giovedì 24 luglio 2014

IN GUERRA CONTRO ANCONA


IN GUERRA CONTRO ANCONA

Alla peste subentrò nella nostra città, inevitabilmente, una grandissima carestia. Per venire incontro alle precarie condizioni degli Jesini, Pio II, l'11 settembre del 1458, confer­mava loro tutti i privilegi avuti dai precedenti pontefici; successi­vamente, il 29 agosto del 1460, vendeva loro tutti i beni che erano appartenuti alla Camera apostolica nella Curia del castello di Morro.
Pio II, succeduto a Callisto III nel 1458, era il celebre Enea Piccolomini, una delle figure più insigni di umanista e di mecenate del XV secolo. Egli ebbe non poche preoccupazioni a causa degli Anconetani e fu costretto ad interessarsi più volte delle dispute fra Jesini e Dorici. I quali erano appena usciti dalla più terribile delle epidemie che già avevano ripreso la guerriglia.
Gli Jesini, nonostante gli accordi conclusi qualche anno prima, avevano occupato presso il Castello di Camerata alcune terre che il Comune di Ancona aveva donato ad Astorgio Scotivoli, valoroso uomo d'armi al servizio dì Francesco Sforza, ed interdissero agli uomini di Ancona di far le semine, intra­prendendo una grossa scorreria per il contado. Gli Anconeta­ni, che anelavano dal desiderio di vendicarsi della rotta subita ad opera dei Nostri nel 1309, si rivolsero allora a Sigismondo Malatesta il giovane, per combattere gli Jesini. Sigismondo in un primo momento inviò il figlio Roberto, che prese a scorraz­zare per il territorio di Jesi.
I Nostri, informati che il Malatesta si era schierato dalla parte degli Anconetani, ne ebbero gran dolore, in quanto, essen­do ancora la città, per la peste passata, vuota d'uomini, temevano un insuccesso. Il magistrato pose alla guardia di ciascuna porta della città cinquanta balestrieri e studiò il da farsi per tenere testa al nemico anche nel territorio del Contado. Allo scopo, spedì Fiorano Santoni, con duecento villani fatti nelle ville nostre, alla guardia di S. Marcello e Belvedere. Ro­berto Malatesta, che a sua volta era venuto a conoscenza del piano difensivo dei Nostri, puntò verso Musciano (Monsano) e Barbara, deciso a conquistare questi due castelli.
Monsano dipendeva direttamente da Jesi. Barbara aveva fatto parte dei possedimenti del nostro Comune fin dal 1257, ma in seguito aveva riscattato la propria indipendenza ed ora era semplicemente un alleato di Jesi. I Monsanesi, non appena videro comparire l'avanguardia del nemico, si arresero. Gli uomini di Barbara, invece, opposero una tenace resistenza. E poiché gli assedianti disponevano di due pezzi di artiglieria con i quali avevano preso a far fuoco per aprire una breccia nelle mura del castello, costruirono a tempo di record, all'interno delle stesse mura, munite trincee dietro le quali i difensori avrebbero potuto trovare riparo per continuare la resistenza, una volta cadute le mura.
Visti gli sviluppi della situazione, a Jesi si iniziò il reclu­tamento di uomini per inviare aiuti ai Barbaresi e per ricon­quistare Monsano, procurato nel frattanto di raffrenare l’armi dei nemici, i quali, essendosi insuperbiti per aver avuto senza sangue il detto castello, ogni giorno facevano scorrerie per il ter­ritorio nostro e andavano giungendo a volte fin quasi presso le mura della città. Inoltre, con promesse e con doni, cercavano di corrompere gli altri castelli del Contado jesino. Pare anzi che San Marcello fosse sul punto di vendersi al nemico, ma i Nostri intervennero con estrema decisione e minacciarono pesanti rap­presaglie contro gli abitanti di quel castello; i quali, per farsi perdonare il tentato tradimento, dovettero accettare le condi­zioni poste dai Nostri e cioè il pagamento di 450 fiorini d'oro e l'obbligo di venire ad abitare a Jesi.
Intanto si era verificato un fatto nuovo che, nella guerra contro gli Anconetani, doveva avere ripercussioni favorevoli per noi: Sigismondo Malatesta, contro la volontà del papa, invece di portare aiuto ad Ancona (che lo aveva pagato per questo), occupò Pesaro, Fano e Senigallia (che appartenevano alla Chiesa), suscitando le ire di Pio II anche contro Ancona. Cosicché il pontefice inviò in soccorso degli Jesini il bolognese Virgilio Malvezzi al comando di duecento fanti e ottocento cavalieri. A questi si aggiunsero gli uomini che erano stati reclutati nel nostro territorio. Per Jesi era il momento di iniziare la controffensiva.
I Nostri posero ai passi quattrocento uomini e spedirono il Malvezzi, alla testa di duemila fanti, verso Monsano per riconquistarlo. L'occupazione di quest'ultimo, tuttavia, avven­ne senza colpo ferire; Guidone da Urbino, Battista Ambroselli da Verona e Giovanni da Cesena, che presidiavano quel castello per conto del Malatesta, consegnarono le chiavi del paese al Magistrato jesino, il quale, recatosi a Monsano, aprì personalmente le porte del castello, le serrò in segno di legitti­mo possesso e fece porre alla sommità della torre la bandiera del Comune di Jesi, nella quale vedevasi in campo rosso, di seta, effigiato un leone bianco con corona d'oro in testa. Suo­narono subito per allegrezza tutte le campane del luogo e tutto il popolo gridò ad alta voce: «Viva nostro Signore, la Santa Chiesa romana e la Comunità di Jesi!». Il magistrato conse­gnò poi le chiavi a Tommaso di Fiorano, sindaco del Comune, il quale con una comitiva di giovani nobili andò nel castello e al Comune di quello consegnò le dette chiavi, acciocché le custodisse.
Il magistrato ordinò infine che fossero demolite le mura del castello, a spese degli stessi abitanti di Monsano, e che nessuno potesse uscire dalla terra fino a che tale ordine non fosse stato eseguito. Al che i Monsanesi, per evitare che venis­se messo in atto il provvedimento, inviarono ambasciatori al magistrato di Jesi per chiedere perdono del loro tradimento (si erano arresi al Malatesta, come si è visto, senza combatte­re). Il magistrato, con licenza del Consiglio generale, li per­donò a condizione che pagassero quattrocento fiorini d'oro e che i principali del castello venissero ad abitare a Jesi.
I «CAPPELLETTI»
Nel periodo in cui gli sforzi dell'esercito jesino erano con­centrati nella riconquista di Monsano, gli alleati di Barbara avevano continuato la loro coraggiosa resistenza, ma ormai erano allo stremo. Ripetute volte avevano mandato a chiedere rinforzi e vettovaglie agli Jesini, ma i Nostri, impegnati sull'altro fronte, non erano stati in grado di portare un valido determinante aiuto agli assediati. Questi ultimi, allora, per obbligare gli Jesini ad intervenire a loro favore in maniera concreta, sottomisero la terra, le famiglie ed i figliuoli loro sotto la giurisdizione di questa città di Jesi e domandarono come sudditi di nuovo il già domandato aiuto; in altre parole, i Barbaresi da alleati divennero sudditi di Jesi, certi che i Nostri, desiderosi di difendere le cose loro, avrebbero fatto tutto il possibile per liberare gli assediati.
I Barbaresi avevano visto giusto. Infatti gli Jesini armaro­no sollecitamente duecento «cappelletti» con l'incarico di portarsi al più presto a Barbara. I «cappelletti» — così chiamati per via di certi cappelli aguzzi con cui erano soliti ricoprirsi — erano giunti in Italia dall'Albania poco dopo la peste per sfuggire al dominio dei Turchi e, nella nostra zona, si erano stabiliti in campagna, per lo più nelle parti del fiume (pare che vivessero quasi come banditi). Oltre ai «cappel­letti», gli Jesini comandarono che tutti gli artefici atti a por­tar armi dovessero andare in soccorso della Barbara e che ciascuno portasse vettovaglia per vivere per due giorni.
Ma proprio in quei giorni il Malatesta decideva di togliere l'assedio a Barbara. I Nostri, informati dell'itinerario che avreb­bero percorso i malatestiani, pensarono di tendere loro un'imboscata, che però fallì per il tradimento di una spia degli Anconetani.
Sigismondo Malatesta il 2 luglio del 1461 affrontava in cam­po aperto, nei pressi di Castelleone di Suasa, le truppe pontificie comandate dal Malvezzi e da Pier Paolo de' Nardini, infliggen­do loro una pesante sconfitta, tanto che gli Jesini, sorpresi per i successi ottenuti dal Malatesta, il 12 luglio di quell'anno mandarono quelle genti già assoldate dal Malvezzi e rimaste sempre in città, a guardia dei castelli di Morro, Belevedere e San Marcello. Tuttavia, nonostante le misure di emergenza adottate dai Nostri, sul versante destro dell'Esino l'esercito del Malatesta predò e ruinò una parte del territorio nostro e spianò alcune sontuose abitazioni fatte nelle colline vicine dai nostri gentiluomini; sul versante sinistro, invece, i Nostri sostennero alcuni scontri con gli Anconetani: la sorte ci fu sì favorevole che, non solo i Nostri restarono superiori nella battaglia ma anche signori del loro stendardo. Onde si vedeva­no nelle logge del nostro palazzo, con gran festa del popolo, le loro insegne in guisa di un trofeo, rovescie; e vi si scorgeva­no insieme i padiglioni che l'anno 1309 erano stati tolti pure a loro.

Ai primi del 1461 era giunto nella Marca il cardinale Alessandro Oliva con l'incarico, avuto da Pio II, di mettere fine alle lotte fra Jesini e Anconetani. Il cardinale Oliva, nativo di Sassoferrato, dopo essere stato generale dell'ordine agostiniano cui apparteneva, aveva ricevuto la porpora cardinalizia l'anno prima, anche in riconoscimento dell'opera di pacificazione da lui svolta in Toscana e nell'Umbria.
Già prima di affidare al cardinale Oliva la missione di mediatore, il pontefice aveva rivolto inutilmente tutte le sue cure alle annose questioni fra le due città della Marca nel tentativo di ristabilire la pace e l'armonia; a questo scopo ave­va indirizzato due lettere agli Anconetani ed agli Jesini, rim­proverando ai primi di essersi rivolti per aiuti al Malatesta ed ai secondi di aver osato compiere scorribande nelle terre degli Anconetani.
Ora, mentre le due città si davano battaglia, il cardinale Oliva svolgeva con successo la sua opera di pace in Ancona, successo favorito anche dal contegno del Malatesta che, indisponendo gli Anconetani, iì rese più arrendevoli e propensi ad accordi. Verso la fine di febbraio, in un incontro in Osimo tra ambasciatori anconetani e jesini, la pace sembrò raggiunta.
Ma non fu che una pace apparente. R. Elia ne addossa la colpa agli Jesini, «rei» di essersi appellati al papa contro la sentenza dello stesso Oliva. Per questa ragione Pio II, con Breve dell'11 aprile, ordinava agli Jesini di astenersi dal dan­neggiare gli Anconetani e dal fare innovazioni nei territori di Monsano e di Chiaravalle. Altra intimazione simile faceva il 19 maggio.
LA RESA DEL MALATESTA
Si andò avanti così per altri mesi, finché il papa, deciso a farla finita con i disordini nelle Marche, stabilì che il primo passo da fare in questo senso era quello di liquidare per sempre Sigismondo Malatesta. Gli inviò contro Federico di Urbino, il quale, il 12 agosto del 1462, gli infliggeva una dura sconfitta, tanto da costringerlo a riparare in Puglia (rientrerà a Rimini l’anno seguente, dopo essersi riconciliato con la Chiesa). Pio II concentrò poi i suoi sforzi per porre fine alla rivalità fra Jesini e Anconetani, tutt'altro che riappacificati nonostante gli sforzi del cardinale Oliva. Infatti, il 17 luglio 1463 gli Anco­netani avevano occupato il castello di Montemarciano, che era stato invece assegnato dal papa agli Jesini con bolla del 30 aprile 1461 a titolo di compenso per i danni che i Nostri avevano subito dagli Anconetani.
«II legato del papa, cardinale di Trani (Nicolò Forteguerri) — scrive il Natalucci — chiese agli Anconetani la restituzione di Montemarciano e di altri castelli che tenevano ancora occupati. E poiché la comunità oppose un rifuto, il papa, indi­gnato, scagliò l'interdetto contro la città e fu dato ordine a Federico di Urbino di marciare contro Ancona. Sotto la minac­cia di un'azione militare, la comunità inviò il suo ambasciatore al legato per la restituzione di Montemarciano e per rimettersi, in quanto agli altri castelli, al beneplacito di Pio II. Il papa, in un Breve del 1463, considerando le stragi, le rapine e le altre calamità avvenute nel territorio ecclesiastico a causa della guerra, invitava i cittadini alla pace, che fu conclusa il 12 otto­bre del 1463 con la restituzione da parte di Ancona delle terre occupate. Di Montemarciano Pio II fece un feudo per il nipote Giacomo Piccolomini e per i suoi discendenti».

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