giovedì 24 luglio 2014

IN GUERRA CONTRO ANCONA


IN GUERRA CONTRO ANCONA

Alla peste subentrò nella nostra città, inevitabilmente, una grandissima carestia. Per venire incontro alle precarie condizioni degli Jesini, Pio II, l'11 settembre del 1458, confer­mava loro tutti i privilegi avuti dai precedenti pontefici; successi­vamente, il 29 agosto del 1460, vendeva loro tutti i beni che erano appartenuti alla Camera apostolica nella Curia del castello di Morro.
Pio II, succeduto a Callisto III nel 1458, era il celebre Enea Piccolomini, una delle figure più insigni di umanista e di mecenate del XV secolo. Egli ebbe non poche preoccupazioni a causa degli Anconetani e fu costretto ad interessarsi più volte delle dispute fra Jesini e Dorici. I quali erano appena usciti dalla più terribile delle epidemie che già avevano ripreso la guerriglia.
Gli Jesini, nonostante gli accordi conclusi qualche anno prima, avevano occupato presso il Castello di Camerata alcune terre che il Comune di Ancona aveva donato ad Astorgio Scotivoli, valoroso uomo d'armi al servizio dì Francesco Sforza, ed interdissero agli uomini di Ancona di far le semine, intra­prendendo una grossa scorreria per il contado. Gli Anconeta­ni, che anelavano dal desiderio di vendicarsi della rotta subita ad opera dei Nostri nel 1309, si rivolsero allora a Sigismondo Malatesta il giovane, per combattere gli Jesini. Sigismondo in un primo momento inviò il figlio Roberto, che prese a scorraz­zare per il territorio di Jesi.
I Nostri, informati che il Malatesta si era schierato dalla parte degli Anconetani, ne ebbero gran dolore, in quanto, essen­do ancora la città, per la peste passata, vuota d'uomini, temevano un insuccesso. Il magistrato pose alla guardia di ciascuna porta della città cinquanta balestrieri e studiò il da farsi per tenere testa al nemico anche nel territorio del Contado. Allo scopo, spedì Fiorano Santoni, con duecento villani fatti nelle ville nostre, alla guardia di S. Marcello e Belvedere. Ro­berto Malatesta, che a sua volta era venuto a conoscenza del piano difensivo dei Nostri, puntò verso Musciano (Monsano) e Barbara, deciso a conquistare questi due castelli.
Monsano dipendeva direttamente da Jesi. Barbara aveva fatto parte dei possedimenti del nostro Comune fin dal 1257, ma in seguito aveva riscattato la propria indipendenza ed ora era semplicemente un alleato di Jesi. I Monsanesi, non appena videro comparire l'avanguardia del nemico, si arresero. Gli uomini di Barbara, invece, opposero una tenace resistenza. E poiché gli assedianti disponevano di due pezzi di artiglieria con i quali avevano preso a far fuoco per aprire una breccia nelle mura del castello, costruirono a tempo di record, all'interno delle stesse mura, munite trincee dietro le quali i difensori avrebbero potuto trovare riparo per continuare la resistenza, una volta cadute le mura.
Visti gli sviluppi della situazione, a Jesi si iniziò il reclu­tamento di uomini per inviare aiuti ai Barbaresi e per ricon­quistare Monsano, procurato nel frattanto di raffrenare l’armi dei nemici, i quali, essendosi insuperbiti per aver avuto senza sangue il detto castello, ogni giorno facevano scorrerie per il ter­ritorio nostro e andavano giungendo a volte fin quasi presso le mura della città. Inoltre, con promesse e con doni, cercavano di corrompere gli altri castelli del Contado jesino. Pare anzi che San Marcello fosse sul punto di vendersi al nemico, ma i Nostri intervennero con estrema decisione e minacciarono pesanti rap­presaglie contro gli abitanti di quel castello; i quali, per farsi perdonare il tentato tradimento, dovettero accettare le condi­zioni poste dai Nostri e cioè il pagamento di 450 fiorini d'oro e l'obbligo di venire ad abitare a Jesi.
Intanto si era verificato un fatto nuovo che, nella guerra contro gli Anconetani, doveva avere ripercussioni favorevoli per noi: Sigismondo Malatesta, contro la volontà del papa, invece di portare aiuto ad Ancona (che lo aveva pagato per questo), occupò Pesaro, Fano e Senigallia (che appartenevano alla Chiesa), suscitando le ire di Pio II anche contro Ancona. Cosicché il pontefice inviò in soccorso degli Jesini il bolognese Virgilio Malvezzi al comando di duecento fanti e ottocento cavalieri. A questi si aggiunsero gli uomini che erano stati reclutati nel nostro territorio. Per Jesi era il momento di iniziare la controffensiva.
I Nostri posero ai passi quattrocento uomini e spedirono il Malvezzi, alla testa di duemila fanti, verso Monsano per riconquistarlo. L'occupazione di quest'ultimo, tuttavia, avven­ne senza colpo ferire; Guidone da Urbino, Battista Ambroselli da Verona e Giovanni da Cesena, che presidiavano quel castello per conto del Malatesta, consegnarono le chiavi del paese al Magistrato jesino, il quale, recatosi a Monsano, aprì personalmente le porte del castello, le serrò in segno di legitti­mo possesso e fece porre alla sommità della torre la bandiera del Comune di Jesi, nella quale vedevasi in campo rosso, di seta, effigiato un leone bianco con corona d'oro in testa. Suo­narono subito per allegrezza tutte le campane del luogo e tutto il popolo gridò ad alta voce: «Viva nostro Signore, la Santa Chiesa romana e la Comunità di Jesi!». Il magistrato conse­gnò poi le chiavi a Tommaso di Fiorano, sindaco del Comune, il quale con una comitiva di giovani nobili andò nel castello e al Comune di quello consegnò le dette chiavi, acciocché le custodisse.
Il magistrato ordinò infine che fossero demolite le mura del castello, a spese degli stessi abitanti di Monsano, e che nessuno potesse uscire dalla terra fino a che tale ordine non fosse stato eseguito. Al che i Monsanesi, per evitare che venis­se messo in atto il provvedimento, inviarono ambasciatori al magistrato di Jesi per chiedere perdono del loro tradimento (si erano arresi al Malatesta, come si è visto, senza combatte­re). Il magistrato, con licenza del Consiglio generale, li per­donò a condizione che pagassero quattrocento fiorini d'oro e che i principali del castello venissero ad abitare a Jesi.
I «CAPPELLETTI»
Nel periodo in cui gli sforzi dell'esercito jesino erano con­centrati nella riconquista di Monsano, gli alleati di Barbara avevano continuato la loro coraggiosa resistenza, ma ormai erano allo stremo. Ripetute volte avevano mandato a chiedere rinforzi e vettovaglie agli Jesini, ma i Nostri, impegnati sull'altro fronte, non erano stati in grado di portare un valido determinante aiuto agli assediati. Questi ultimi, allora, per obbligare gli Jesini ad intervenire a loro favore in maniera concreta, sottomisero la terra, le famiglie ed i figliuoli loro sotto la giurisdizione di questa città di Jesi e domandarono come sudditi di nuovo il già domandato aiuto; in altre parole, i Barbaresi da alleati divennero sudditi di Jesi, certi che i Nostri, desiderosi di difendere le cose loro, avrebbero fatto tutto il possibile per liberare gli assediati.
I Barbaresi avevano visto giusto. Infatti gli Jesini armaro­no sollecitamente duecento «cappelletti» con l'incarico di portarsi al più presto a Barbara. I «cappelletti» — così chiamati per via di certi cappelli aguzzi con cui erano soliti ricoprirsi — erano giunti in Italia dall'Albania poco dopo la peste per sfuggire al dominio dei Turchi e, nella nostra zona, si erano stabiliti in campagna, per lo più nelle parti del fiume (pare che vivessero quasi come banditi). Oltre ai «cappel­letti», gli Jesini comandarono che tutti gli artefici atti a por­tar armi dovessero andare in soccorso della Barbara e che ciascuno portasse vettovaglia per vivere per due giorni.
Ma proprio in quei giorni il Malatesta decideva di togliere l'assedio a Barbara. I Nostri, informati dell'itinerario che avreb­bero percorso i malatestiani, pensarono di tendere loro un'imboscata, che però fallì per il tradimento di una spia degli Anconetani.
Sigismondo Malatesta il 2 luglio del 1461 affrontava in cam­po aperto, nei pressi di Castelleone di Suasa, le truppe pontificie comandate dal Malvezzi e da Pier Paolo de' Nardini, infliggen­do loro una pesante sconfitta, tanto che gli Jesini, sorpresi per i successi ottenuti dal Malatesta, il 12 luglio di quell'anno mandarono quelle genti già assoldate dal Malvezzi e rimaste sempre in città, a guardia dei castelli di Morro, Belevedere e San Marcello. Tuttavia, nonostante le misure di emergenza adottate dai Nostri, sul versante destro dell'Esino l'esercito del Malatesta predò e ruinò una parte del territorio nostro e spianò alcune sontuose abitazioni fatte nelle colline vicine dai nostri gentiluomini; sul versante sinistro, invece, i Nostri sostennero alcuni scontri con gli Anconetani: la sorte ci fu sì favorevole che, non solo i Nostri restarono superiori nella battaglia ma anche signori del loro stendardo. Onde si vedeva­no nelle logge del nostro palazzo, con gran festa del popolo, le loro insegne in guisa di un trofeo, rovescie; e vi si scorgeva­no insieme i padiglioni che l'anno 1309 erano stati tolti pure a loro.

Ai primi del 1461 era giunto nella Marca il cardinale Alessandro Oliva con l'incarico, avuto da Pio II, di mettere fine alle lotte fra Jesini e Anconetani. Il cardinale Oliva, nativo di Sassoferrato, dopo essere stato generale dell'ordine agostiniano cui apparteneva, aveva ricevuto la porpora cardinalizia l'anno prima, anche in riconoscimento dell'opera di pacificazione da lui svolta in Toscana e nell'Umbria.
Già prima di affidare al cardinale Oliva la missione di mediatore, il pontefice aveva rivolto inutilmente tutte le sue cure alle annose questioni fra le due città della Marca nel tentativo di ristabilire la pace e l'armonia; a questo scopo ave­va indirizzato due lettere agli Anconetani ed agli Jesini, rim­proverando ai primi di essersi rivolti per aiuti al Malatesta ed ai secondi di aver osato compiere scorribande nelle terre degli Anconetani.
Ora, mentre le due città si davano battaglia, il cardinale Oliva svolgeva con successo la sua opera di pace in Ancona, successo favorito anche dal contegno del Malatesta che, indisponendo gli Anconetani, iì rese più arrendevoli e propensi ad accordi. Verso la fine di febbraio, in un incontro in Osimo tra ambasciatori anconetani e jesini, la pace sembrò raggiunta.
Ma non fu che una pace apparente. R. Elia ne addossa la colpa agli Jesini, «rei» di essersi appellati al papa contro la sentenza dello stesso Oliva. Per questa ragione Pio II, con Breve dell'11 aprile, ordinava agli Jesini di astenersi dal dan­neggiare gli Anconetani e dal fare innovazioni nei territori di Monsano e di Chiaravalle. Altra intimazione simile faceva il 19 maggio.
LA RESA DEL MALATESTA
Si andò avanti così per altri mesi, finché il papa, deciso a farla finita con i disordini nelle Marche, stabilì che il primo passo da fare in questo senso era quello di liquidare per sempre Sigismondo Malatesta. Gli inviò contro Federico di Urbino, il quale, il 12 agosto del 1462, gli infliggeva una dura sconfitta, tanto da costringerlo a riparare in Puglia (rientrerà a Rimini l’anno seguente, dopo essersi riconciliato con la Chiesa). Pio II concentrò poi i suoi sforzi per porre fine alla rivalità fra Jesini e Anconetani, tutt'altro che riappacificati nonostante gli sforzi del cardinale Oliva. Infatti, il 17 luglio 1463 gli Anco­netani avevano occupato il castello di Montemarciano, che era stato invece assegnato dal papa agli Jesini con bolla del 30 aprile 1461 a titolo di compenso per i danni che i Nostri avevano subito dagli Anconetani.
«II legato del papa, cardinale di Trani (Nicolò Forteguerri) — scrive il Natalucci — chiese agli Anconetani la restituzione di Montemarciano e di altri castelli che tenevano ancora occupati. E poiché la comunità oppose un rifuto, il papa, indi­gnato, scagliò l'interdetto contro la città e fu dato ordine a Federico di Urbino di marciare contro Ancona. Sotto la minac­cia di un'azione militare, la comunità inviò il suo ambasciatore al legato per la restituzione di Montemarciano e per rimettersi, in quanto agli altri castelli, al beneplacito di Pio II. Il papa, in un Breve del 1463, considerando le stragi, le rapine e le altre calamità avvenute nel territorio ecclesiastico a causa della guerra, invitava i cittadini alla pace, che fu conclusa il 12 otto­bre del 1463 con la restituzione da parte di Ancona delle terre occupate. Di Montemarciano Pio II fece un feudo per il nipote Giacomo Piccolomini e per i suoi discendenti».

LA CHIESA DELLE GRAZIE


LA CHIESA DELLE GRAZIE

Ogni tanto, comunque, anche se costrettivi da situazioni contingenti, Jesini e Anconetani erano capaci di concedersi qualche periodo di tregua. Il 28 ottobre del 1454, ad esempio, una solenne composizione tra le due città, massime pei negozi del passo e dell'acqua, era stipulata tra le due città rivali; la tregua era sancita da capitoli, che si facevano per anni venti. Praticamente, in quel periodo Jesini e Anconetani erano stati costretti a mettere da parte ogni rancore per il sopraggiungere di una brutta calamità che non avrebbe risparmiato la regione. Si diffuse, infatti, e infierì crudelmente la peste marrana, la quale serpeggiò, con brevi intervalli, per tutta l'Italia dal 1450 al 1457. A Jesi si manifestò verso la fine del '54 e durò fino al '56. La peste assalì con tanto impeto la nostra città che non bastavano i deputati a seppellire i morti e a governare gli ammalati, i quali erano così numerosi che, sebbene non campavano più di due giorni, nella sola nostra città se ne contavano fino a tre o quattrocento al giorno. Invano si cercarono rimedi per debellare il grave morbo. Alla fine il popolo ricorse all'aiuto di Dio e fece voto di edifi­care una chiesa in onore della Madonna. Le invocazioni degli Jesini vennero esaudite, perché di lì a poco tempo la peste cessò. I superstiti, allora, per tener fede alla promessa fatta, si diedero subito da fare per costruire la chiesa, che venne edificata fuori delle mura, in contrada Terravecchia (ove è oggi la chiesa delle Grazie). Narra il Grizio: «Dicesi che la detta chiesa, aiutando gli uomini e le donne, le fanciulle e i fanciulli a portare la pietra, l'acqua e la calcina, fu fabbricata in un giorno».
La chiesa (in realtà era una chiesetta) venne intitolata a Santa Maria Egiziaca, «Nome veramente esotico — scrive il carmelitano C. M. Catena — che può avere la sua spiegazione sia in un presunto tipo orientale della pittura, sia anche come un'eco di quella diceria che in quei tempi girava attorno ai car­melitani (la loro S. Maria non sarebbe stata la Madre di Dio, bensì la penitente S. Maria Egiziaca; diceria sfatata dal Manto­vano nella sua Apologia del 1513)». Nella chiesetta venne sistemata una immagine della Madonna, vecchia almeno di cento anni, che si trovava sul muro esterno di un casolare fuo­ri porta, nella stessa contrada di Terravecchia, e che si vuole opera di un pittore bolognese, certo Lippo di Dalmazio. Questa chiesa avrà il titolo di Santa Maria delle Grazie solo nel 1565.
Eretta la chiesa, il Consiglio generale chiamò ad officiarla un certo Andrea da Matelica (lo stesso Consiglio nel 1486, con delibera votata all'unanimità, accoglierà la richiesta dei Car­melitani di prendere ufficialmente possesso della chiesa stes­sa). Nel 1466 nell'interno di quel tempio venne posta una bellissima opera pittorica — attribuita dai più ad Antonio da Fabriano — raffigurante la Madonna con ai piedi un gran numero di fedeli. Molto probabilmente essa sostituì quella che, secondo la tradizione, era stata dipinta da Lippo di Dalmazio. L'autore del nuovo affresco si è raffigurato, in atteg­giamento ispirato, in prima fila, a sinistra di chi guarda, tra la folla dei fedeli.
«L'affresco — scrisse il Benigni — ha evidenti caratteri quattrocenteschi e, precisamente, caratteri della scuola del Gentile, che richiamano influssi senesi e fiorentini, quali si riscontrano nell'arte del grande fabrianese: il senso tutto affatto musicale del colore, lo squisito senso decorativo, il preziosismo dei broccati e degli ori, nonché le ricerche naturali etiche tendenti ad individuare volti ed atteggiamenti. L'aspetto ieratico della Vergine, che estende il suo manto di materna protezione su tutti i figli suoi, e le sue stesse proporzioni super-umane stanno come ad esaltare la potenza spirituale di lei, cui splende in grembo il Figlio di Dio».


GLI STATUTI


GLI STATUTI 

Terminata l'avventura marchigiana di Francesco Sforza, la nostra città si ritrovò di nuovo in preda alle lotte intestine. Alle antiche rivalità tra guelfi e ghibellini, si aggiunsero quelle tra «sforzeschi» e «bracceschi», sostenitori i primi dello Sforza ed i secondi di Nicolò Fortebraccio. Per porre termine a queste lotte, il consiglio generale della città, nei mesi di agosto e settembre del 1447, votò una serie di delibere, con le quali si faceva obbligo a tutti gli abitanti di giurare ogni anno piena devozione alla Chiesa; inoltre ogni cittadino era tenuto a far precetto nel suo testamento che i figlioli e gli eredi, pena la maledizione, persistessero sempre nella vera obbedienza e fedeltà della Chiesa stessa. Ed era severamente proibito dichia­rarsi partigiano di questa o di quella fazione; si poteva incor­rere in gravi punizioni soltanto a nominare guelfi, ghibellini, sforzeschi, ecc.
Il 26 febbraio dell'anno successivo il consiglio generale decise di compilare e definire i nuovi statuti della città e del contado. L'incarico, come si è accennato in precedenza, venne affidato a due jesini e a due contadisti: Angelo Colocci e Antonio di Angelo, in rappresentanza della nostra città, Stefano Onofri da Cupramontana e Domenico di Bartolomeo da Castelplanio per il Contado. Alla stesura collaborò anche un frate, Domenico da Leonessa, che si trovava a Jesi per un ciclo di predicazioni. Quegli statuti, considerati rispetto ai tempi, sono un perfetto codice religioso, civile, criminale e politico. In essi si viene alle più minute particolarità delle cose, non trascurandosi neppure la pesca, la coltivazione degli olivi, degli orti e stabilendo anche la misura dei mattoni e dei coppi, la forma dei quali si vede ancora scolpita nel muro del nostro Palazzo (della Signoria).
«L'opera degli Statuti jesini — scrive il Colini — si divide in sei libri. Il primo libro tratta completamente dell'elezione di tutti i magistrati ed ufficiali minori. Ivi sono stabilite le feste da celebrarsi annualmente nel Comune e la maniera di convocare e dirigere i Consigli generali e quelli così detti di Credenza. Chi mancava a quelle riunioni doveva subire la pena di una multa. I diligenti e gli assidui ricevevano un premio.»
«II secondo libro contiene 107 rubriche con le quali viene regolata l'amministrazione della giustizia, tanto per le cau­se civili quanto per le criminali. In questa parte sono anche designate la attribuzioni del podestà e del vicario nelle cause civili, dei contratti di compra-vendita, di prestito, di restituzione e della maniera di costituire ipoteche. Vi si parla delle doti alle donne che vanno a marito, della successione dei figli ai genitori, della moglie al marito, del modo di fare gli inventari nelle successioni, dei contratti fatti dalle donne e dei debiti che esse potevano aver fatti prima del matrimonio...»
«II terzo libro, colle sue rubriche, provvede alla sicurezza interna della città. Descrive i delitti contro la proprietà pubblica e privata che dovevano essere puniti. Non mancano le pene per coloro i quali usano cattivi trattamenti alle bestie e rompono i nidi degli uccelli. Prevenendo il caso della esistenza dei banditi nel territorio del Comune, sono stabilite le taglie da elargirsi a chi li arresta o li uccide. I genitori possono impunemente percuotere i propri figli…»
Erano severamente puniti coloro che prendevano falso nome, che cospiravano a danno del Comune e che osavano esporre il vessillo comunale in tempo di sommossa. Nessuno poteva abbandonare la città in tempo di guerra. Il venerdì santo era il giorno stabilito in cui i carcerati venivano lasciati in libertà.
«II libro quarto comprende le leggi sulla pulizia urbana e rurale.»
Era proibito il gioco delle piastrelle nelle piazze e nelle strade. Non si poteva lanciare pietre, palaferri e lance, né gettare pallottole e frecce con arco e balestra. Non si per­metteva neppure il gioco o qualunque altro di dadi (nel medioevo i giochi principali, non solo a Jesi, erano due: quello dei dadi e l'altro delle tavole; il primo era detto gioco «a zara», chiamato poi gioco d'azzardo: si giocava con tre dadi; il giocatore che otteneva il punto gridava «azar!»; nel gioco delle tavole si adoperavano le pedine, che talvolta erano anche dadi, e le scacchiere; il gioco dei dadi, che in molte altre parti d'Italia era permesso a Natale, da noi era sempre proibito).
«II libro quinto tratta delle pene contro coloro che arreca­no danni ai proprietari dei campi coltivati e ai prodotti agricoli.»
Veniva inflitta una doppia pena a chi faceva questi danni di notte. Il giudice doveva essere nato e dimorante in luogo alme­no lontano trenta miglia da quello ove esercitava la sua giurisdizione. Egli comminava pene soltanto pecuniarie. Il pote­re del giudice era di grande importanza: sulle sue proposte deliberava quella riunione di duecento capi di famiglia scelti dal Consiglio tra i migliori e più ricchi della città.
«Nel sesto libro si parla dell'ufficio e giurisdizione del giudice di appello, del modo come questo deve esser fatto ed i casi nei quali non è lecito appellarsi».
Sempre per il quieto vivere, in data 14 gennaio 1453 il Con­siglio generale emanava nuove disposizioni, suggerite queste da un certo frate Giovanni, dell'ordine dei Minori, che era venuto a Jesi per appianare talune divergenze sorte con il contado. Il Gianandrea ne ricorda alcune: «a) che ogni ope­raio e artigiano sia obbligato di osservare tutte le feste comandate dalla Chiesa dalle ore 24 della vigilia, eccetto gli speziali, i flebotomi e i ferratori di cavalli; b) che nessuna donna osi portare vesti con divise e frappe, e che delle vesti non si tra­scini per terra oltre un terzo del braccio: pena dieci ducati da infliggersi anche ai sarti; c) che nessuno osi trasformarsi o mascherarsi: pena undici fiorini; d) che si faccia un bussolo donde estrarre al principio d'ogni reggimento di nuovo podestà due cittadini, che col podestà stesso compongano ogni contro­versia tra città e Contado con pieni poteri ».
ANCORA IL PICCININO
Effettivamente i provvedimenti presi dal governo jesino ottennero lo scopo di tenere a freno, per qualche tempo alme­no, le velleità dei partigiani delle varie correnti politiche dell'epoca. Ma non v'era pace, per la città, sulla quale gravavano nuove nubi. Dopo la partenza di Francesco Sforza, s'era dovuto far fronte ad alcune scorrerie di Albanesi, che minac­ciavano le contrade del Contado; poi, nel 1450, c'era stato l'arrivo di Giovanni Piccinino al comando di un forte esercito, spedito a guardia di Jesi dal pontefice Nicolò V per tema dei Senesi, Fiorentini e Veneziani che guerreggiavano tra di loro. Gli Jesini, ritenendo che si trattasse di un pretesto per assegnare al Piccinino la signoria della nostra città, si erano allarmati ed avevano costretto il magistrato, sotto la minaccia di una sollevazione popolare, a chiedere al papa lo sgombero della città da parte delle truppe del Piccinino.
Per rivolgersi al papa era stato deputato in quella occasio­ne Ser Ugolino Salvoni, procuratore jesino presso la curia romana. Con Breve del 1° luglio del 1450, Nicolò V aveva chiarito che il Piccinino era a Jesi per vigilare non solo sulla nostra città, ma su tutta la provincia. Tuttavia, poiché i Nostri erano rimasti diffidenti, alla fine il papa aveva ordinato che il Piccinino alloggiasse con le sue genti alla campagna.
Poi era scoppiata una nuova lite con gli Anconetani; pomo della discordia, questa volta, il possesso di Chiaravalle. «Sembra — scrive il Gianandrea — che la discordia avesse origine per un mutamento d'alveo avvenuto nel nostro fiume sul principio dei secolo XV; onde un buon tratto di terra spettante alla badia restò fuori, di verso Ancona, del confine naturale tra essa e Jesi». La questione avrebbe potuto essere risolta senza eccessive difficoltà, trattandosi, tutto sommato, di una piccola fascia di terra; ma ormai un profondo astio divideva le due popolazioni ed ogni piccola divergenza assumeva dimensioni macroscopiche fino a trasformarsi in un grosso «affare di stato».
Le due città, quindi, erano di continuo su l’armi; quelli (gli Anconetani) facevano vari ordini e leggi contro i nostri cittadini; i Nostri, incrudelendo anche contro quelli che entravano nel loro territorio senza salvacondotto, contro di loro. Per oltre tre secoli Jesini e Anconetani si guardarono in cagne­sco, dando luogo a contrasti e rappresaglie senza numero: cause di lunga durata, promosse e agitate da entrambe le parti innanzi ai luogotenenti e vicari provinciali e innanzi la Curia romana; ma qualsiasi tentativo di pacificazione o di comporre amichevolmente le molte vertenze fallivano sul nascere o non andavano quasi mai a buon fine; cosicché non di rado le liti sfociavano in terribili assalti e guerre sanguinose. Dal can­to loro, i luogotenenti, i vicari e la stessa Curia romana, nel tentativo di sanare le frequenti dispute, ripiegavano spesso e volentieri su minacce o scomuniche o interdetti che tornavano quasi sempre a nostro danno. «I documenti relativi a tutto questo — osserva il Gianandrea — nel nostro archivio (comu­nale) sono in numero veramente strabocchevole».
Abbiamo rievocato, nel nono capitolo di questa «storia», la dura battaglia che gli Jesini vinsero a Camerata nel 1309. Si è fatto cenno più volte anche alle annose dispute fra Jesini e Anconetani per il possesso di Monte S. Vito e della rocca di Fiumesino (Rocca Priora). Un altro gravissimo soggetto di contesa fu il pas­saggio libero al mare tra la foce dell'Esino e il villaggio delle Case Bruciate, che i Nostri pretendevano e che gli Anconetani impedivano.
 Fra i tanti, un ennesimo elemento di disputa è ricordato dallo stesso Gianandrea: «18 giugno 1451: è riferito in Consiglio di credenza che gli Anconetani hanno fatta una chiusa per deviare le acque del fiume; si delibera che si mandi subito a guastarla»: quasi dei dispettucci fra ragazzi che provano gusto a danneggiarsi.

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martedì 22 luglio 2014

FRANCESCO SFORZA

FRANCESCO SFORZA

Gli ultimi anni del XIV secolo ed i primi decenni del XV secolo furono molto difficili per la Chiesa, minacciata da due scismi, il secondo dei quali portò nelle nostre contrade uno dei più audaci e geniali condottieri del tempo,
Francesco Sforza, che sarà per molti anni Signore di Jesi.
Il primo scisma d'occidente aveva avuto inizio dopo la morte di Gregorio XI, allorché, come abbiamo visto, al suc­cessore Urbano VI i Francesi avevano contrapposto Clemente VII. Nel tentativo di sbloccare quella incresciosa situazione, personalità ecclesiastiche e laiche si radunarono a Pisa e, con­vinte che non vi fosse soluzione migliore, dichiararono depo­sti i due papi in carica, eleggendo al loro posto un nuovo papa nella persona di Alessandro VI, arcivescovo di Milano. Ma poi­ché né Urbano VI né Clemente VII rinunciarono alla tiara, ad un certo momento la Chiesa si trovò ad avere tre papi nello stesso tempo. 
Per sanare il tragico dissidio, intervenne Sigismondo di Lussemburgo, re di Germania, d'Ungheria e di Boemia. Questi prese l'iniziativa di convocare a Costanza un concilio, che durò tre anni, dal 1414 al 1417.  L'assemblea diede i suoi frutti: il 20 maggio del 1415 Giovanni XXIII (nel frattempo succeduto ad Alessandro VI) fuggiva travestito e veniva deposto il 29 maggio; il 4 luglio Gregorio XII dava le dimissioni; ventidue giorni dopo veniva deposto Benedetto XIII (questi ultimi due erano succeduti ad Urbano VI e Clemente VII). L'11 novem­bre dello stesso anno era eletto — unico papa, finalmente — Martino V.
Il secondo scisma d'occidente prese l'avvio praticamente nel 1431 quando, succedendo a Martino V, salì la cattedra di Pietro Eugenio IV. Il nuovo eletto era il cardinale Condulmer, che per un certo tempo era stato anche legato pontificio nella Marca d'Ancona. Eugenio IV, austero ed autoritario, ebbe subi­to grossi contrasti con il Concilio di Basilea, che, contro il suo volere, era stato convocato, come il precedente, da Sigismondo di Lussemburgo.
Fin dalle prime sessioni i cardinali avevano citato il papa ad intervenire a quel Concilio, ma Eugenio IV si era sempre rifiutato di parteciparvi; anzi, replicò energicamente e, dan­nando il luogo come discommodo agli Italiani, levò la fede a quelle astoni. Contro Eugenio IV ed a favore del Concilio di Basilea, si schierò Filippo Maria Visconti, duca di Milano, il quale istigò Francesco Sforza, che era alle sue dipendenze, ad invadere gli Stati della Chiesa.
L'avanzata verso la Marca d'Ancona del famoso condottie­ro fu così rapida che lo si seppe prima qui giunto che partito di Romagna. Francesco Sforza il 7 dicembre del 1433 era a campo sotto Jesi con tutto l'esercito e la famiglia civile e militare: della prima facevano parte Angelo Simonetta, suo particolare segre­tario, il conte Francesco Salimbeni da Siena, Contuccio de Mattheis e Boccaccino Degli Alamanni; dell'altra Alessandro, Giovanni e Leone Sforza fratelli, Foschino e Lorenzo Attendo­lo, Pier Brunoro da San Vitale.
Scrive il Natalucci: «Sulle ragioni che hanno indotto lo Sforza ad occupare la Marca sono diversi i pareri. Si pensa in genere che Filippo Maria Visconti abbia spinto all'impresa lo Sforza per liberarsi di un pericoloso competitore e per far di­spetto ad Eugenio IV, veneziano ed amico della repubblica, da cui egli aveva ricevuto gravi sconfitte ».
Altri affermano «che sarebbero stati gli stessi abitanti della Marca ad invitarlo, stan­chi dell'oppressione del Vitelleschi (vescovo di Recanati e ret­tore della Marca) e smaniosi di novità. Quali che siano stati i reali motivi dell'occupazione, lo Sforza finse di volersi recare in Puglia per sottomettere alcuni castelli che si erano ribellati alla sua autorità; poi, togliendosi la maschera, si presentò qua­le liberatore delle popolazioni marchigiane dal giogo papale ed esecutore dei mandati del Concilio di Basilea».
In effetti, il giorno stesso in cui giunse a Jesi, Francesco Sforza lanciava da qui ai popoli della Marca un proclama in­vitandoli a ribellarsi ad Eugenio IV ed a sottomettersi alla sua Signoria.
«Ragguardevoli uomini, amici e carissimi come fratelli, — così iniziava il proclama — perché potrebbe essere, non sapen­do voi la cagione della venuta mia in questa parte, che ne stiate dubbiosi, vi avviso con questa per cavarvi da ogni ammirazio­ne, che ne poteste avere, come io già sono venuto per comanda­mento del santo Concilio. Il quale... volendo privarlo (Eugenio IV) come persona ingrata a Dio e che non merita tanta dignità e grado, mi ha chiesto, pregato e comandato che debba venire a queste parti perché tolga tutta questa provincia alla sua ob-bedienza; e non solamente qui, ma in ogni altro loco ove mi potessi estendere, io debba in suo apposito operare e fare ogni cosa a me possibile, pretendendo il santo Concilio totalmente il suo disfacimento. E pertanto, volendo io essere obbediente... sono venuto in queste parti disposto voler mettere la com­pagnia e quanto ho al mondo in vostro favore, con intenzione ai non abbandonarvi mai ».
«Vi potrò ben difendere da qualunque persona vi potesse nuocere e far contro di voi — diceva più oltre Francesco Sforza —. Sicché, ricevuta questa, vogliate dar licenza a tutti e a ciascun officiale che si trovasse all’obbedienza del detto Eugenio, e non gli dobbiate rispondere di niuna taglia, né d'altra sovvenzione o pagamento per qualunque modo si sia, né gli dobbiate fare altra obbedienza; avvisandovi che, facendo il contrario, si procederà contro di voi, e per ogni denaro che pagherete ve se ne farebbero pagar due... E perché possiate esser più certi della mia buona volontà verso di voi, manderete da noi quattro dei vostri cittadini, coi quali possa più a pieno conferire di quanto sarà di bisogno. E perché costoro possano venire senza alcun sospetto, nonostante che non ve ne fosse di bisogno, più per loro norma, voglio che questa lettera sia a loro ed a chiunque venisse con loro pieno e valido sal­vacondotto di poter venire e tornare senza impaccio, novità, ne altro ostacolo ».
La lettera portava in calce un post datum: «Io vi avverto che ho avuto la città di Jesi con tutto il Contado, Montefilottrano, Staffolo ed altre terre ed ogni dì spero aver delle altre ».
In realtà quando Francesco Sforza aveva scritto quella lettera, non era ancora entrato a Jesi, pur essendo sul punto di occuparla. La nostra città, secondo gli ordini del Vitelleschi, era presidiata da Giosia di Acquaviva, duca di Atri, subentrato al capitano Sancio Cirillo — passato, armi e bagagli, allo Sforza — nel comando delle truppe pontificie.
Il Giosia disponeva di un grosso numero di soldati, ma, sorpreso e spaventato dall'improvviso assalto, cedette Jesi allo Sforza, patteggiò vantaggiosamente per i suoi e si rifugiò a Recanati. Racconta il Grizio che lo Sforza ebbe facile gioco nella conquista di Jesi, perché i nostri concittadini l'intromisero dentro la città e voltarono l'armi contro Giosia; la qual cosa trova spiegazione nell'antipatia che le popolazioni mar­chigiane nutrivano nei confronti del governatore pontificio: troppi motivi di odio aveva cumulato sul suo capo il Vitelleschi.
SIGNORE DI JESI

Francesco Sforza, divenuto Signore di Jesi, ricevé onori, doni e festeggiamenti come amico e liberatore. Dopo tre giorni, lasciata una guarnigione nella nostra città, proseguì la marcia verso il Sud e la sua fu quasi una marcia trionfale, perché i pae­si e le città si sollevarono ovunque, invocando la protezione del nuovo conquistatore: entro la fine del 1433 praticamente tutta la Marca era sotto la Signoria dello Sforza. Il quale si trasferiva poi in Umbria, arrivando, di successo in successo, fin quasi alle porte di Roma.
A questo punto, per evitare il peggio, papa Eugenio IV reputò opportuno scendere a patti con lo Sforza, che nel marzo del 1434 riceveva dal pontefice, con il titolo di marchese a vita, il dominio della Marca e, tra gli altri benefici, anche il comando delle armi pontificie, quale gonfaloniere della Chiesa. Sotto le nuove insegne, si trovò presto a combattere in Umbria e nel Lazio contro Nicolò Fortebraccio, nipote di Braccio da Montone, e Nicolò Piccinino, che Filippo Maria Visconti, invidioso della rapida fortuna del suo ex capitano, gli aveva aizzato contro. Il Fortebraccio venne liquidato subito; infatti, dopo feroce combattimento, fu sconfitto e ucciso. La sua morte segnò la fine delle ostilità. 
Il 28 marzo del 1438 Francesco Sforza concludeva un trattato di pace con il duca di Milano, Filippo Maria Visconti, il quale, ben sapendo quali vantaggi gli sarebbero venuti dalla parentela con lo Sforza ed allo scopo quindi di accattivarsene sempre più l'amicizia, gli promise in sposa l'unica figlia legittima, Maria Bianca. Le nozze vennero fissate per il mese di maggio di quell'anno. In breve sì sparse la voce che gli sposi sarebbero venuti nella Marca in luna di miele. Fu questo l'argomento di tutti i discorsi; ovunque, nella Marca, se ne fecero gazzarre, lumi­narie e falò; ovunque si tennero ad urgenza adunanze consiliari per deliberare circa i festeggiamenti e i doni da fare agli sposi nella loro prossima venuta.
Ma le nozze furono sospese, sia perché il Visconti decise d'un tratto di rimandarle ad altra epoca e sia perché il promesso sposo si era venuto a trovare imbrigliato, nel frattanto, m altre questioni militari. Si recò infatti a combattere in Toscana e nell'Umbria e quindi nel Napoletano contro Giosia di Acquaviva ed il rE Alfonso d'Aragona. Stipulata la pace con quest'ultimo, venne nella Marca per sottomettere alcuni Comuni ribelli e finalmente si ritirò a Jesi, ove giunse il 20 ottobre del 1438 accolto con festeggiamenti e regali. Ed a Jesi egli si fermò per trascorrervi l'inverno. Ripartì dalla nostra città il 7 aprile dell'anno seguente con buona parte delle sue truppe per correre in aiuto dei suoi alleati veneziani.
Intanto era scoppiato il secondo scisma d'occidente: il Concilio di Basilea, convocato contro il volere del papa, aveva dichiarato contumace Eugenio IV, che, a sua volta, aveva dichia­rato sciolto quel Concilio, riconvocandolo a Firenze ; i cardinali dissidenti rimasti a Basilea il 5 giugno del 1439 reagivano, depo­nendo Eugenio IV ed eleggendo in sua vece Amedeo Vili, duca di Savoia ; questi, che aveva abdicato al trono e si era ritirato a vita solitaria di preghiera, prese il titolo di Felice V. Natural­mente Eugenio IV rimase al suo posto; si avranno così, da quel momento, due papi, ma fortunatamente solo per nove an­ni, perché nel 1449 Felice V, per amore della pace e dell'unità della Chiesa, abdicherà.
LE NOZZE CON BIANCA
Nell'ottobre del 1441 Francesco Sforza convolava a nozze con Maria Bianca Visconti, la quale aveva appena sedici anni contro i quaranta dello sposo. Alla cerimonia nuziale, celebrata a Cremona, intervennero anche gentildonne e gentiluomini mar­chigiani. L'arrivo degli sposi nella Marca, però, avvenne soltan­to nel maggio del 1442.
Francesco Sforza, accompagnato dalla consorte e dai suoi più valorosi capitani, fra i quali Sigismondo Malatesta, giunse a Jesi per l'esattezza il 20 maggio. Ma quattro giorni dopo era già sul piede di partenza, avendo progettato di trasferirsi nel Napoletano, ove si trovava il fratello Alessandro, per combat­tere contro Alfonso d'Aragona. E, prevedendo di doversi assentare per parecchio tempo, emanava dalla nostra città un'ordinanza con la quale affidava il governo della Marca alla sua giovanissima consorte.
«Poniamo a capo di tutta la nostra provincia — diceva — l'inclita e l'illustre nostra consorte, Bianca Maria, per le gran­dissime ed ammirabili virtù che l'adornano e le affidiamo tutto il governo della medesima. Perciò ingiungiamo con tutta la possibile premura e diligenza di eseguire persino un cenno della sua volontà con rettitudine e con la massima esattezza e di obbedire e secondare alacremente e premurosamente ogni suo comando... ».
Lo Sforza era appena partito quando gli piovve addosso una serie di brutte notizie: il suocero ed il papa si erano alleati ad Alfonso d'Aragona; Eugenio IV aveva dichiarato lo Sforza ribelle; Nicolò Piccinino stava marciando verso la Marca, con un esercito agguerritissimo, per riconquistarla alla Chiesa. Lo Sforza, sbalordito, ordinò ai suoi di retroce­dere verso Jesi, ove stabilì il suo quartier generale. Quindi, dopo aver fatto partire frettolosamente la sua Bianca per Fer­mo dal momento che la nostra città era divenuta per lei residenza mal sicura, adunò attorno a sé il maggior numero di forze possibili, con le quali partì da Jesi contro il nemico. I due eserciti si scontrarono presso Amandola e, seppure nu­mericamente superiore, il Piccinino fu costretto a subire una pesante sconfitta.
Le cose sembravano volgere dunque a favore dello Sforza; senonché il papa riuscì a convincere Alfonso d'Aragona a spedire nella Marca un forte esercito. La disparità di forze questa volta era troppo accentuata e lo Sforza si rese conto che sarebbe stata pazzia affrontare il nemico in campo aperto; perciò divise le sue schiere e le distribuì sotto i suoi più bravi capitani in quelle località ove era possibile organizzare una lunga resistenza, mentre egli si ritirava a Fano per solle­citare l'invio di truppe da parte dei suoi alleati. A Jesi rimase suo cognato Troilo, a Staffolo Fiesco Girasio, a Massaccio Guglielmo da Baviera, a Fabriano Pietrobrunoro, e così via.
L'esercito di re Alfonso poté tuttavia impadronirsi di buo­na parte della Marca, agevolato dal fatto che molti Comuni, ritenendo ormai lo Sforza in declino, lo avevano abbandonato. E soprattutto perché molti capitani fedeli tradirono lo Sforza, vendendosi al monarca napoletano. Lo stesso Troilo aprì le porte di Jesi all'esercito di Alfonso. E la rocca di Jesi, che era rimasta ciononostante fedele allo Sforza, fu costretta a capito­lare sotto gli assalti della truppa di Pietrobrunoro, anch'egli, come Fiesco Girasio e Guglielmo di Baviera, passato al nemico.
FEDELE ALLO SFORZA
Alfonso d'Aragona, occupata Jesi, si spinse sotto le mura di Fano, ma i suoi tentativi per impadronirsene risultarono vani. Informato poi che erano in arrivo i rinforzi per il suo avversario, preferì togliere il campo e ripartire alla volta di Napoli, portando con sé, in catene, Troilo e Pietrobrunoro i qua­li, sotto l'accusa di tradimento ai danni dell'aragonese (e ciò grazie ad un espediente escogitato dallo stesso Sforza, che aveva così voluto punire due di coloro che gli avevano voltato le spalle), giaceranno nelle prigioni napoletane per dieci anni.
Restavano a contrastare il passo a Francesco Sforza i pontifici capeggiati ancora una volta da Nicolò Piccinino, che dalla battaglia combattuta sul fiume Foglia usciva nuovamente battuto. Deciso a riconquistare tutta la Marca, lo Sforza puntò su Jesi, i a strinse d'assedio e dopo tre giorni la occupò grazie alla collaborazione degli Jesini che, confidatisi nell'appog­gio di lui, ammassando tutto il presidio di Alfonso che era nella città, s'impadronirono per via di una grotta sotterranea della rocca: una nuova prova di fedeltà, dunque, degli Jesini a beneficio dello Sforza, col quale probabilmente si sentivano in dovere di doversi schierare anche per protesta contro Eugenio IV che li aveva «danneggiati» vendendo (1432) per tremila ducati agli Anconetani il castello di Monte S. Vito che era stato degli Jesini.
Il Piccinino, battuto sul Foglia, riorganizzò le file dell'eser­cito con gli aiuti del legato pontificio, cardinale Capranica, ma, prima di scontrarsi di nuovo con lo Sforza, partì per Milano, lasciando il comando al figlio Francesco. Questi, inor­goglito da un successo iniziale, cercò la sua giornata di gloria contro lo Sforza, ma subì una rovinosa disfatta e cadde prigio­niero dopo essersi nascosto fra i giunchi di una palude. Il padre, Nicolò Piccinino, dal  dispiacere  ne morirà di crepacuore.
Quella disfatta coinvolse anche il cardinal Capranica, il quale, mentre fuggiva all'impazzata senza rocchetto e cappello, fu preso, battuto e costretto ad arrendersi, e nulla gli valse il fingersi di essere cappellano del conte Sforza. Dalla parte sforzesca pochi furono i morti, molti i feriti. Anche il conte Francesco fu in grave pericolo, poiché in un momento in cui correndo era rimasto senza elmo, si trovò circondato da una squadra ostile, che avrebbe potuto ucciderlo se non l'avesse rispettato per quella simpatia che godeva anche presso i nemici.
Il 30 settembre di quell'anno lo Sforza sottoscriveva col pontefice una tregua a condizioni quanto meno singolari: egli aveva dodici giorni di tempo per sottomettere i paesi della Marca: allo scadere del dodicesimo giorno ciò che avrebbe conquistato sarebbe stato suo (avrebbe dovuto pagare però tributi e gabelle alla Camera Apostolica); il resto della Marca sarebbe rimasto sotto il controllo diretto dalla Chiesa. Trascorso il termine convenuto, fatta eccezione per Osimo, Recanati e Fabriano, tutta la Marca era di nuovo sotto Francesco Sforza.
ADDIO ALLA MARCA
Normalizzatasi la situazione, lo Sforza e sua moglie Bianca tornarono a Jesi: erano i primi di dicembre del 1444. Ma già agli inizi del nuovo anno altre ostilità si profila vano all'orizzon­te. Sigismondo Malatesta, che gli era stato alleato in tante battaglie, ora gli era contro, perché offeso dalla cessione di Pesaro fatta da Francesco Sforza al fratello Alessandro, a discapito di un fratello del Malatesta. Per di più il papa, Alfonso d'Aragona e Filippo Maria Visconti stavano tramando ai suoi danni. A primavera inoltrata un poderoso schieramento di truppe era in marcia contro lo Sforza; lo comandava lo stesso Sigismondo.
Francesco Sforza, rimasto a Jesi pressoché inoperoso per sei mesi, di fronte alla nuova minaccia, non si scompose e rispose alle armi con le armi. Si trovava a Fermo con i suoi soldati quando gli pervenne la notizia che Roccacontrada (Arcevia) aveva ceduto a Sigismondo Malatesta. Questa perdita era fatale allo Sforza, non solo perché si trattava di un punto stra­tegico e pressoché inespugnabile, ma perché costituiva l’unica comunicazione libera verso Urbino e la Toscana. Lo Sforza mosse subito in soccorso del castellano di Roccacontrada, ma quando fu presso il fiume Esino, nella contrada denominata «passo dell'imperatore», lontano tre miglia a mezzogiorno di Jesi, ebbe notizia che quel castellano l'aveva tradito e aveva consegnato la fortezza al nemico. Lo Sforza ne rimase dolentissimo e indispettito quanto mai.
Fu a questo punto che lo Sforza comprese che la sua Signoria nella Marca era ormai al tramonto. Ovunque le città ed i castelli lo abbandonavano. Ripiegò su Jesi, deciso però a tenere la nostra città ad ogni costo. Fortificò la rocca e la cinse con vari bastioni e cavalieri. Tutt'altro che rassegnato alla sconfitta, allestì un esercito più forte, col quale si portò in Umbria: la occupò e minacciò il Lazio. Il papa, temendo che la vendetta dello Sforza potesse indurlo a tentare addirit­tura un colpo di mano su Roma, invocò l'aiuto di Alfonso d'Aragona. Il re partenopeo dirottò subito contro lo Sforza l'eser­cito dislocato nella Marca. Ma non vi fu scontro. Lo Sforza, a corto di vettovaglie, ripiegò su Fano, mentre le truppe papa­line, occupata Ancona, muovevano su Jesi.
La nostra città venne assediata ai primi di luglio. Il cardi­nale Capranica, tornato a comandare le milizie pontificie, tuttavia non riuscì ad espugnarla, quantunque ingagliardito dalle compagnie del Furiano, reduce dall'Umbria, e più tardi da quelle del viceré degli Abruzzi, spedito in aiuto del pontefice da re Alfonso.
Intanto era scoppiata la peste, che per più di tre mesi seminò vittime e miseria, riducendo le popolazioni in pietose condizioni. Anche la nostra città ebbe a soffrirne. L’8 febbraio del 1447 Gaspare da Lodi, che lo Sforza (recatesi a Pesaro) aveva lasciato a Jesi quale luogotenente, così gli scriveva: «Questo popolo non ha più da vivere e già sono partite tre famiglie per fame; i soldati, malcontenti di certo, fanno delle cose disone­ste assai. Io ci rimedio quanto posso. E vedo chiarissimamente che, non provvedendo la S. V. subito di vettovaglie e a questi soldati di denari, voi perderete la rocca, la terra e la gente ad un tratto... Cristoforo da Cremona volle battere ieri sera il podestà, perché non ebbe sì presto le legna per la guardia... ».
A Pesaro Francesco Sforza apprese che Eugenio IV era morto il 23 febbraio (gli succederà il 5 marzo Nicolò V). La morte di Eugenio IV fece mutare completamente i suoi atteggiamenti verso la Chiesa: «È nostra intenzione — scriveva agli Jesini il 1° marzo — non essere più in cosa alcuna contro la Santa Chiesa, ma esser suo buon figliolo e servitore, e quello che abbiamo fatto fino adesso contro la Chiesa è stato contro nostra volontà, perché, essendo già per cinque anni assaliti ed aspramente offesi dalla buona memoria di papa Eugenio, ne è stato necessario difenderci... ».
Durante la sua permanenza a Pesaro, lo Sforza aveva rice­vuto nel frattempo lettere ed ambasciatori da parte del suoce­ro, il quale, minacciato dai suoi nemici, gli faceva la descrizio­ne di tutte le proprie disgrazie fisiche, morali, domestiche, militari e politiche; lo pregava si muovesse a pietà di un infelice suocero, dì un derelitto cieco, dì un povero moribon­do, promettendo solennemente al conte dì nominarlo suo erede e successore nel principato di Milano. Contemporaneamente la moglie Bianca, piangendo, scongiurava Francesco a perdonare suo padre ed aiutarlo.
Lo Sforza, dopo tante insistenze e preghiere, finì col dirsi disposto ad abbandonare la Marca per trasferirsi defini­tivamente a Milano. Tutto avrebbe lasciato, però, meno che la Signoria sulla città di Jesi. A questo scopo, inviò a Roma il fratello Alessandro affinché patrocinasse la sua richiesta presso il pontefice e il re Alfonso, poi raggiunse la nostra città. Qui giunto verso la fine dell'aprile del 1447, trovò questa città in grande trepidazione e trambusto per le voci che correvano circa la sua concessione al pontefice.
SOLTANTO JESI
Da Jesi, lo Sforza scrisse due lettere, una ad Alfonso d'Aragona e l'altra agli ambasciatori del duca di Milano a Roma: «Qui a Jesi — diceva nella seconda — son venuto con circa venti cavalli disarmati ; il mio venire era più che necessario, perché questi uomini erano in disperazione per quello che questi della Chiesa hanno detto e divulgato che io rendeva questa terra alla Chiesa... E se io non veniva, di certo che saria qui seguito qualche inconveniente, perché questi uomini, dicono, avevano deliberato prima lasciare la terra e bruciarla e venire da me dove io era, o andare ad abitare altrove, anziché ritornare sotto la Chiesa».
La risposta che gli pervenne non fu certo quella che si aspettava: «La maestà del re si rimette alla deliberazione del papa: il papa risponde che al signor Duca fidarìa non solo Jesi ma anche tutta la Marca; non delibera (però) di consenti­re, perché gli parerìa fare contro coscienza; dice anche che l'opinione sua è stata che Jesi dovesse essere posta nelle mani del cardinal di Fermo (il Capranica)...».
A metà giugno lo Sforza riceveva poi una lettera di un suo grande amico, Nicolò Guarna, il quale lo metteva al corrente delle difficoltà militari in cui si dibatteva Filippo Maria Visconti consigliandone a smettere ogni idea di ottenere Jesi in vicaria­to, essendone il papa contrarissimo e di non poter contare perciò nell'appoggio di re Alfonso e dei suoi alleati; interpre­tando anche il parere del Visconti, il Guarna aggiungeva al riguardo che sarebbe stato assai meglio per lui cedere al pontefice la suddetta città dietro forte corrispettivo, che potreb­be elevarsi anche a 35 mila ducati; concludeva che, se avesse tardato ad abbracciare questo consiglio, avrebbe fatto il gioco dei suoi nemici, i Bracceschi, che non ristavano dall’arrabattarsi contro di lui presso i Visconti.
Fu allora che Francesco Sforza incaricò il cugino Marco Attendolo da Cotignola di trattare la cessione di Jesi. «Promet­terai la libera cessione di Jesi nelle mani di sua Maestà — gli disse — ma aggiungerai che il mio onore richiede che questa sia fatta quindici giorni dopo la mia partenza dalla Marca. Fatti dare in iscritto la promessa, una dal papa ed una dal re, che nulla verrà innovato di quanto ho concesso agli Jesini, che sono stati e dimostrati amici miei. Fatti pagare in corri­spettivo della cessione di Jesi 35 mila ducati».
Alla fine di luglio tutte le difficoltà erano appianate. Quando giunse il momento della cessione di Jesi, pianse il cuore allo Sforza, perché gli era noto di ciò che era costretto a fare contro la voglia dei cittadini che infiniti affanni per lui avevano sopportato. Gli accordi erano che la nostra città sarebbe stata ceduta al papa tramite un commissario di Alfon­so d'Aragona. Questi il 4 agosto inviò a Jesi Giovanni de Canesiis; da parte sua, lo Sforza, che si trovava a Pesaro, inviò Marco Attendolo.
Narra il Benadduci: «La consegna fu effettuata con tutte le formalità e solennità richieste: i soldati sforzeschi, che era­no di guardia nella città e nella rocca, nello Staffolo e nelle castella del distretto jesino, ne partirono e ripiegarono verso Pesaro, ove si riunirono ai loro compagni d'arme. Giovanni de Canesiis prese a governare per Alfonso d'Aragona e suo primo intento fu quello di ottenere la pacificazione degli ani­mi. Fece perciò convocare dal podestà Michele, conte di Casalecchio, un Consiglio, che fu tenuto agli 8 agosto e vi si trattò la surrogazione dei consiglieri mancanti e la concordia e la pace da farsi tra tutti i cittadini, specialmente con quelli che, per ordine dello Sforza, erano tuttora fuorusciti. Il commis­sario Giovanni de Canesiis propose che a suggellare la pace dovesse farsi un banchetto popolare e la proposta fu ad unanimità approvata».
Nei giorni che seguirono, il governo della città passò dagli aragonesi alla Chiesa; in tutta la Marca furono fatte luminarie e falò per la cessione di Jesi. «La Signoria di Fran­cesco Sforza nella Marca, che aveva avuto inizio col possesso di Jesi — commenta il Benadduci — cessò definitivamente con la cessione della stessa città. Il duca Filippo Maria, che nel 1433 aveva istigato e favorito il conte Francesco a togliere la Marca al pontefice, in quest'anno 1447 lo indusse e persuase a restituire il poco rimastogli».

Incassati i 35 mila ducati, lo Sforza con sua moglie Bianca, scortati da quattromila cavalieri e duemila fanti, il 9 agosto lasciava Pesaro e la Marca, dopo aver dato un saluto a quest'ultima, ove lasciava di sé tante memorie ed affetti. A Milano finirà per diventare duca di quel principato e fondarvi una dinastia.

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mercoledì 26 febbraio 2014

SOTTO I MALATESTA

SOTTO I MALATESTA

Eliminato il suo più forte rivale, il Boscareto ebbe via libera e poté assumere, per conto e con la protezione del Bavaro, il titolo di vicario di Jesi. Con crudeltà barbara, continuò a tagliare la testa a coloro che avevano seguito la fazione guelfa e li ammazzava talvolta con crudeli e durissime morti, speran­do, una volta annientata la parte avversaria, di farsi nominare signore assoluto della città.
Furono anni terribili, non solo per la nostra città, dice il Grizio. In campo nazionale, il papa ed il Bavaro erano in lite continua; in campo locale, nella Marca d'Ancona e nella stessa Vallesina, ognuno, per piccolo signore che fosse, si sforzava rubare le cose altrui sema alcuna vergogna; e or questo e or quello si aggrediva e, secondo che cambiava la fortuna, or altri nominava le loro ville dalla loro fazione «guelfe», or altri dalla loro «ghibelline». Fu questo il caso, molto presumibil­mente, di Castelbellino (=Castel Ghibellino), dove la fazione ghibellina avrebbe prevalso su quella guelfa.
Si che, essendo in scompiglio le cose sacre e profane, si combatteva talora in tutte le contrade della nostra città, che con catene grosse di ferro si chiudevano con grandissima ira e rabbia, e scorrevasi per i villaggi in modo che gli alberi, le viti e le case restavano dalla crudeltà dei guelfi e dei ghibellini tagliati, bruciati e spianate, di sorte che non vi conoscevano alle volte le vestigio. La qual cosa capitò, ad esempio, a Boccaleone, Castel Montano e alla Villa Tessenaria. E, quel che è peggio, la parte vincitrice non permetteva che i vinti riedificas­sero i luoghi minati, anche quando avevano ceduto.
Fortunatamente il dispotismo del conte di Boscareto sul­la nostra città non ebbe lunga vita. Cinque anni dopo la decapitazione di Tano Baligani, Jesi e le altre città della Marca non erano più in mano dei ghibellini, essendo tornate all'ob-bedienza del pontefice. Nel 1333, sicché, nella Jesi guelfa non doveva esserci più posto per il Boscareto; a meno che questi, per conservare la Signoria, non si fosse convertito nel frat­tempo al guelfismo per conservare il posto nella magistratura jesina. Questa ipotesi potrebbe trovare conferma in un fatto d'armi del 1337, precisamente nell'assedio di Osimo ad opera degli Anconetani, a fianco dei quali ed insieme ad altri condot­tieri di parte guelfa, viene citato anche Nicolo di Boscareto.
Il conte Bisaccioni in ogni caso nel 1342 era più che mai ghibellino, altrimenti non sarebbe stato nominato, co­me in effetti fu, dal Bavaro fra i vicari eletti nelle città della Marca in quello stesso anno e non avrebbe potuto, sempre nel 1342, riacquistare la Signoria della nostra città Ma gli Jesini erano ormai stanchi di lui e dopo appena qualche mese cacciarono da Jesi a furor di popolo per la sua crudeltà.
Boscareto riparò nei suoi domini di Montenovo, Corinaldo e, appunto, Boscareto (dal 1343 al 1345 sarà podestà di Serra de' Conti).
La rivolta contro Nicolo Bisaccioni era stata capeggiata da Lomo di Rinaldo Simonetti, meglio conosciuto a quel tempo come Lomo di Santa Maria. Era anche questi un capi­tano arditissimo e si era distinto l'anno prima quando, assalito dai guelfi comandati dal rettore della Marca Dalmaziano da Quagliano, aveva sconfitto sui piani di S. Lorenzo in Campo un nemico molto superiore. A Lomo di Santa Maria venne affidata la Signoria di Jesi.
I MALATESTA
Nel 1347, come se non bastassero le beghe politiche e le guerre con il vicinato, anche Jesi dovette subire il grave distur­bo arrecato dal passaggio delle truppe di Luigi d'Ungheria, che se ne andavano per le nostre terre alla conquista del regno di Napoli. Poi, un anno più tardi, facevano il loro ingresso nella Marca d'Ancona, per occuparla quasi del tutto, Galeotto e Malatesta dei Malatesta, signori di Rimini. Jesi, durante il loro dominio, dovette subire due invasioni, nel 1353 la prima e nel 1354 la seconda. Anche i nuovi invasori — che, per quel che ci riguarda, erano guidati da un altro famoso capitano di ventura. Fra Mortale — fecero i soliti molti danni alle persone e al paese.
Per mettere fine a tanto disordine, il nuovo papa. Inno­cenzo VI, nominava suo legato in Italia e vicario generale del­lo Stato pontifico, con l'incarico di riconquistarlo all'autorità della Chiesa, il cardinale Egidio Albornoz. Questi inviò nella Marca, come rettore, il nipote Blasco Ivanez di Belviso con un esercito comandato da Rodolfo da Camerino, il quale si impa­dronì subito di Fermo, mentre Recanati si ribellava ai Malatesta. Poi i Malatesta subivano una pesante sconfitta presso An­cona, a Paterno; a questa battaglia, nella quale rimase ferito e prigioniero lo stesso Galeotto Malatesta, prese parte anche il Boscareto: secondo il Natalucci, era fra i capitani al servizio del rettore pontificio, mentre per il Gianandrea era allineato con le milizie malatestiane.
Il rovescio toccato ai Malatesta li convinse a chiedere la pace; cosiché quasi tutte le città della Marca ora erano di nuo­vo sotto il dominio della Chiesa. Il ritorno di Jesi alla Chiesa avvenne senso contrasto e solo per effetto della disfatta che ebbe a soffrire Galeotto Malatesta. Soltanto il Sepulveda, sto­rico della guerra fatta in Italia dall'Albornoz, sostiene che Jesi fu espugnata da Blasco Fernandez de Belviso.

                                                          LE COSTITUZIONI
Seguirono alcuni anni di relativa tranquillità; relativa, perché c'era sempre qualche grana pronta a turbare la quiete dei governatori jesini. Nel 1355, ad esempio, i castelli di Massaccio e Monsanvito tentavano di sottrarsi al dominio di Jesi; ma il rettore della Marca li costringeva all'obbedienza, sotto la pena di mille fiorini d'oro. Contemporaneamente venivano solle­vate dalle rovine San Marcelle, Belvedere, Morrò ed altri castel­li mandandovi ad abitare le famiglie dei popolani accresciute nella città.
La calma di quegli anni permise all'Albornoz di riorganiz­zare le terre dello Stato pontificio. Nella «Descriptio Marchiae» egli fissò i limiti giurisdizionali di ciascuna città, terra o castel­lo e il censo annuale che doveva essere pagato alla S. Sede. Quindi compilò le «Costituzioni», che regolavano tutto lo Stato ed in base alle quali nei singoli Comuni gli statuti locali in tanto avevano vigore in quanto rispettavano i principi della legislazione ecclesiastica. Tutto, insomma, sembrava volgere per il meglio, anche perché nell'aprile del 1357 a Fano, nel­la casa di Galeotto Malatesta, rettori, vescovi, gonfalonieri, sindaci e personalità delle diverse città della Marca dichiara­vano di accettare le nuove leggi.
Ci fu, in realtà, una parentesi alla tregua nel 1360, quando i castelli di Corinaldo, Montebove e Boscareto si ribellarono, coinvolgendo nella rivolta anche il Montefeltro, Jesi, Ascoli e F'ermo, in odio anche al rettore della provincia, che era allora li perfido Giovanni da Oleggio, ma la sommossa venne presto soffocata da Galeotto Malatesta che operava agli ordini dell’Albornoz.
Il «perfido» Giovanni da Oleggio il 3 dicembre del 1363 ra­tificava gli Statuti jesini redatti dal notaio Sante Colocci; tali statuti (più precisamente, si trattava di un aggiornamento di quelli elaborati nella nostra città nella terza decade del 1200) erano contenuti in cinque carte bombicine; purtroppo non se ne ha più alcuna traccia. 
ANCORA DISORDINI
II 30 aprile del 1367, a bordo di una galea anconetana, papa Urbano V abbandonava la sede di Avignone e tornava in Italia. A Viterbo, ove si erano recati a rendergli omaggio gli amba­sciatori di tutto lo Stato pontificio, il cardinale Albornoz gli consegnava un carro pieno di tutte le chiavi della città e castel­li da lui sottomessi. Tré anni dopo, però, il papa tornava ad Avignone a causa di nuovi disordini in Italia, questa volta dovuti ad una acuta lotta fra la Chiesa ed i Visconti.
In quel periodo non poche città della Marca si solleva­rono ed anche Jesi evidentemente ne fu coinvolta se nel 1371, per mezzo di D. Gerardo, legato apostolico nella Marca, gli Jesini ottenevano l'amnistia dal nuovo papa Gregorio XI, e se nel 1374 ancora gli Jesini, caduti in altri demeriti, per confisca perdettero i beni ed i privilegi (tuttavia la mediazione dello stesso D. Gerardo ed il pagamento di quattrocento fiorini d'oro permetteranno agli Jesini di essere reintegrati negli uni e negli altri), e se, nel 1377, Gregorio XI, che era tornato a Roma da Avignone due anni prima, dava al Comune di Anco­na, in premio della fedeltà, la giurisdizione sui castelli di Monsanvito e dell'Albarello, tolti al Comune di Jesi.
Nuovi disordini e nuove lotte si ebbero ancora dopo la morte di Gregorio XI. A questi era succeduto Urbano VI, il quale, seppure eletto dai cardinali francesi e italiani, non era stato poi riconosciuto dai primi, che avevano eletto un altro pontefice, Clemente VII. Per conto deir« antipapa », nel 1382 entravano in Italia le truppe collegate di Luigi d'Angiò e di Amedeo VI di Savoia, detto il Conteverde.
Le milizie di Luigi d'Angiò fecero il loro ingresso anche nella Marca, ma non trovarono l'accoglienza sperata. Al loro passaggio, città e fortezze restavano ermeticamente chiuse e pertanto le truppe angioine, per sfamarsi, si diedero a sac­cheggiare le campagne. Accampatesi presso Fiumesino, si im­possessarono con uno stratagemma della munitissima rocca di S. Cataldo, in Ancona; vi lasciarono una guarnigione per presi­diarla e proseguirono verso il Sud. Gli Anconetani, decisissimi a riconquistare la loro rocca, chiesero aiuto a Galeotto Matatesta e a Rodolfo Varano: scelsero come capitano Giacomo di Cecco degli Ottoni da Norcia; ottennero contingenti di uo­mini da Fermo (200 fanti circa), da Cingoli (150 fanti), da Jesi (75 cavalieri), da Montalboddo (2 uomini a cavallo e 25 a piedi), da Osimo (50 fanti), da Roccacontrada (27 fanti). Aiuti di fanti e cavalieri vennero anche da Off agno e Sasso ferrato. Galeotto Malatesta inviò il figliolo Mammolino con 150 cava­lieri, 50 fanti e 50 lavoratori, muniti di zappe, vanghe ed altri arnesi da scavo. Intervenne anche Sforza, figlio di Nicola da Boscareto, che era stato prigioniero in quella rocca, con buon nerbo di truppe.
Dopo un assedio, aspramente combattuto e protrattosi per ben tré mesi, finalmente la rocca di S. Cataldo venne ricon­quistata. Ma molti valorosi cittadini e soldati delle truppe alleate erano caduti sotto la pioggia di pietre e di altri micidiali arnesi lanciati loro contro dagli assediati.
GUELFI E GHIBELLINI
L'ultimo scorcio del XIV secolo registrò ancora qualche scaramuccia tra guelfi e ghibellini, i quali, nonostante le delu­sioni patite ed il sangue versato, non sembravano del tutto rassegnati a rinunciare alle velleità di riscossa, gli uni e gli altri vagheggiando ancora di poter affermare definitivamente il trionfo dell'idea propugnata. E poiché i guelfi stavano facendo­si in quattro per mettere in piedi un grosso esercito da inviare contro i ghibellini, questi ultimi, per far fronte alla minaccia, nel 1390 si confederarono coi maggiori potentati d'Italia e con le città ed i castelli vicini che seguivano la parte ghibellina.
Ma non ci fu guerra, questa volta, stando almeno alle notizie che abbiamo su quegli anni. Il mancato conflitto fu dovuto molto probabilmente all'equilibrio di forze che si era determinato fra le opposte fazioni. Sappiamo per certo, in ogni caso, che Jesi, tornata nel 1393 all'obbedienza della Chiesa
insieme alle città di Camerino e Fabriano, il 24 giugno dell'an­no successivo era presente con i suoi delegati al tavolo della pace di Castelfidardo. Non sempre è facile, per taluni periodi della nostra storia, movimentata ed imprevedibile, trovare un senso logico in certi episodi o in determinate alleanze. Nella pace che i Nostri sottoscrissero in suolo fidardense troviamo al­lineati da una parte Jesi, Ancona, Cingoli, Camerino e qualche altro; dall'altra i Malatesta, Signori di Rimini, ed i loro allea­ti di Osimo, Castelfidardo, Fermo, Staffolo, Filottrano, Offagna, Montelupone, Montefano ed altri ancora.
LA CACCIATA DEI SIMONETTI 
Nel frattempo a Jesi si stava affermando un nuovo mem­bro della famiglia dei Simonetti. A detta del Grizio, il Simonet­ti di turno aveva nome Filippo, ma il Gianandrea, censore del nostro primo storico, obietta che quel nome è inventato di sana pianta perché a quel tempo non esisteva nessun Simonetti che si chiamasse Filippo. Qualunque fosse il suo nome di battesimo, aveva dato a vedere di essere un maestro di diplo­mazia, della quale si serviva con la segreta ambizione di diven­tare )a massima ed unica autorità cittadina. Ed in effetti il suo spiccato sovoir faire non tardò a portarlo in primo piano.
Con doni e vezsi, riuscì ad accattivarsi rapidamente la simpatia della popolazione, tanto che gli Jesini, come egli aveva previsto, lo vollero al governo della città. Il Simonetti, grazie al loro interessamento, riuscì ad ottenere da papa Boni-facio IX non solo il titolo di vicario di Jesi, ma anche diversi privilegi.
Una volta raggiunto lo scopo, però, il savoir faire del Si­monetti andò a farsi benedire. Il nostro uomo, ritenendosi ormai inamovibile ed inattaccabile, mutò recisamente politica nei confronti dei suoi concittadini e dai doni e dai veszi passò al dispotismo e alle vessazioni. Gli Jesini, superato il primo disorientamento, modificarono a loro volta atteggiamento ver­so il nuovo Signore della città. E, rasisi conto che costui aspi­rava ambiziosamente all'odioso nome di tiranno, pigliarono Farmi e lo scacciarono da questa città insieme con tutti quelli della sua famiglia.
La rivolta contro i Simonetti scoppiò nel febbraio del 1408. I Simonetti, che avevano trovato rifugio non molto lon­tano da Jesi, non si diedero per vinti e cercarono con ogni mezzo di rientrare in città. Per farla finita, allora, la popola­zione ricorse ad una soluzione più ampia e drastica: scacciò da Jesi tutti coloro che erano imparentati ai Simonetti. Soltanto ad uno, della famiglia, fu consentito di rimanere m città, ma a prezzo di dure condizioni; fra queste, quella di cambiare il proprio cognome. E difatti il Simonetti superstite da quel giorno prese la denominazione del castellare detto la Casta­gna, di quel castello cioè che, in via del tutto eccezionale, gli era stato lasciato (ma forse non gli era stato tolto perché già devastato dalle truppe di quel Braccio da Montone di cui parleremo fra poco).
A convalida dell'azione degli Jesini, seppure condotta alla maniera forte, Gregorio XII il 4 maggio del 1408 revocava al Si­monetti il titolo di vicario di Jesi concessogli in precedenza da Bonifacio IX; al tempo stesso condonava agli Jesini che aveva­no partecipato alla rivolta tutte le condanne e le pene nelle quali erano incorsi; infine autorizzava gli stessi Jesini a rientrare in possesso di quei beni — molini, terre, case e poderi — che il Simonetti aveva fatti suoi illecitamente. Tutti gli altri beni di proprietà della famiglia Simonetti vennero confiscati e trasfe­riti alla Camera Apostolica (la quale li riterrà fino al 1452, an­no in cui Nicolo V, per far fronte agli impegni della stessa Camera, li venderà alla città di Jesi, insieme a quelli del Boscareto, pel prezzo di 2.300 fiorini).
BRACCIO DA MONTONE
Ma evidentemente non v'era tregua per gli Jesini. I Simo­netti erano appena stati cacciati dalla nostra città che, a distan­za di pochi mesi, nello stesso anno, vi giungeva il più terribile e audace condottiero del tempo, Braccio Fortebraccio detto Braccio da Montone, condottiero e Signore di Perugia. Braccio era giunto nella Marca d'Ancona dall'Umbria in soccorso dei castellani di Roccacontrada (Arcevia) per liberarli dal lungo assedio postovi dalle truppe del rettore della Marca, al quale si erano ribellati. Ma Fortebraccio, non appena liberata Roccacontrada, anziché tornare nella sua Perugia, sullo slancio di quella vittoria era dilagato verso l'Adriatico, conquistando e sottomettendo nuove terre, fermamente deciso a crearsi anche nella Marca d'Ancona una propria Signoria.
Contro di lui inviò un esercito di seimila uomini, comanda­ti dal conte di Troia, il re Ladislao di Napoli. Fortebraccio si preparò a resistergli e, a questo scopo, non trovò trincea migliore delle mura della nostra città. Gli assalti dei Napoletani risultarono vani e, dopo un assedio di breve durata, le truppe di Ladislao — non si sa se perché messe in fuga da una sortita degli uomini di Braccio o se perché rinunciatarie — abbando­narono il campo, lasciando a Fortebraccio piena libertà da­zione nella nostra zona.
Braccio da Montone, che ormai si era stabilmente acquar­tierato nella nostra città, ora muoveva sempra da qui per le sue nuove battaglie. Nel 1409, con le forse di Jesi, fu all'assedio di Apiro in aiuto di Giovanni Cima da Cingoli contro Onofrio Smeducci da S. S everino. In seguito egli lasciò la nostra città, vendendola o cedendola in pegno a Carlo Malatesta, ripromet­tendosi però di tornarvi presto. Ed infatti qualche anno più tardi e precisamente nel 1420 era di nuovo a Jesi, con tutta la sua autorità e questa volta anche con il consenso di papa Martino V: un ritorno definitivo; infatti Braccio da Montone rimase nella nostra città fino alla sua morte, avvenuta nel 1424 (aveva 56 anni).

IL CORPO DI SAN FLORIANO
Nel periodo in cui Jesi era sotto la Signoria di Malatesta dei Malatesta (figlio di quel Carlo Malatesta di cui abbiamo detto poco più sopra), in una ripa del fiume Esino venne ritrovato il corpo di S. Floriano. Era l'anno 1411. Il ritrovamento fece molto «notizia» e suscitò grande commozione nella popo­lazione. Scrive il Grizio: «Fu con gran pompa e solennità (il corpo) portato dentro la città e posto in una sontuosa arca di marmo nella chiesa detta allora di S. Giorgio (che si chia­merà poi di S. Floriano, appunto in onore del Santo). Dicesi che nella solennità che fu fatta per portare quel corpo alla chiesa vi concorse una grandissima quantità di gente; e che nel sanare degli infermi e degli stroppi (sic!) si videro palese­mente molti miracoli». Il corpo, aggiunge il Grizio, pur essen­do rimasto sottacqua per più di mille e cento anni, non aveva patito diminuzione alcuna.
A ricordo di quella solenne traslazione, un artista dell'e­poca dipinse sul frontespizio dell'arca la scena della traslazione stessa; più tardi, nella chiesa di S. Floriano, venne posta, a memoria del ritrovamento del corpo, una lapide.
GIACOMO DELLA MARCA
Intanto Jesini e Anconetani non dimenticavano di infasti­dirsi con scorrerie di bande armate dell'una e dell'altra parte. Nel 1419 Agamennone degli Arcipreti di Jesi e Nicolò Piccinino facevano incursione nel territorio di Bompiano, devastando e depredando.
Si trattava di scorrerie che non dicevano molto o che, comunque, in quel periodo dovevano passare in secondo ordine per il rincrudire della lotta, su tutt'altro fronte, che si protraeva ormai da più di cento anni: la lotta contro la setta dei cosiddetti « fraticelli ». Pu, quello, uno dei conflitti religiosi più tristi, iniziato, come abbiamo avuto occasione di accennare, negli anni a cavallo fra il XII e il XIII secolo. Già da quel tempo, infatti, anche la quiete dei Castelli jesini era stata turbata dall'opera sovvertitrice dei «bizzocchi», una delle più eretiche sette dei «fraticelli»; i quali, fanatici e pro­fittatori, si erano ribellati all'autorità della Chiesa, dandosi una propria regola ed una propria gerarchia (vengono ricordati un «imperatore» Guglielmo con sede a Maiolati ed un «papa» Rolando finito poi sul rogo).
Per combattere le aberrazioni dei «bizzocchi», nell'estate del 1426 giunsero nel territorio di Massaccio (Cupramontana), vale a dire di uno dei centri più infestati dagli eretici, due paladini della Chiesa: fra Giacomo da Monteprandone, detto della Marca, e Giovanni da Capistrano. La loro efficace predi­cazione sconfisse gli eretici, demolendo una ad una le loro false teorie e riportando i seguaci dei «bizzocchi» alla giusta dottrina.
A nulla servirono le macchinazioni dei «bizzocchi» per liberarsi di così forti avversari e soprattutto di Giacomo della Marca. Si racconta che cercarono anche di uccidere quest'ul­timo servendogli del veleno mentre celebrava la messa. Ma Giacomo (divenuto poi santo) sfuggì all'insidia, perché, men­tre si accingeva a bere, scorse, disegnata miracolosamente, sul fondo del calice, la testa di un serpente; il che lo mise in guardia dal pericolo che lo minacciava. L'episodio, si assicura, è autentico.
Nella repressione dei «fraticelli», ai meriti specifici di Giacomo della Marca, Girolamo Baldassini unisce quelli del card. Astorgio Agnese, vescovo di Ancona e commissario della Marca, non trascurando il fatto che se il primo combattè con la preghiera, il secondo combatté gli empi errori con le armi temporali. Il castello di Maiolati, due anni dopo l'arrivo di Giacomo e Giovanni, venne demolito a terrore ed esempio perpetuo e molti «fraticelli» furono morti o discacciati. Solo più tardi venne consentito agli abitanti di Maiolati di tornare sul loro colle e ricostruire le loro case.
Giacomo della Marca, per quel che ci riguarda più dap­presso, ebbe una parte notevole nella decisione che le autorità jesine dell'epoca presero circa la compilazione dei nuovi sta­tuti. Sarebbe stato, infatti, il famoso monaco a sollecitare la rielaborazione e l'aggiornamento dei vecchi statuti, di cui dire­mo in seguito.

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