domenica 30 gennaio 2011

JESI CITTA' SONTUOSA


UNA CITTA' SONTUOSA

Dagli anni di Augusto la colonia romana di Jesi assunse la fisionomia di un centro ricco ed architettonicamente sontuoso; ciò, come si è detto, data la sua posizione geografica, che la poneva sull'unica strada che a quel tempo, dal versante adriatico, collegava direttamente il Nord con Roma.
In quanto colonia romana, Jesi acquistò molto da Roma: usi, costumi, leggi e, naturalmente, anche le direttive. Così la descriveva, con non poca fantasia probabilmente, il discusso cronista trecentesco Bernabei: «La colonia di Jesi si estendeva in lunghezza verso il mare: aveva un monte o colle sul quale sorgeva un tempio alla dea Bona ed una strada coperta conduceva al tempio. Le terme e i bagni erano ornati di idoli; inoltre statue che abbellivano l'ingresso delle terme rappresentavano il trionfo di Fulvio Fiacco, il quale fece i muri della città di Jesi. Nel piano verso il fiume vi era un tempio dedicato al dio Giove con sulla facciata una statua fatta a mosaico rappresentante la dea dei Numi. Verso la selva della marina si ergeva un tempio dedicato a Cibale. A valle vi era un'altro tempio dedicato a Giunone con tre porte». Sull'area di questo tempio sorgerà, dopo il mille, la chiesa di Santa Maria del Piano. Continuava il Bernabei: «Vicino all'arco trionfale vi era un piccolo Pantheon e, non poco lungi dal tempio di Giunone, due grotte».
Otre a Jesi, si trovavano nella Vallesina due città che pure godettero di una certa importanza: Planina o Planio, e Cupra. Anche queste, come Jesi, erano grandi e ricche, dotate di austere costruzioni romane; ricerche archeologiche hanno infatti portato alla luce resti di templi, terme, acquedotti, nonché mosaici, statue, anfore, monete d'oro e d'argento. Nel 1875, come vedremo, saranno portate alla luce, a Jesi, sei statue acefale di personaggi della famiglia di Augusto e quattro teste di romano (una delle quali rappresenterebbe Augusto giovanotto) che abbellivano i portici delle terme. Saranno trovati anche pezzi di tubi di piombo appartenenti alle terme, di quel piombo che i Romani impiegavano per l'allacciamento delle condutture stradali. La lunghezza delle terme era di circa 380 metri, mentre le nuove costruzioni misurano circa 270 metri: si può così dedurre che una notevole parte degli attuali edifici poggia su fondazioni romane.
I primi due secoli dell'impero romano furono abbastanza tranquilli. Finalmente la popolazione della Vallesina poté godere della fertilità dei campi, accudire ai pascoli, dedicarsi alla caccia e alla pesca: un vivere in pace che raggiunse sotto il governo di Adriano (117-138 d.C.) e di Antonino Pio (138-161), un'era di felicità e di benessere che non furono più superati. Poi ricominciarono i guai: la peste bubbonica (portata in Italia dalle legioni che avevano combattuto in Oriente), la carestia, le prime incursioni dei barbari alle frontiere dell'impero e la pace interna disturbata dalle persecuzioni contro i cristiani.

Storia di Jesi

giovedì 27 gennaio 2011

JESI PRESIDIO DI ROMA




LA BATTAGLIA DEL SENTINO

Intanto si stava affermando la potenza di Roma. I Romani, dopo essersi assicurati l'egemonia nel Lazio, anda¬vano sottoponendo al proprio dominio tutti i popoli vicini. Agli inizi del III secolo avanti Cristo si trovarono a dover s¬stenere dure e lunghe lotte, oltre che con i tradizionali nemici, anche con i Galli Senoni. A questo periodo risalgono i primi contatti dei Piceni con i Romani, con i quali strinsero un patto di alleanza nel 299. Roma aveva bisogno di amici per fronteggiare i tanti nemici che premevano ai suoi confini: a Sud era minacciata dai Sanniti e a Nord dagli Etruschi ed ora anche dai Galli, che, ad un certo punto, si erano tutti coalizzati tra loro sotto la guida dell’Etrusco Gellio Ignazio. Dal canto suo il Piceno aveva bisogno di forti alleati, essendo minacciato a sua volta a Nord dai Galli e a Sud dai Petruzii.
La guerra fra le opposte parti, nello scacchiere Nord, interessò anche la nostra provincia, dove, nel 295 avanti Cristo, fu combattuta una sanguinosa battaglia. Lo scontro avvenne nei pressi di Sassoferrato, sul Sentino. Gli avversari dei Romani erano superiori come numero, ma i vari generali che comandavano i vari contingenti, invece di collaborare tra loro, tiravano ognuno a far ciccia per conto proprio. E naturalmente furono battuti. In quel periodo la città di Jesi era passata sotto il governo dei Romani, i quali evidentemente, dopo i primi scontri con i Galli Senoni, l'avevano occupata per assicurarsi il controllo di una delle principali vie di accesso al territorio di Roma.
Sulla battaglia del Sentino si sa che i Romani affrontarono l'esercito nemico con quattro legioni (rafforzate da mi¬lizie ausiliarie) agli ordini di due consoli, Quinto Fabio Rulliano e Publio Decio Mure. Il Cecon suppone che uno dei due consoli (Decio Mure) avanzasse verso il Sentino e l'altro (Fabio Rulliano) andasse a rafforzare la munita città di Jesi, alleata di Roma fin dal 299 a.C.; questo perché l'esercito nemico aveva due sole vie per raggiungere l'Italia centrale: o risalire la valle del Misa e quindi penetrare nella Gola del Sentino, oppure seguire la via più comoda, per Jesi.
Secondo il Cecon, i nemici di Roma, giunti al Misa, temendo la forte difesa di Jesi, preferirono dirigersi verso le valli del Sentino, trattandosi di zona che, a differenza della Vallesina, conoscevano molto bene. Il console Rulliano, informato che l'esercito nemico aveva preso la via del Sentino, lo seguì col suo esercito, lo attaccò alle spalle ed il suo tempestivo intervento decise le sorti della battaglia. Lo scontro fra i due eserciti dovette essere particolarmente violento, se è vero che le file dei Galli e dei loro alleati furono falcidiate al punto da lasciare sul terreno ben centomila morti (ma si tratta di una cifra indubbiamente esagerata). I superstiti furono inseguiti da Rulliano fino al Rubicone. Contemporaneamente gli altri avversari di Roma battevano in ritirata: le reliquie dell'esercito sannita si ritirarono nel Sannio e gli Etruschi non ebbero altra scelta che quella di accettare l'alleanza romana. I Galli, costretti alla pace, perdettero una parte del loro territorio in cui poco di poi fu fondata la colonia di Sena gallica (Senigallia).
Seppure duramente battuti, i Galli non si rassegnarono alla confisca delle loro terre da parte dei Romani. Non tardò molto che, levatisi di nuovo in armi, mossero alla volta di Roma, questa volta passando per l'Etruria, la quale, covando propositi di rivincita, si schierò a fianco dei Senoni. L'urto con le legioni romane fu rovinoso per queste ultime, che perdettero sul campo di battaglia anche il loro condottiero, Lucio Cecilio Metello. I Romani tuttavia si rifecero presto ed in una successiva battaglia sgominarono lo schieramento nemico. I Galli, inseguiti fino al Rubicone ed annientati, persero tutto il loro territorio, che fu incorporato allo stato romano. Aveva così termine il capitolo dei Senoni.

PRESIDIO DI ROMA

I Romani, giunti nella nostra regione come alleati dei Piceni, in effetti si erano comportati da padroni. La loro autorità finì con l'indisporre i padroni di casa, suscitando in loro propositi di ribellione. Romani e Piceni, cosicché, da alleati divennero nemici. Ad inasprire maggiormente i rapporti avrebbe contribuito, forse in misura decisiva, l'alleanza che i Piceni avevano stretto con i Tarentini, probabilmente per poter disporre di una buona carta nella disputa con i troppo inva¬denti amici di Roma.
Sta di fatto che la situazione era divenuta insostenibile al punto che i Piceni, raccolte tutte le loro forze, affrontarono le legioni romane in campo aperto. Due anni durò la guerra (269-268 avanti Cristo) e la battaglia che doveva concluderla fu combattuta nell'ascolano. I Piceni ne uscirono totalmente disfatti. Si racconta — ma la cosa sa molto di leggenda — che nel bel mezzo della battaglia, la terra fu scossa da un terremoto; i soldati dell'uno e dell'altro esercito smisero di combattere in preda allo sgomento. Il console Publio Sempronio, che comandava i Romani, fu il più sollecito a riaversi ed a sospingere i suoi contro il nemico, il quale, colto alla sprovvista, subì di conseguenza una clamorosa disfatta.
Trecentomila furono i Piceni che si sottomisero ai Romani. Parte del paese fu incorporato al territorio romano, dandosi agli abitanti il diritto di cittadinanza senza suffragio; l'altra parte fu confinata, deportandone la popolazione in quella regione tra la Campania e la Lucania che prese poi il nome di agro picentino.

LA MONETA JESINA

Anticamente la gente pagava la merce barattandola con altra merce. Ma quando il baratto risultò inadeguato al sempre crescente volume di affari e alla sempre più larga varietà dei prodotti commerciati, ovunque si rese necessario l'uso della moneta. Quale fu la prima moneta in uso presso gli Jesini? Fu moneta propria o moneta di altri paesi?
Secondo alcuni storici locali, Jesi nel III secolo avanti Cristo avrebbe battuto moneta propria. La prima affermazio¬ne in tal senso ci viene dal Bernardi, il quale lasciò scritto nella sua cronaca jesina del XIV secolo «di averne avute diverse e di diverso metallo e valevano dieci assi». Abbiamo però visto nel capitolo precedente che non sempre il Bernardi è da prendere sul serio. Il Grizio, due secoli dopo, affermò che «questa città era la città reale ed in essa si batteva, in suo nome (cioè in nome del re Esio) la moneta, come si può considerare da alcune medaglie antichissime che si trovano nel nostro territorio, sulle quali da una banda vi sono queste lettere: Rex Aesis e dall'altra un Iano». Infine Tommaso Baldassini riferì che si trovavano, ai suoi tempi (1700), «di quando in quando nel nostro territorio alcune monete, in una parte delle quali si leggono queste parole Rex Aesis e dall'altra parte figura la faccia del dio Pan». «Ed io — dichiarò lo stesso Baldassini — cinquant'anni or sono ne vidi una coi miei propri occhi».
Quest'ultima testimonianza parrebbe escludere ogni incertezza in proposito. Senonché il Gianandrea accusò il Baldassini «di aver ripetuto con tutta ingenuità la stessa storia» del Grizio. E qui storia sta per favola. Da allora, nessun altro storico ha più osato far cenno della moneta jesina.
Soltanto l'ing. Cecon, una ventina di anni fa, riprese a parlarne, con l'evidente speranza di dimostrare l'esistenza di quella moneta jesina. «II fatto che di queste monete non si sia più parlato e che nessuno più ne abbia veduto esemplare» non parve al Cecon «ragione sufficiente per negarne l'esistenza». Cosicché condusse per proprio conto delle ricerche; si rivolse anche ai conservatori di numerosi gabinetti numismatici italiani per sapere se nelle loro raccolte si trovasse la moneta di Jesi del II o del I secolo avanti Cristo, ma ebbe sempre risposta negativa.
Tuttavia il Cecon restò nella convinzione che Jesi abbia battuto anticamente una moneta propria: due grandi ricercatori d'antichità classiche, il Mommsen ed il Berclay, sono concordi nell'ammettere che verso il 270 a.C. le città picene di Ancona, di Fermo e di Ascoli hanno coniato moneta di vario metallo (di cui si conservano rarissimi esemplari), per cui anche Jesi, che allora aveva commerci fiorentissimi sia con le popolazioni vicine che con le popolazioni d'oltre Adriatico, compresa la Magna Grecia, deve aver usato una moneta propria. E, pur condividendo il parere che a Jesi non potesse esistere a quel tempo una zecca, date le condizioni politiche ed economiche della regione picena, così concludeva: «Ho ragione di ritenere che Jesi, città non seconda a Fermo e ad Ascoli, può aver fatto coniare la sua moneta in qualche città greca o della Magna Grecia, molto più progredite delle nostre nelle arti e nelle industrie».

MARIO E SILLA

Alla sconfitta dei Piceni avvenuta in Ascoli nel 268 avanti Cristo ed al loro definitivo assoggettamento alla crescente potenza di Roma non seguirono anni tranquilli per la nostra gente. Roma, presto impegnata nelle lunghe e sanguinose guerre puniche, aveva bisogno di uomini e di mezzi per fronteggiare gli eserciti nemici. Particolarmente prezioso per i Romani fu il contributo che le città picene gli diedero durante la seconda di tali guerre (219-201 a.C.).
Annibale, sceso in Italia attraverso le Alpi e battuti i Romani al Ticino, al Trebbia e al Trasimeno, invase il Piceno facendo strage degli uomini atti alle armi e compiendo orribili saccheggi; poi si trasferì nel meridione portando con se una stragrande quantità di bottino. A Canne, Romani e Cartaginesi si scontrarono di nuovo e per i primi l'esito della battaglia fu disastroso. Silvio Italico riferisce che, in quella battaglia, accanto ai Romani e ai loro alleati, combatterono anche truppe inviate da varie città del Piceno; cita Ancona e Numana, ma è assai probabile che fossero in campo anche soldati jesini. Così come truppe jesine parteciparono quasi certamente, insieme a milizie dei territori gallico e piceno, alla battaglia combattuta e vinta dai Romani contro Asdrubale nel 207 avanti Cristo sul fiume Metauro, a nord di Senigallia.
Jesi, nel frattempo, era diventata colonia romana. Tali erano considerate le città situate in luoghi stategici, a cavallo delle grandi vie di comunicazione. Vi erano stanziati gruppi di cittadini romani (per lo più veterani) e potevano ritenersi centri d'irradiazione della civiltà romana. Ma a quel tempo le cose, sotto il profilo economico, non andavano ancora bene. Le lunghe guerre, se avevano fatto di Roma e dell'Italia il centro di un grande impero, avevano aumentato lo squilibrio economico fra le classi sociali: i patrizi si arricchivano sempre di più per l'occupazione delle terre che lo Stato aveva confiscato ai vinti; i plebei, pieni di debiti e costretti ad abbandonare i loro poderi, vivevano ormai nella più squallida miseria. La legge agraria del 133 avanti Cristo (nessuno poteva possedere più di cinquecento jugeri di agro pubblico, pari a circa 125 ettari; chi ne aveva di più doveva renderli allo Stato che avrebbe pensato a distribuirli ai plebei), legge varata dal tribuno Tiberio Gracco che ci rimise la vita, incontrò l'accanita resistenza dei patrizi ed ebbe scarsa esecuzione. Fu quella legge ad originare la guerra civile fra Mario e Siila — l'uno difensore del popolo e l'altro capo del partito aristocratico — terminata con la, dittatura di Silla.
Sulle rive del fiume Esino si ebbe uno dei sanguinosi scontri fra gli eserciti dell'una e dall'altra parte. La battaglia avvenne nella primavera dell'anno 72 a.C. tra Orazio. Metello, generale di Siila, e il pretore Carina o Cannate agli ordini dei consoli Papirio Carbone e Mario il Giovane. Carina vi ebbe una terribile sconfitta, la quale, unita alle altre ricevute similmente nell'Umbria e nel Piceno da Carbone, costrinsero questo a ripararsi in Etruria, lasciando le nostre contrade in balia dei Sillani.
Altre lotte intestine dovevano poi travagliare la repubblica romana, come la guerra fratricida fra Cesare e Pompeo. In questo tumultuoso periodo di lotte civili, il Piceno fu una inesauribile miniera di soldati che offrirono il loro braccio e il loro sangue all'uno e all'altro dei contendenti. Finalmente Ottaviano Augusto poté dedicarsi all'organizzazione di quella che fu la più vasta monarchia dell'antichità, ristabilendo la pace interna, migliorando i costumi e diffondendo l'amore per la famiglia. Per ricompensare i tanti legionari che si erano battuti per lui, Ottaviano fece loro una grande distribuzione di terre anche nella nostra zona, ove pertanto vennero a stabilirsi parecchi «veterani» di Filippi e di Azio.

La Storia di Jesi

mercoledì 26 gennaio 2011

LE PRIME POPOLAZIONI MARCHIGIANE

UMBRI, PICENI E GALLI SENONI

ARRIVANO GLI UMBRI

I Pelasgi, fondatori di Jesi, accudivano pacificamente alle loro cose allorché dai monti sopraggiunsero gli Umbri. Chi erano gli Umbri? Erano un popolo di origine asiatica, appartenenti a tribù di tipo brachicefalo («gente con la testa a forma di pera» per dirla con Montanelli). Queste tribù erano scese in Italia sul finire dell'età del bronzo o forse anche prima. Calate in Italia a più riprese, si erano stabilite inizialmente nella valle del Po e in alcune zone della Romagna; poi si erano spinte più a sud, giungendo fino alle Puglie. L'Umbria antica, quindi, aveva un'estensione di territorio ben maggiore di quella attuale.
Il popolo umbro di tanti secoli fa viene considerato l'iniziatore della civiltà del ferro. Era pertanto già abbastanza evoluto, anche se i propri morti, anziché seppellirli, preferiva cremarli e incenerirli. Queste tribù di provenienza asiatica influirono profondamente anche sull'evoluzione dei precedenti linguaggi dei popoli europei, dando luogo alla famiglia delle cosiddette lingue indo-europee.
Gli Umbri, dunque, nella loro calata dal Nord, arrivarono un bel giorno anche dalle nostre parti. Inizialmente i loro rapporti con i Pelasgi furono rapporti di buon vicinato. Entrambi i popoli si erano distribuiti tacitamente le zone da abitare ed ognuno tirava avanti per proprio conto. Ma non tardarono a scendere sul piede di guerra e fu quando i Pelasgi, con mire espansionistiche e non conoscendo la forza dei loro vicini, assalirono e depredarono alcuni villaggi degli Umbri. Questi ultimi, potenti e valorosi, reagirono con estrema decisione; affrontarono apertamente i Pelasgi e inflissero loro una dura sconfitta. Con la disfatta dei Pelasgi, anche Jesi passò sotto il dominio degli Umbri, i quali avrebbero poi fabbricato sul territorio che era stato dei loro avversari — l'affermazione è di Tommaso Baldassini — ben trecento città.
La calata degli Umbri, ad ogni modo, non rappresentò un nefasto avvenimento per la popolazione locale. Infatti i nuovi venuti, sebbene facessero pesare per un certo periodo la loro autorità sugli aborigeni, si fusero via via con gli antichi abitatori, più numerosi, dando vita ad una civiltà più progredita, la civiltà del popolo piceno.

LA CIVILTÀ PICENA

Poche ed incerte notizie si hanno circa la lingua, la religione e l'organizzazione politica del popolo piceno, che dominava la parte meridionale dell'attuale regione marchigiana (più una parte degli Abruzzi) con Ascoli per capitale. E' certo però che la civiltà picena conferì alla nostra regione una fisionomia caratteristica ed omogenea, nettamente distinta da tutte le altre stirpi della penisola. Fu, quello piceno, un popolo che per quasi settecento anni diede prova di feconda vitalità.
Gli antichi Piceni erano particolarmente dediti alla vita domestica. Nel periodo più arcaico dell'età del ferro non ebbero città murate: le abitazioni erano in forma di capanne ovali, costruite di terra e di vimini, e sorgevano quasi sempre nelle immediate vicinanze delle rispettive necropoli. Un popolo, quello piceno, non ambizioso di espansione, rifuggente dalle novità, tradizionale e tenacemente conservatore delle sue vecchie usanze. La donna dell'età del ferro, anche se paga il suo tributo all'innato senso di vanità, non si mostra meno energica e gagliarda dell'uomo; i suoi ornamenti hanno qualche cosa di massiccio e di ingombrante: l'acconciatura del capo è frastagliata di lunghe e appariscenti corone di ambra e di globetti; collane madornali, pendagli ornati di una selva di catenelle e di altri voluminosi ninnoli le ricoprono il petto;
armille e anelli di varie dimensioni fanno mostra in tutte le parti del corpo. Smisurate fibule e amuleti in forma di idoli o di strumenti magici arricchiscono il suo già complesso repertorio di bellezza. Essa talora compete con l'uomo anche nell'uso delle armi.
Industrie caratteristiche dei Piceni dovettero essere quelle delle armi da guerra, che erano allenati ad usare per legittima difesa, sia contro i loro simili che contro le belve: spade, lance, elmi, corazze e scudi, con i quali poi, alla loro morte, venivano seppelliti. Gli antichi Piceni costruivano anche, naturalmente, gli utensili occorrenti per la vita di tutti i giorni, mentre gli oggetti di lusso dovevano essere generalmente importati. Ma in alcune epoche dovette fiorire anche un'arte locale, ingenua e semplice, pur priva di forza e di originalità. Numerose nei vari centri le fabbriche di vasi di ceramica e di bronzo. Molto sviluppo ebbe l'agricoltura, mentre meno sentita era la passione per la caccia e la navigazione.
Popolo piceno, civiltà picena. Che significa «piceno»? Per la maggior parte degli studiosi, la spiegazione, seppure accompagnata da qualche riserva, da dare a questa parola è una sola: piceno deriverebbe dalla parola «pico» o «pellicano» o ancora «picchio verde» (Picus Martius), uccello sacro a Marte che avrebbe guidato una tribù di Sabini nella marcia che li portò dalla loro Sabina ad occupare le terre della bassa Marca. Certuni invece ritengono che il nome «piceno» derivi da «picea», che nei dialetti italici avrebbe il significato di «ambra», la resina fossile, abbondante nel nostro territorio, di cui anticamente le popolazioni di qui si servivano per creare monili e collane, oggetti questi che, in diversi esemplari, sono stati rinvenuti anche di recente nelle antiche necropoli picene. Tale versione ci sembra la più attendibile, se si considera che la venuta nell'ascolano dei Sabini guidati dal sacro uccello ebbe luogo quando già esisteva il popolo piceno.
La penetrazione dei Sabini nel Piceno avvenne infatti verso il IV secolo avanti Cristo. Questa giovane tribù non ebbe eccessive difficoltà a sopraffare i Piceni, colti probabilmente in periodo di decadenza, poco dopo, in Ancona sbarcavano i Siracusani di Dionisio il Vecchio, mentre da Nord calavano i Galli Senoni, i quali, giunti al nostro fiume, stabilivano qui il confine Sud del loro territorio (il fiume Rubicone segnava il confine a Nord. Jesi, conquistata dai Galli, diveniva la loro roccaforte avanzata. Correva l'anno 391 avanti Cristo.

I TERRIBILI GALLI

II Gallo era robusto e aitante di sua persona; dall'epidermide bianca, occhi cerulei, capelli biondi o castani, che procurava tingere di rosso vivo o con acqua e calce, o coll'ungerli di una pomata caustica di sego e ceneri. Li portava in tutta la lunghezza, or ondeggianti sulle spalle, or raccolti al cocuzzolo. Il popolo si lasciava crescere la barba, i nobili si radevano il viso, eccetto il labbro superiore, ove tenevano folti mustacchi. Vestiti comuni a tutte le tribù erano le brache; camicie con le maniche di stoffa rigata che dava a mezzo le cose, e sai o casacche rigate come le camicie , o a fiori, dischi, figure d’ogni specie. Il popolo più basso si accontentava di una pelle di fiera o di montone o di una specie di sargia di lana grossa.
Questi erano i Galli Senoni, la cui ferocia era davvero incredibile. Quando uccidevano un nemico, gli tagliavano la testa e l'attaccavano alla criniera del cavallo per inchiodarla alla prima occasione sulla porta di una casa. Insomma, era gente tutt'altro che raccomandabile. Al loro sopraggiungere, l'antica civiltà umbra ed etrusca, che aveva avviato l'Italia verso un fiorente progresso, scomparve nel breve volgere di pochi decenni. I campi che erano coltivati tornavano a riempirsi di boschi e alle splendide città etrusche successero capanne di barbara gente, che viveva di prede e di stragi e pareva nata a distruzione del genere umano.
I Galli Senoni, dopo essersi stabiliti a Nord dell'Esino, non lasciarono passare molto tempo per operare qualche sortita al di là del fiume, avanzando verso Montefortino, Osimo e Filottrano. In Ancona, Dionisio il tiranno, per evitare soprese da parte degli invasori, strinse una specie di accordo con i Galli. In seguito però i Siracusani di Ancona avrebbero rotto tale alleanza, entrando a far parte di una grande confederazione di cui facevano parte molte città del Piceno per la comune difesa contro i Galli invasori.

Storia di Jesi

domenica 23 gennaio 2011

I PRIMI JESINI ERANO GRECI


I PRIMI JESINI ERANO GRECI

I primi segni della vita umana nella nostra regione risalgono a circa cinquemila anni fa, cioè all'età della pietra o, per dirla con i geologi, al periodo neolitico. A questo periodo, infatti, appartengono oggetti di pietra rinvenuti presso Fano, Senigallia ed anche nel territorio della nostra città. Siamo agli albori della vita umana. I nostri lontanissimi antenati sono selvaggi, primitivi, lottano con le belve per sopravvivere;

si dedicano alla pastorizia, alla caccia e alla pesca. Quindi inventano i metalli, abbandonano le caverne, costruiscono capanne, le famiglie si raccolgono in villaggi, talvolta anche a regime matriarcale. Inizia, insomma, la vita sociale ed organizzata.
Nella nostra regione le donne, fin da allora, si preoccu¬pano di essere alla moda. Il loro abbigliamento è intensamente corredato di bracciali, pendagli, ninnoli e vistose collane. Gli uomini, che hanno imparato presto a costruire ed usare le armi, dedicano buona parte del loro tempo ad istruirsi per la lotta, non solo per difendersi dalle belve, ma, purtroppo, anche per offendere altri uomini che impareranno a distinguere come nemici. E' accertato, infatti, che nella nostra regione già le più antiche popolazioni manifestavano indole ed abitudini guerriere, attendendo di preferenza a lavorare coltelli, spade e picche con la pietra e con il bromo.
Nei villaggi la superstizione, nata con l'uomo, si traduce presto nell'adorazione degli idoli. E profonda è la devozione per i morti, che erano inumati con gran cura e generalmente in posizione contratta, rannicchiati e seduti, con accanto gli oggetti che erano già serviti al defunto: armi, in modo particolare, se questi era uomo; ingredienti da toeletta se era donna.

L'ARRIVO DEI PELASGI

Stando agli antichi scrittori, il primo popolo che abitò l'Italia (o comunque uno dei primissimi) fu quello dei Liguri. Nella nostra regione sarebbero giunti per primi i Liburni, una specie di ramificazione dei Liguri, sparsisi gradatamente per tutta la penisola. Poi vi furono diverse immi¬grazioni, tra cui quella — tremila anni fa circa — dei Pelasgi di re Esio.
Secondo Tommaso Baldassini, i Pelasgi col loro valore avevano soggiogato non solo tutto l'oriente, ma, introdottisi nell' Europa occidentale, l'avevano conquistata, portando in queste parti l'uso delle lettere. Qui, finché vissero in pace, godettero di una grande tranquillità, possedettero molte ricchezze, acquistarono molte regioni ed edificarono molte città. E racconta poi come uno dei re pelasgi — Esio, appunto — il quale, riconoscendo queste nostre parti e ritrovandole per il mare poco distante comode per il commercio, per l'abbondanza di ogni commestibile, per la molteplicità delle buone acque, per la popolazione, presso questo fiume fermò il piede e stabilì la sua sede, denominando la città ed il fiume dal proprio nome. Il Grizio non esclude invece l'ipotesi che la nostra città sia stata chiamata Jesi dalla voce greca «esios», la quale, nella nostra lingua, vuoi dire «fortunato».
A quei tempi il fiume Esino, per il tratto che corre all'altezza della nostra città, non scorreva sul letto attuale, ma più a ridosso del promontorio ove aveva sede l'antica Jesi (allora chiamata Esio). La quale, secondo certa tradizione, era ubicata ai piedi del promontorio, pressappoco ove è oggi la chiesa di Santa Maria del Piano. Solo dopo le prime devastazioni barbariche, i suoi abitanti decisero di trasferirsi sulla area che ospita l'attuale nucleo storico della città, evidentemente perché quest'ultima posizione offriva maggiori possibilità di difesa.
Tornando ai Pelasgi ed al loro mitico condottiero, Tommaso Baldassini arriva a riferire, per sentito dire e per deduzione, che presso Jesi, e precisamente nella contrada oggi detta Gangalia, vi era un bellissimo bosco d'altissime querele (l'albero della quercia era dedicato a Giove) che occupava oltre duecento jugeri di terra. Era, quello, il bosco sacro ove re Esio si sarebbe recato periodicamente per i suoi superstiziosi sacrifici.
E giacché siamo in tema di fantasticherie, non ce ne voglia il lettore se, a puro titolo di curiosità, aggiungeremo che sulle origini di re Esio circolava nei tempi andati un'altra versione, respinta, per nostra fortuna, anche dalla leggenda. Tale versione venne riferita, pare attorno al 1300, da un certo Angelo Bernardi, autore di una storia di Jesi che il Gianandrea non esitò a definire «insulsa e sconnessa». A detta del Bernardi, re Esio era un capitano dei Galli conquistatori della nostra città. L'ameno scrittore aveva costruito attorno a questo personaggio addirittura un albero genealogico. Il suo re Esio, nato dal matrimonio di Esia ed Astolfo, di origine gallica, sarebbe convolato a nozze con Bellaflora Gabbani, dalla quale aveva avuto un figlio chiamato Galvo. Quando sopraggiunsero le legioni romane per liberare Jesi dai Galli invasori, re Esio, per evitare la cattura, aveva cercato di rifugiarsi nella boscaglia al di là del fiume, ma nella traversata, travolto dalle acque, era miseramente annegato. Il suo corpo aveva avuto onorata sepoltura nella più alta ripa bianca, dove più tardi i figli dello stesso re fecero costruire una piramide della quale poi si servirono come guardia del fiume.
Per quanto le teorie degli studiosi circa le origini del popolo pelasgico siano controverse, resta il fatto comunque che esso è veramente esistito. Secondo gli storici più accreditati, sarebbe giunto in Italia direttamente dalla Grecia. Proprio ai Pelasgi, anzi, dovrebbero essere attribuite le prime opere di colonizzazione ellenica nella nostra penisola. Vale la pena di riportare, a questo punto, i versi di Silvio Italico, divenuti famosi:
Ante, ut fama docet, terra possesso Pelasgis
Queis Aesis regnator erat, fluvioque reliquit
Nomen, et a sese populos tum dixit Asylos.
(Prima, come la storia insegna, la terra fu possesso dei Pelasgi
Colui che fu il sovrano di Aesis diede nome al fiume
Ed alle stesse popolazioni alle quali, a quel tempo, diede asilo)

SCHEDA ANAGRAFICA

Si è detto che la fondazione di Jesi risale a circa tremila anni fa e tale collocazione nel tempo, nonostante l’assoluta mancanza di prove che lo confermino, deve ritenersi sufficientemente approssimativa. Nel passato, comunque, qualcuno volle essere più preciso:
«Jesi — scrisse — è stata edificata quindici anni prima di Roma, nel secondo anno della terza Olimpiade». Senonché quel «qualcuno», qualificatosi come Gabinio Leto, autore di un'opera tanto famosa quanto discussa, il «De Condita Italia», è risultato essere in seguito un famoso falsario di codici e documenti antichi, il medico Alfonso Ceccarelli di Bevagna, vissuto nel 1500.
Accantonata frettolosamente l'affermazione del medico bevagnese, abbiamo però subito la deposizione di un altro studioso, il Lucidi, che, almeno in questo, da ragione a Gabinio Leto. Dice Tommaso Baldassini che, secondo il computo del Lucidi, essendo le Olimpiadi incominciate avanti la Passione di Gesù Cristo anni ottocento e mesi sei, l'edificazione di questa città seguì dopo gli anni della creazione del mondo 3.195. Avanti la venuta del Redentore 766. Prima della fondazione di Roma anni 14. Dell'incendio di Troia anni 411, regnando presso gli ebrei Jonatah e presso i latini Amulio. E, secondo il computo che si deduce dal Tirino — altro testimone chia¬mato in causa dal Baldassini — negli anni del mondo 3.237, nell'anno dodicesimo di Ozia, re di Giudea, e nell'anno 26° di Geroboamo, secondo re d'Israele. Ed in un opuscolo antico, di Fedele Honofrio — ultimo teste citato dallo storico jesino — così si dice: Jesi, città nobilissima, fu edificata avanti la natività di Cristo circa anni 767.
A sanzionare tali notizie sull'anno di fondazione della città di Jesi vennero in seguito le parole di un pontefice, papa Innocenzo III, il quale, quasi a voler porre termine a qualsiasi disputa in proposito, ebbe così a scrivere in un breve indirizzato al Capitolo jesino:
«Quod cum Civitas Aesina ad Aesio Rege quindecim annis ante Urbem conditam extructam...».
Paolo Castelli, vissuto nel 1700 ed espertissimo in fatto di cose astrali, stabilì, dopo pazienti e meticolosi studi, la posizione di Jesi da un punto di vista quanto meno insolito:
«Le stelle verticali a questa città sono la fissa australe nel piede sinistro posteriore dell'Orsa Maggiore di quarta grandezza della Natura di Marte. La fissa dell'anca dell'ala sinistra della Gallina, di terza grandezza della Natura di Venere e Mercurio. E' posta nel primo circolo del sesto Firmamento. Ha di altezza di polo gradi 43, minuti 40 circa, è soggetta a Marte e Venere». Che si vuole di più?

La Storia di Jesi

LA LEGGENDA DI UN RE



La leggenda di Re Esio



La storia di Jesi ha inizio in un lontano giorno di tremila anni fa. Un inizio senza spettatori. Una piccola folla di gente risale il corso del nostro fiume, incolonnata lungo la sponda sinistra. Avanza lentamente, aprendosi la strada tra la fitta sterpaglia e gli alti pioppi che si specchiano nelle acque del fiume.
E' gente strana, dal nome strano — «pelasgi» li dicono dalle loro parti —, i volti abbronzati, segnati dalla stanchezza di un viaggio lungo e avventuroso. Hanno indumenti logori; alcuni vestono pelli di animali che sanno di selvatico. I volti degli uomini sono incorniciati da capigliature e barbe folte che interminabili giornate di sole hanno reso aride, stoppacciose.
Sono i superstiti di una flottiglia di piccoli e veloci legni che hanno vinto la battaglia contro le tempeste dell'Adriatico. Sono sbarcati da pochi giorni verso la foce di quel fiume che ora sbriciola in mille luccichii i raggi del sole. Emigrati dalla loro terra — che è stata la patria dei loro vecchi, degli eroi cantati da un poeta cieco per i villaggi della lontana Grecia — sono alla ricerca di una nuova terra, di una nuova patria.
Ed eccoli giunti, dopo una marcia estenuante, ai piedi di un'altura cresciuta come d'incanto nel cuore della vallata che li aveva accolti giù, alla foce del fiume. Tutt'attorno, boschi a perdita d'occhio, arrampicati sulle colline circostanti. E il silenzio di una natura addormentata da millenni. Da sempre.
Un uomo, dall'aspetto venerando e regale, con l'insegna del comando indica quel promontorio che par quasi un isolotto emerso a bella posta, nel mezzo della valle, per raccogliere dei naufraghi. E si incammina in quella direzione. Gli altri lo seguono, tenendo il suo passo, senza parlare. Sulla parte più alta del colle, il vegliardo re spinge lo sguardo lontano, scoprendo un paesaggio meraviglioso, disegnato dalle cento tonalità di un verde immenso, tagliato appena dalla sinuosa traccia del fiume che si perde giù, verso il mare.
Il vecchio re, volto allora ai suoi, fa un cenno di assenso e tutti depongono a terra le loro povere cose. Dunque hanno trovato finalmente la terra promessa, sono giunti alla meta del lungo peregrinare per mari e terre. Questa terra d'ora in avanti sarà la loro nuova patria.
E così fu che re Esio fondò la città di Jesi.

Quella che vi ho raccontato è la storia della fondazione di Jesi. Una storia che sa troppo di leggenda per essere vera. Ed infatti vera non è.
Eppure fino a meno di due secoli fa gli storici — non solo di casa nostra — la accettavano per buona, certo in buona fede, e puntualmente la ripetevano (magari senza quella patina di colore che ho cercato di dargli io), affinché i posteri non dimenticassero l'origine regale della loro città e la figura di quel vegliardo re che fu, se visse, il primo cittadino di Jesi.
Gli Jesini hanno sempre creduto nella storia di re Esio, o meglio hanno finto di crederci. Probabilmente perché, anche se non ci piace darlo a vedere, in fondo siamo dei romantici; poi perché siamo dei tenaci custodi delle nostre abitudini (ed anche il credere in una favola può diventare un'abitudine); ma più probabilmente per una questione di prestigio: non capitava tutti i giorni che una città venisse fondata da un re. E porre sul biglietto da visita di una città una corona regale non dispiace neppure oggi al popolo jesino, anche se vanta preferenze repubblicane e se rinnega, dopo settecento anni, il titolo di regia conferito alla sua città da un grande imperatore.
La storia di re Esio è dunque una leggenda. O lo è almeno al novanta per cento, perché non si può respingere definitivamente per insufficienza di prove ciò che non è accertabile.
Io, ad ogni buon conto, la breve storia di re Esio ve l'ho raccontata, così come mi hanno aiutato ad immaginarla fin da ragazzo. E ve l'ho raccontata soprattutto perché una storia di Jesi che iniziasse senza la storia di re Esio non parrebbe vera. Anche se si tratta di un re vegliardo e magari simpatico, ma maledettamente leggendario.

La Storia di Jesi

venerdì 21 gennaio 2011

LA STORIA DI JESI



LA STORIA DI JESI E DI NOI JESINI

Il ritrovamento di un vecchio testo degli anni '60 sulla storia di Jesi mi ha effettivamente affascinato. Dal momento che il libro è ormai introvabile, sto scannerizzando le pagine, inserendo alcune mie note personali.
Per chi fosse interessato all'oggetto, metto il link per accedere al mio lavoro, anche se incompleto, ma che si arricchirà giorno dopo giorno.