mercoledì 26 febbraio 2014

SOTTO I MALATESTA

SOTTO I MALATESTA

Eliminato il suo più forte rivale, il Boscareto ebbe via libera e poté assumere, per conto e con la protezione del Bavaro, il titolo di vicario di Jesi. Con crudeltà barbara, continuò a tagliare la testa a coloro che avevano seguito la fazione guelfa e li ammazzava talvolta con crudeli e durissime morti, speran­do, una volta annientata la parte avversaria, di farsi nominare signore assoluto della città.
Furono anni terribili, non solo per la nostra città, dice il Grizio. In campo nazionale, il papa ed il Bavaro erano in lite continua; in campo locale, nella Marca d'Ancona e nella stessa Vallesina, ognuno, per piccolo signore che fosse, si sforzava rubare le cose altrui sema alcuna vergogna; e or questo e or quello si aggrediva e, secondo che cambiava la fortuna, or altri nominava le loro ville dalla loro fazione «guelfe», or altri dalla loro «ghibelline». Fu questo il caso, molto presumibil­mente, di Castelbellino (=Castel Ghibellino), dove la fazione ghibellina avrebbe prevalso su quella guelfa.
Si che, essendo in scompiglio le cose sacre e profane, si combatteva talora in tutte le contrade della nostra città, che con catene grosse di ferro si chiudevano con grandissima ira e rabbia, e scorrevasi per i villaggi in modo che gli alberi, le viti e le case restavano dalla crudeltà dei guelfi e dei ghibellini tagliati, bruciati e spianate, di sorte che non vi conoscevano alle volte le vestigio. La qual cosa capitò, ad esempio, a Boccaleone, Castel Montano e alla Villa Tessenaria. E, quel che è peggio, la parte vincitrice non permetteva che i vinti riedificas­sero i luoghi minati, anche quando avevano ceduto.
Fortunatamente il dispotismo del conte di Boscareto sul­la nostra città non ebbe lunga vita. Cinque anni dopo la decapitazione di Tano Baligani, Jesi e le altre città della Marca non erano più in mano dei ghibellini, essendo tornate all'ob-bedienza del pontefice. Nel 1333, sicché, nella Jesi guelfa non doveva esserci più posto per il Boscareto; a meno che questi, per conservare la Signoria, non si fosse convertito nel frat­tempo al guelfismo per conservare il posto nella magistratura jesina. Questa ipotesi potrebbe trovare conferma in un fatto d'armi del 1337, precisamente nell'assedio di Osimo ad opera degli Anconetani, a fianco dei quali ed insieme ad altri condot­tieri di parte guelfa, viene citato anche Nicolo di Boscareto.
Il conte Bisaccioni in ogni caso nel 1342 era più che mai ghibellino, altrimenti non sarebbe stato nominato, co­me in effetti fu, dal Bavaro fra i vicari eletti nelle città della Marca in quello stesso anno e non avrebbe potuto, sempre nel 1342, riacquistare la Signoria della nostra città Ma gli Jesini erano ormai stanchi di lui e dopo appena qualche mese cacciarono da Jesi a furor di popolo per la sua crudeltà.
Boscareto riparò nei suoi domini di Montenovo, Corinaldo e, appunto, Boscareto (dal 1343 al 1345 sarà podestà di Serra de' Conti).
La rivolta contro Nicolo Bisaccioni era stata capeggiata da Lomo di Rinaldo Simonetti, meglio conosciuto a quel tempo come Lomo di Santa Maria. Era anche questi un capi­tano arditissimo e si era distinto l'anno prima quando, assalito dai guelfi comandati dal rettore della Marca Dalmaziano da Quagliano, aveva sconfitto sui piani di S. Lorenzo in Campo un nemico molto superiore. A Lomo di Santa Maria venne affidata la Signoria di Jesi.
I MALATESTA
Nel 1347, come se non bastassero le beghe politiche e le guerre con il vicinato, anche Jesi dovette subire il grave distur­bo arrecato dal passaggio delle truppe di Luigi d'Ungheria, che se ne andavano per le nostre terre alla conquista del regno di Napoli. Poi, un anno più tardi, facevano il loro ingresso nella Marca d'Ancona, per occuparla quasi del tutto, Galeotto e Malatesta dei Malatesta, signori di Rimini. Jesi, durante il loro dominio, dovette subire due invasioni, nel 1353 la prima e nel 1354 la seconda. Anche i nuovi invasori — che, per quel che ci riguarda, erano guidati da un altro famoso capitano di ventura. Fra Mortale — fecero i soliti molti danni alle persone e al paese.
Per mettere fine a tanto disordine, il nuovo papa. Inno­cenzo VI, nominava suo legato in Italia e vicario generale del­lo Stato pontifico, con l'incarico di riconquistarlo all'autorità della Chiesa, il cardinale Egidio Albornoz. Questi inviò nella Marca, come rettore, il nipote Blasco Ivanez di Belviso con un esercito comandato da Rodolfo da Camerino, il quale si impa­dronì subito di Fermo, mentre Recanati si ribellava ai Malatesta. Poi i Malatesta subivano una pesante sconfitta presso An­cona, a Paterno; a questa battaglia, nella quale rimase ferito e prigioniero lo stesso Galeotto Malatesta, prese parte anche il Boscareto: secondo il Natalucci, era fra i capitani al servizio del rettore pontificio, mentre per il Gianandrea era allineato con le milizie malatestiane.
Il rovescio toccato ai Malatesta li convinse a chiedere la pace; cosiché quasi tutte le città della Marca ora erano di nuo­vo sotto il dominio della Chiesa. Il ritorno di Jesi alla Chiesa avvenne senso contrasto e solo per effetto della disfatta che ebbe a soffrire Galeotto Malatesta. Soltanto il Sepulveda, sto­rico della guerra fatta in Italia dall'Albornoz, sostiene che Jesi fu espugnata da Blasco Fernandez de Belviso.

                                                          LE COSTITUZIONI
Seguirono alcuni anni di relativa tranquillità; relativa, perché c'era sempre qualche grana pronta a turbare la quiete dei governatori jesini. Nel 1355, ad esempio, i castelli di Massaccio e Monsanvito tentavano di sottrarsi al dominio di Jesi; ma il rettore della Marca li costringeva all'obbedienza, sotto la pena di mille fiorini d'oro. Contemporaneamente venivano solle­vate dalle rovine San Marcelle, Belvedere, Morrò ed altri castel­li mandandovi ad abitare le famiglie dei popolani accresciute nella città.
La calma di quegli anni permise all'Albornoz di riorganiz­zare le terre dello Stato pontificio. Nella «Descriptio Marchiae» egli fissò i limiti giurisdizionali di ciascuna città, terra o castel­lo e il censo annuale che doveva essere pagato alla S. Sede. Quindi compilò le «Costituzioni», che regolavano tutto lo Stato ed in base alle quali nei singoli Comuni gli statuti locali in tanto avevano vigore in quanto rispettavano i principi della legislazione ecclesiastica. Tutto, insomma, sembrava volgere per il meglio, anche perché nell'aprile del 1357 a Fano, nel­la casa di Galeotto Malatesta, rettori, vescovi, gonfalonieri, sindaci e personalità delle diverse città della Marca dichiara­vano di accettare le nuove leggi.
Ci fu, in realtà, una parentesi alla tregua nel 1360, quando i castelli di Corinaldo, Montebove e Boscareto si ribellarono, coinvolgendo nella rivolta anche il Montefeltro, Jesi, Ascoli e F'ermo, in odio anche al rettore della provincia, che era allora li perfido Giovanni da Oleggio, ma la sommossa venne presto soffocata da Galeotto Malatesta che operava agli ordini dell’Albornoz.
Il «perfido» Giovanni da Oleggio il 3 dicembre del 1363 ra­tificava gli Statuti jesini redatti dal notaio Sante Colocci; tali statuti (più precisamente, si trattava di un aggiornamento di quelli elaborati nella nostra città nella terza decade del 1200) erano contenuti in cinque carte bombicine; purtroppo non se ne ha più alcuna traccia. 
ANCORA DISORDINI
II 30 aprile del 1367, a bordo di una galea anconetana, papa Urbano V abbandonava la sede di Avignone e tornava in Italia. A Viterbo, ove si erano recati a rendergli omaggio gli amba­sciatori di tutto lo Stato pontificio, il cardinale Albornoz gli consegnava un carro pieno di tutte le chiavi della città e castel­li da lui sottomessi. Tré anni dopo, però, il papa tornava ad Avignone a causa di nuovi disordini in Italia, questa volta dovuti ad una acuta lotta fra la Chiesa ed i Visconti.
In quel periodo non poche città della Marca si solleva­rono ed anche Jesi evidentemente ne fu coinvolta se nel 1371, per mezzo di D. Gerardo, legato apostolico nella Marca, gli Jesini ottenevano l'amnistia dal nuovo papa Gregorio XI, e se nel 1374 ancora gli Jesini, caduti in altri demeriti, per confisca perdettero i beni ed i privilegi (tuttavia la mediazione dello stesso D. Gerardo ed il pagamento di quattrocento fiorini d'oro permetteranno agli Jesini di essere reintegrati negli uni e negli altri), e se, nel 1377, Gregorio XI, che era tornato a Roma da Avignone due anni prima, dava al Comune di Anco­na, in premio della fedeltà, la giurisdizione sui castelli di Monsanvito e dell'Albarello, tolti al Comune di Jesi.
Nuovi disordini e nuove lotte si ebbero ancora dopo la morte di Gregorio XI. A questi era succeduto Urbano VI, il quale, seppure eletto dai cardinali francesi e italiani, non era stato poi riconosciuto dai primi, che avevano eletto un altro pontefice, Clemente VII. Per conto deir« antipapa », nel 1382 entravano in Italia le truppe collegate di Luigi d'Angiò e di Amedeo VI di Savoia, detto il Conteverde.
Le milizie di Luigi d'Angiò fecero il loro ingresso anche nella Marca, ma non trovarono l'accoglienza sperata. Al loro passaggio, città e fortezze restavano ermeticamente chiuse e pertanto le truppe angioine, per sfamarsi, si diedero a sac­cheggiare le campagne. Accampatesi presso Fiumesino, si im­possessarono con uno stratagemma della munitissima rocca di S. Cataldo, in Ancona; vi lasciarono una guarnigione per presi­diarla e proseguirono verso il Sud. Gli Anconetani, decisissimi a riconquistare la loro rocca, chiesero aiuto a Galeotto Matatesta e a Rodolfo Varano: scelsero come capitano Giacomo di Cecco degli Ottoni da Norcia; ottennero contingenti di uo­mini da Fermo (200 fanti circa), da Cingoli (150 fanti), da Jesi (75 cavalieri), da Montalboddo (2 uomini a cavallo e 25 a piedi), da Osimo (50 fanti), da Roccacontrada (27 fanti). Aiuti di fanti e cavalieri vennero anche da Off agno e Sasso ferrato. Galeotto Malatesta inviò il figliolo Mammolino con 150 cava­lieri, 50 fanti e 50 lavoratori, muniti di zappe, vanghe ed altri arnesi da scavo. Intervenne anche Sforza, figlio di Nicola da Boscareto, che era stato prigioniero in quella rocca, con buon nerbo di truppe.
Dopo un assedio, aspramente combattuto e protrattosi per ben tré mesi, finalmente la rocca di S. Cataldo venne ricon­quistata. Ma molti valorosi cittadini e soldati delle truppe alleate erano caduti sotto la pioggia di pietre e di altri micidiali arnesi lanciati loro contro dagli assediati.
GUELFI E GHIBELLINI
L'ultimo scorcio del XIV secolo registrò ancora qualche scaramuccia tra guelfi e ghibellini, i quali, nonostante le delu­sioni patite ed il sangue versato, non sembravano del tutto rassegnati a rinunciare alle velleità di riscossa, gli uni e gli altri vagheggiando ancora di poter affermare definitivamente il trionfo dell'idea propugnata. E poiché i guelfi stavano facendo­si in quattro per mettere in piedi un grosso esercito da inviare contro i ghibellini, questi ultimi, per far fronte alla minaccia, nel 1390 si confederarono coi maggiori potentati d'Italia e con le città ed i castelli vicini che seguivano la parte ghibellina.
Ma non ci fu guerra, questa volta, stando almeno alle notizie che abbiamo su quegli anni. Il mancato conflitto fu dovuto molto probabilmente all'equilibrio di forze che si era determinato fra le opposte fazioni. Sappiamo per certo, in ogni caso, che Jesi, tornata nel 1393 all'obbedienza della Chiesa
insieme alle città di Camerino e Fabriano, il 24 giugno dell'an­no successivo era presente con i suoi delegati al tavolo della pace di Castelfidardo. Non sempre è facile, per taluni periodi della nostra storia, movimentata ed imprevedibile, trovare un senso logico in certi episodi o in determinate alleanze. Nella pace che i Nostri sottoscrissero in suolo fidardense troviamo al­lineati da una parte Jesi, Ancona, Cingoli, Camerino e qualche altro; dall'altra i Malatesta, Signori di Rimini, ed i loro allea­ti di Osimo, Castelfidardo, Fermo, Staffolo, Filottrano, Offagna, Montelupone, Montefano ed altri ancora.
LA CACCIATA DEI SIMONETTI 
Nel frattempo a Jesi si stava affermando un nuovo mem­bro della famiglia dei Simonetti. A detta del Grizio, il Simonet­ti di turno aveva nome Filippo, ma il Gianandrea, censore del nostro primo storico, obietta che quel nome è inventato di sana pianta perché a quel tempo non esisteva nessun Simonetti che si chiamasse Filippo. Qualunque fosse il suo nome di battesimo, aveva dato a vedere di essere un maestro di diplo­mazia, della quale si serviva con la segreta ambizione di diven­tare )a massima ed unica autorità cittadina. Ed in effetti il suo spiccato sovoir faire non tardò a portarlo in primo piano.
Con doni e vezsi, riuscì ad accattivarsi rapidamente la simpatia della popolazione, tanto che gli Jesini, come egli aveva previsto, lo vollero al governo della città. Il Simonetti, grazie al loro interessamento, riuscì ad ottenere da papa Boni-facio IX non solo il titolo di vicario di Jesi, ma anche diversi privilegi.
Una volta raggiunto lo scopo, però, il savoir faire del Si­monetti andò a farsi benedire. Il nostro uomo, ritenendosi ormai inamovibile ed inattaccabile, mutò recisamente politica nei confronti dei suoi concittadini e dai doni e dai veszi passò al dispotismo e alle vessazioni. Gli Jesini, superato il primo disorientamento, modificarono a loro volta atteggiamento ver­so il nuovo Signore della città. E, rasisi conto che costui aspi­rava ambiziosamente all'odioso nome di tiranno, pigliarono Farmi e lo scacciarono da questa città insieme con tutti quelli della sua famiglia.
La rivolta contro i Simonetti scoppiò nel febbraio del 1408. I Simonetti, che avevano trovato rifugio non molto lon­tano da Jesi, non si diedero per vinti e cercarono con ogni mezzo di rientrare in città. Per farla finita, allora, la popola­zione ricorse ad una soluzione più ampia e drastica: scacciò da Jesi tutti coloro che erano imparentati ai Simonetti. Soltanto ad uno, della famiglia, fu consentito di rimanere m città, ma a prezzo di dure condizioni; fra queste, quella di cambiare il proprio cognome. E difatti il Simonetti superstite da quel giorno prese la denominazione del castellare detto la Casta­gna, di quel castello cioè che, in via del tutto eccezionale, gli era stato lasciato (ma forse non gli era stato tolto perché già devastato dalle truppe di quel Braccio da Montone di cui parleremo fra poco).
A convalida dell'azione degli Jesini, seppure condotta alla maniera forte, Gregorio XII il 4 maggio del 1408 revocava al Si­monetti il titolo di vicario di Jesi concessogli in precedenza da Bonifacio IX; al tempo stesso condonava agli Jesini che aveva­no partecipato alla rivolta tutte le condanne e le pene nelle quali erano incorsi; infine autorizzava gli stessi Jesini a rientrare in possesso di quei beni — molini, terre, case e poderi — che il Simonetti aveva fatti suoi illecitamente. Tutti gli altri beni di proprietà della famiglia Simonetti vennero confiscati e trasfe­riti alla Camera Apostolica (la quale li riterrà fino al 1452, an­no in cui Nicolo V, per far fronte agli impegni della stessa Camera, li venderà alla città di Jesi, insieme a quelli del Boscareto, pel prezzo di 2.300 fiorini).
BRACCIO DA MONTONE
Ma evidentemente non v'era tregua per gli Jesini. I Simo­netti erano appena stati cacciati dalla nostra città che, a distan­za di pochi mesi, nello stesso anno, vi giungeva il più terribile e audace condottiero del tempo, Braccio Fortebraccio detto Braccio da Montone, condottiero e Signore di Perugia. Braccio era giunto nella Marca d'Ancona dall'Umbria in soccorso dei castellani di Roccacontrada (Arcevia) per liberarli dal lungo assedio postovi dalle truppe del rettore della Marca, al quale si erano ribellati. Ma Fortebraccio, non appena liberata Roccacontrada, anziché tornare nella sua Perugia, sullo slancio di quella vittoria era dilagato verso l'Adriatico, conquistando e sottomettendo nuove terre, fermamente deciso a crearsi anche nella Marca d'Ancona una propria Signoria.
Contro di lui inviò un esercito di seimila uomini, comanda­ti dal conte di Troia, il re Ladislao di Napoli. Fortebraccio si preparò a resistergli e, a questo scopo, non trovò trincea migliore delle mura della nostra città. Gli assalti dei Napoletani risultarono vani e, dopo un assedio di breve durata, le truppe di Ladislao — non si sa se perché messe in fuga da una sortita degli uomini di Braccio o se perché rinunciatarie — abbando­narono il campo, lasciando a Fortebraccio piena libertà da­zione nella nostra zona.
Braccio da Montone, che ormai si era stabilmente acquar­tierato nella nostra città, ora muoveva sempra da qui per le sue nuove battaglie. Nel 1409, con le forse di Jesi, fu all'assedio di Apiro in aiuto di Giovanni Cima da Cingoli contro Onofrio Smeducci da S. S everino. In seguito egli lasciò la nostra città, vendendola o cedendola in pegno a Carlo Malatesta, ripromet­tendosi però di tornarvi presto. Ed infatti qualche anno più tardi e precisamente nel 1420 era di nuovo a Jesi, con tutta la sua autorità e questa volta anche con il consenso di papa Martino V: un ritorno definitivo; infatti Braccio da Montone rimase nella nostra città fino alla sua morte, avvenuta nel 1424 (aveva 56 anni).

IL CORPO DI SAN FLORIANO
Nel periodo in cui Jesi era sotto la Signoria di Malatesta dei Malatesta (figlio di quel Carlo Malatesta di cui abbiamo detto poco più sopra), in una ripa del fiume Esino venne ritrovato il corpo di S. Floriano. Era l'anno 1411. Il ritrovamento fece molto «notizia» e suscitò grande commozione nella popo­lazione. Scrive il Grizio: «Fu con gran pompa e solennità (il corpo) portato dentro la città e posto in una sontuosa arca di marmo nella chiesa detta allora di S. Giorgio (che si chia­merà poi di S. Floriano, appunto in onore del Santo). Dicesi che nella solennità che fu fatta per portare quel corpo alla chiesa vi concorse una grandissima quantità di gente; e che nel sanare degli infermi e degli stroppi (sic!) si videro palese­mente molti miracoli». Il corpo, aggiunge il Grizio, pur essen­do rimasto sottacqua per più di mille e cento anni, non aveva patito diminuzione alcuna.
A ricordo di quella solenne traslazione, un artista dell'e­poca dipinse sul frontespizio dell'arca la scena della traslazione stessa; più tardi, nella chiesa di S. Floriano, venne posta, a memoria del ritrovamento del corpo, una lapide.
GIACOMO DELLA MARCA
Intanto Jesini e Anconetani non dimenticavano di infasti­dirsi con scorrerie di bande armate dell'una e dell'altra parte. Nel 1419 Agamennone degli Arcipreti di Jesi e Nicolò Piccinino facevano incursione nel territorio di Bompiano, devastando e depredando.
Si trattava di scorrerie che non dicevano molto o che, comunque, in quel periodo dovevano passare in secondo ordine per il rincrudire della lotta, su tutt'altro fronte, che si protraeva ormai da più di cento anni: la lotta contro la setta dei cosiddetti « fraticelli ». Pu, quello, uno dei conflitti religiosi più tristi, iniziato, come abbiamo avuto occasione di accennare, negli anni a cavallo fra il XII e il XIII secolo. Già da quel tempo, infatti, anche la quiete dei Castelli jesini era stata turbata dall'opera sovvertitrice dei «bizzocchi», una delle più eretiche sette dei «fraticelli»; i quali, fanatici e pro­fittatori, si erano ribellati all'autorità della Chiesa, dandosi una propria regola ed una propria gerarchia (vengono ricordati un «imperatore» Guglielmo con sede a Maiolati ed un «papa» Rolando finito poi sul rogo).
Per combattere le aberrazioni dei «bizzocchi», nell'estate del 1426 giunsero nel territorio di Massaccio (Cupramontana), vale a dire di uno dei centri più infestati dagli eretici, due paladini della Chiesa: fra Giacomo da Monteprandone, detto della Marca, e Giovanni da Capistrano. La loro efficace predi­cazione sconfisse gli eretici, demolendo una ad una le loro false teorie e riportando i seguaci dei «bizzocchi» alla giusta dottrina.
A nulla servirono le macchinazioni dei «bizzocchi» per liberarsi di così forti avversari e soprattutto di Giacomo della Marca. Si racconta che cercarono anche di uccidere quest'ul­timo servendogli del veleno mentre celebrava la messa. Ma Giacomo (divenuto poi santo) sfuggì all'insidia, perché, men­tre si accingeva a bere, scorse, disegnata miracolosamente, sul fondo del calice, la testa di un serpente; il che lo mise in guardia dal pericolo che lo minacciava. L'episodio, si assicura, è autentico.
Nella repressione dei «fraticelli», ai meriti specifici di Giacomo della Marca, Girolamo Baldassini unisce quelli del card. Astorgio Agnese, vescovo di Ancona e commissario della Marca, non trascurando il fatto che se il primo combattè con la preghiera, il secondo combatté gli empi errori con le armi temporali. Il castello di Maiolati, due anni dopo l'arrivo di Giacomo e Giovanni, venne demolito a terrore ed esempio perpetuo e molti «fraticelli» furono morti o discacciati. Solo più tardi venne consentito agli abitanti di Maiolati di tornare sul loro colle e ricostruire le loro case.
Giacomo della Marca, per quel che ci riguarda più dap­presso, ebbe una parte notevole nella decisione che le autorità jesine dell'epoca presero circa la compilazione dei nuovi sta­tuti. Sarebbe stato, infatti, il famoso monaco a sollecitare la rielaborazione e l'aggiornamento dei vecchi statuti, di cui dire­mo in seguito.

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