giovedì 24 luglio 2014

GLI STATUTI


GLI STATUTI 

Terminata l'avventura marchigiana di Francesco Sforza, la nostra città si ritrovò di nuovo in preda alle lotte intestine. Alle antiche rivalità tra guelfi e ghibellini, si aggiunsero quelle tra «sforzeschi» e «bracceschi», sostenitori i primi dello Sforza ed i secondi di Nicolò Fortebraccio. Per porre termine a queste lotte, il consiglio generale della città, nei mesi di agosto e settembre del 1447, votò una serie di delibere, con le quali si faceva obbligo a tutti gli abitanti di giurare ogni anno piena devozione alla Chiesa; inoltre ogni cittadino era tenuto a far precetto nel suo testamento che i figlioli e gli eredi, pena la maledizione, persistessero sempre nella vera obbedienza e fedeltà della Chiesa stessa. Ed era severamente proibito dichia­rarsi partigiano di questa o di quella fazione; si poteva incor­rere in gravi punizioni soltanto a nominare guelfi, ghibellini, sforzeschi, ecc.
Il 26 febbraio dell'anno successivo il consiglio generale decise di compilare e definire i nuovi statuti della città e del contado. L'incarico, come si è accennato in precedenza, venne affidato a due jesini e a due contadisti: Angelo Colocci e Antonio di Angelo, in rappresentanza della nostra città, Stefano Onofri da Cupramontana e Domenico di Bartolomeo da Castelplanio per il Contado. Alla stesura collaborò anche un frate, Domenico da Leonessa, che si trovava a Jesi per un ciclo di predicazioni. Quegli statuti, considerati rispetto ai tempi, sono un perfetto codice religioso, civile, criminale e politico. In essi si viene alle più minute particolarità delle cose, non trascurandosi neppure la pesca, la coltivazione degli olivi, degli orti e stabilendo anche la misura dei mattoni e dei coppi, la forma dei quali si vede ancora scolpita nel muro del nostro Palazzo (della Signoria).
«L'opera degli Statuti jesini — scrive il Colini — si divide in sei libri. Il primo libro tratta completamente dell'elezione di tutti i magistrati ed ufficiali minori. Ivi sono stabilite le feste da celebrarsi annualmente nel Comune e la maniera di convocare e dirigere i Consigli generali e quelli così detti di Credenza. Chi mancava a quelle riunioni doveva subire la pena di una multa. I diligenti e gli assidui ricevevano un premio.»
«II secondo libro contiene 107 rubriche con le quali viene regolata l'amministrazione della giustizia, tanto per le cau­se civili quanto per le criminali. In questa parte sono anche designate la attribuzioni del podestà e del vicario nelle cause civili, dei contratti di compra-vendita, di prestito, di restituzione e della maniera di costituire ipoteche. Vi si parla delle doti alle donne che vanno a marito, della successione dei figli ai genitori, della moglie al marito, del modo di fare gli inventari nelle successioni, dei contratti fatti dalle donne e dei debiti che esse potevano aver fatti prima del matrimonio...»
«II terzo libro, colle sue rubriche, provvede alla sicurezza interna della città. Descrive i delitti contro la proprietà pubblica e privata che dovevano essere puniti. Non mancano le pene per coloro i quali usano cattivi trattamenti alle bestie e rompono i nidi degli uccelli. Prevenendo il caso della esistenza dei banditi nel territorio del Comune, sono stabilite le taglie da elargirsi a chi li arresta o li uccide. I genitori possono impunemente percuotere i propri figli…»
Erano severamente puniti coloro che prendevano falso nome, che cospiravano a danno del Comune e che osavano esporre il vessillo comunale in tempo di sommossa. Nessuno poteva abbandonare la città in tempo di guerra. Il venerdì santo era il giorno stabilito in cui i carcerati venivano lasciati in libertà.
«II libro quarto comprende le leggi sulla pulizia urbana e rurale.»
Era proibito il gioco delle piastrelle nelle piazze e nelle strade. Non si poteva lanciare pietre, palaferri e lance, né gettare pallottole e frecce con arco e balestra. Non si per­metteva neppure il gioco o qualunque altro di dadi (nel medioevo i giochi principali, non solo a Jesi, erano due: quello dei dadi e l'altro delle tavole; il primo era detto gioco «a zara», chiamato poi gioco d'azzardo: si giocava con tre dadi; il giocatore che otteneva il punto gridava «azar!»; nel gioco delle tavole si adoperavano le pedine, che talvolta erano anche dadi, e le scacchiere; il gioco dei dadi, che in molte altre parti d'Italia era permesso a Natale, da noi era sempre proibito).
«II libro quinto tratta delle pene contro coloro che arreca­no danni ai proprietari dei campi coltivati e ai prodotti agricoli.»
Veniva inflitta una doppia pena a chi faceva questi danni di notte. Il giudice doveva essere nato e dimorante in luogo alme­no lontano trenta miglia da quello ove esercitava la sua giurisdizione. Egli comminava pene soltanto pecuniarie. Il pote­re del giudice era di grande importanza: sulle sue proposte deliberava quella riunione di duecento capi di famiglia scelti dal Consiglio tra i migliori e più ricchi della città.
«Nel sesto libro si parla dell'ufficio e giurisdizione del giudice di appello, del modo come questo deve esser fatto ed i casi nei quali non è lecito appellarsi».
Sempre per il quieto vivere, in data 14 gennaio 1453 il Con­siglio generale emanava nuove disposizioni, suggerite queste da un certo frate Giovanni, dell'ordine dei Minori, che era venuto a Jesi per appianare talune divergenze sorte con il contado. Il Gianandrea ne ricorda alcune: «a) che ogni ope­raio e artigiano sia obbligato di osservare tutte le feste comandate dalla Chiesa dalle ore 24 della vigilia, eccetto gli speziali, i flebotomi e i ferratori di cavalli; b) che nessuna donna osi portare vesti con divise e frappe, e che delle vesti non si tra­scini per terra oltre un terzo del braccio: pena dieci ducati da infliggersi anche ai sarti; c) che nessuno osi trasformarsi o mascherarsi: pena undici fiorini; d) che si faccia un bussolo donde estrarre al principio d'ogni reggimento di nuovo podestà due cittadini, che col podestà stesso compongano ogni contro­versia tra città e Contado con pieni poteri ».
ANCORA IL PICCININO
Effettivamente i provvedimenti presi dal governo jesino ottennero lo scopo di tenere a freno, per qualche tempo alme­no, le velleità dei partigiani delle varie correnti politiche dell'epoca. Ma non v'era pace, per la città, sulla quale gravavano nuove nubi. Dopo la partenza di Francesco Sforza, s'era dovuto far fronte ad alcune scorrerie di Albanesi, che minac­ciavano le contrade del Contado; poi, nel 1450, c'era stato l'arrivo di Giovanni Piccinino al comando di un forte esercito, spedito a guardia di Jesi dal pontefice Nicolò V per tema dei Senesi, Fiorentini e Veneziani che guerreggiavano tra di loro. Gli Jesini, ritenendo che si trattasse di un pretesto per assegnare al Piccinino la signoria della nostra città, si erano allarmati ed avevano costretto il magistrato, sotto la minaccia di una sollevazione popolare, a chiedere al papa lo sgombero della città da parte delle truppe del Piccinino.
Per rivolgersi al papa era stato deputato in quella occasio­ne Ser Ugolino Salvoni, procuratore jesino presso la curia romana. Con Breve del 1° luglio del 1450, Nicolò V aveva chiarito che il Piccinino era a Jesi per vigilare non solo sulla nostra città, ma su tutta la provincia. Tuttavia, poiché i Nostri erano rimasti diffidenti, alla fine il papa aveva ordinato che il Piccinino alloggiasse con le sue genti alla campagna.
Poi era scoppiata una nuova lite con gli Anconetani; pomo della discordia, questa volta, il possesso di Chiaravalle. «Sembra — scrive il Gianandrea — che la discordia avesse origine per un mutamento d'alveo avvenuto nel nostro fiume sul principio dei secolo XV; onde un buon tratto di terra spettante alla badia restò fuori, di verso Ancona, del confine naturale tra essa e Jesi». La questione avrebbe potuto essere risolta senza eccessive difficoltà, trattandosi, tutto sommato, di una piccola fascia di terra; ma ormai un profondo astio divideva le due popolazioni ed ogni piccola divergenza assumeva dimensioni macroscopiche fino a trasformarsi in un grosso «affare di stato».
Le due città, quindi, erano di continuo su l’armi; quelli (gli Anconetani) facevano vari ordini e leggi contro i nostri cittadini; i Nostri, incrudelendo anche contro quelli che entravano nel loro territorio senza salvacondotto, contro di loro. Per oltre tre secoli Jesini e Anconetani si guardarono in cagne­sco, dando luogo a contrasti e rappresaglie senza numero: cause di lunga durata, promosse e agitate da entrambe le parti innanzi ai luogotenenti e vicari provinciali e innanzi la Curia romana; ma qualsiasi tentativo di pacificazione o di comporre amichevolmente le molte vertenze fallivano sul nascere o non andavano quasi mai a buon fine; cosicché non di rado le liti sfociavano in terribili assalti e guerre sanguinose. Dal can­to loro, i luogotenenti, i vicari e la stessa Curia romana, nel tentativo di sanare le frequenti dispute, ripiegavano spesso e volentieri su minacce o scomuniche o interdetti che tornavano quasi sempre a nostro danno. «I documenti relativi a tutto questo — osserva il Gianandrea — nel nostro archivio (comu­nale) sono in numero veramente strabocchevole».
Abbiamo rievocato, nel nono capitolo di questa «storia», la dura battaglia che gli Jesini vinsero a Camerata nel 1309. Si è fatto cenno più volte anche alle annose dispute fra Jesini e Anconetani per il possesso di Monte S. Vito e della rocca di Fiumesino (Rocca Priora). Un altro gravissimo soggetto di contesa fu il pas­saggio libero al mare tra la foce dell'Esino e il villaggio delle Case Bruciate, che i Nostri pretendevano e che gli Anconetani impedivano.
 Fra i tanti, un ennesimo elemento di disputa è ricordato dallo stesso Gianandrea: «18 giugno 1451: è riferito in Consiglio di credenza che gli Anconetani hanno fatta una chiusa per deviare le acque del fiume; si delibera che si mandi subito a guastarla»: quasi dei dispettucci fra ragazzi che provano gusto a danneggiarsi.

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