la logica. Vediamo. La prima ipotesi viene a cadere quando si sa che, come vedremo, ancora nei decenni che seguirono l'editto di Milano era proibito abbattere o adattare i templi pagani; non è da credere che i cristiani di allora attendessero l'abrogazione di quella legge per innalzare una chiesa intitolata al loro patrono. L'altra ipotesi, ben più fragile, non regge perché è scontato che a quei tempi la città era tutta raccolta nel vecchio nucleo storico e non si vede perché mai la cattedrale avrebbe dovuto essere edificata in zona scampagnata, seppure non molto lontana. E' senz'altro da ritenere, quindi, che la prima chiesa jesina sorgesse nell'acropoli, ma su un'area diversa da quella della cattedrale di oggi.
Di quella chiesa si è poi perduta ogni traccia, o perché ebbe a subire nel tempo radicali trasformazioni che ne fecero dimenticare l'originaria struttura e destinazione, o perché rovinò con gli anni. Non a caso il Cecon osserva che venne costruita «in un periodo di deficienza, se non di mancanza, di alcuni materiali, ma soprattutto di carenza di tecnici, per cui l'opera non poté allora essere riuscita con quel criterio estetico e con quella stabilità che sarebbero stati desiderabili».

Storia di Jesi