mercoledì 2 marzo 2011

IL PRIMO SINDACO





PADRONI DELLA VALLESINA

Col tempo le abbazie benedettine arrivarono a disporre di possedimenti sempre più vasti. Verso il Mille o poco più, ad esempio, i monaci di Sant'Elena avevano 112 ettari di terra, quelli di Chiaravalle 146, quelli di Sant'Apollinare 160, quelli di San Savino 88, di Santa Maria in Serra 225 e quelli di Moje addirittura 430 ettari. Si può dire che in pratica tutta la Vallesina era proprietà dei monaci. La qual cosa era dovuta ai lasciti di coloro che abbandonavano la vita mondana per il saio o a donazioni di principi. Alcuni monasteri jesini avevano possedimenti anche fuori del territorio della Vallesina: si veda il caso dell'abbazia di Chiaravalle che aveva molti possedimenti anche nei territori di Ancona e Senigallia, o dell'abbazia di San Giovanni in Antignano che aveva alcune proprietà nell'Osimano; o del monastero di Sant'Elena, i cui possedimenti erano anche in quel di Camerino e di Senigallia.
E' evidente che i monaci, per quanto numerosi ed attivi, non avrebbero potuto, da soli, badare ai campi, alle opere edilizie, alle attività artigianali. Pertanto furono costretti ad assumere alle loro dipendenze intere famiglie di agricoltori prelevate dalla popolazione locale; popolazione che, se nelle passate aggressioni barbariche si era estremamente assottigliata, ora andava aumentando ed era in cerca di lavoro per vivere.
Gli individui di ciascuna famiglia divennero servi e vassalli dei monaci e furono stanziati più o meno lontani dai monasteri secondo che richiedeva la maggiore o minore lontananza dei fondi. Da questo fatto sorse un gran numero di «ville»: tra le prime, nel territorio jesino, quelle di San Marcello, Tabano, Moje, Cannuccia, Mazzangrugno, ecc. In un secondo tempo, vuoi perché la popolazione era in continuo aumento e vuoi perché si era reso necessario difendere i possedimenti monacali dagli assalitori interni ed esterni in quelle continue lotte tra i fondatori, e tra la Chiesa e l'Impero, presso queste ville, nei luoghi più elevati ed atti alla difesa, sorsero castelli più o meno grandi e ben muniti di mura, di torri, di ballatoi, di merli e di bertesche.
Gli stessi benedettini, a quanto si ritiene — e l'ipotesi appare molto attendibile, dato che i monaci a quei tempi erano padroni non solo della Vallesina ma anche della stessa città di Jesi — provvidero a rinforzare le mura cittadine, dopo che la popolazione della zona di Terravecchia era tornata ad insediarsi nell'antica città.
La Vallesina dunque era in potere dei benedettini, che esercitavano sulla popolazione la doppia giurisdizione spirituale e civile, quando nella seconda metà dell'XI secolo un nuovo e più violento conflitto vedeva di fronte la Chiesa e l'impero a causa dell'ingerenza di questo nelle cose di quella.
I benedettini avevano condotto un'aperta campagna contro la simonia e con successo, perché la Chiesa dapprima condannò la simonia stessa, poi tolse all'Imperatore il diritto di nominare il Papa ed infine fece assoluto divieto ai laici, imperatore compreso, di distribuire cariche ecclesiastiche. Un imperatore, Enrico IV, si ribellò a tale riordinamento e si ebbe da Gregorio VII la scomunica (1076). Scoppiò allora in tutta l'Italia la «lotta delle investiture», che doveva protrarsi per quasi cinquant'anni. Ci fu, per la verità, un momento in cui si credette in una rapida soluzione del conflitto e fu allorquando Enrico IV, per riconciliarsi col Papa, venne in Italia e si umiliò nel castello di Canossa davanti a Gregorio VII; ma fu solo una breve parentesi, perché l'imperatore riprese a combattere contro il pontefice, il quale poté sfuggire l'assedio in Roma solo per l'intervento dei Normanni.

ARRIVANO I NORMANNI
I Normanni, uomini del Nord (erano originari della Scandinavia), avevano raggiunto l'Italia meridionale provenendo dalla Francia (Normandia), dove erano diventati cristiani e civili. Una parte di essi, guidata da Roberto il Guiscardo, aveva cacciato i Bizantini; un'altra parte, agli ordini di Buggero, fratello di Roberto, aveva tolto la Sicilia agli Arabi. Quando Enrico IV strinse d'assedio Gregorio VII, i Normanni, che stavano risalendo la penisola, erano giunti fin verso la Vallesina, ma avevano dovuto però abbandonarla — così almeno ritengono alcuni — per correre in aiuto del Papa.
Nel 1122 finalmente, con il concordato di Worms stipulato fra papa Callisto II e l'Imperatore Enrico V, anche la guerra delle investiture ebbe termine. Otto anni dopo nell'Italia meridionale nasceva il regno di Sicilia e di Puglia per opera di Ruggero II, il quale aveva riunito tutti i domini dei Normanni nelle sue mani e se ne era proclamato re.
LIBERO COMUNE
Nel frattempo, nonostante le lotte, Goffredo di Buglione aveva guidato la prima crociata (1096-1099) per liberare la Palestina e Gerusalemme dai Turchi; ed a quella erano seguite altre crociate, le quali, pur non arrecando in definitiva alcun risultato politico, avevano comunque portato all'Europa e in special modo all'Italia grossi vantaggi economici, avendo aperto i mercati del levante. Nel contempo la lunga lotta delle investiture aveva indebolito la forza e l'autorità sia del Papa che dell'imperatore. Tutto ciò favorì il verificarsi di nuovi ordinamenti: i Comuni. Nelle città, infatti, con la riattivazione delle industrie e dei commerci, si era venuta formando una classe di uomini nuovi: la borghesia. Erano artigiani e mercanti, desiderosi di libertà, lavoro e guadagni; questi uomini diedero forza e potenza alle città di fronte ai feudatari della campagna e, insieme ai nobili, si erano accordati per governare le città stesse: nacquero così i Comuni.
Nella prima metà del XII secolo anche a Jesi si formò il libero Comune. Ma a Jesi, come abbiamo visto, tutto e tutti erano praticamente in mano ai benedettini e quindi non poteva essersi formata quella borghesia che in tante città del Nord e del Centro Italia s'era ribellata al feudalesimo, abbattendolo. Qui, pertanto, si arrivò al Comune per altra strada: l'affrancamento della popolazione dall'autorità civile dei monaci.
Secondo l'Annibaldi, nello Jesino il primo e più grande passo verso la libertà e l'affrancamento fu la cessione «in enfiteusi» dei fondi rustici e urbani a chi li lavorava e vi abitava, cioè a dire una specie di cessione in affitto dietro versamento di un canone annuo (da qui l'origine della «decima» che ancora era in uso nelle nostre campagne fino a qualche decennio fa, anche se il «pagamento» della quota, in tempi recenti, era volontario e limitato a piccole offerte). Altro passo attraverso il quale si arrivò da noi al libero Comune fu la costituzione delle associazioni, dette anche aggregazioni o fraternite, delle arti e dei mestieri. Queste associazioni in Jesi allora dovevano essere numerose, specialmente dei maestri e degli artigiani più necessari ai bisogni di tutti, come i muratori, i fabbri ferrai, i fabbri legnai, i mugnai, i calzolai ed i sartori.
Ma né l'enfiteusi né le associazioni delle arti sarebbero state valevoli da sole a rendere affrancati totalmente gli Jesini e in maniera da costituirsi in reggimento comunale. Ci deve essere stato un avvenimento o un episodio grande e comune a tutti.
«Io penso — scrive l'Annibaldi — che gli Jesini abbiano avuto a combattere contro esterni nemici in difesa di se stessi, del vescovo e dei monaci, e che in tale difesa spiegassero tanto senno e valore che per una parte essi furon fatti consci a se stessi di quanto potevano, e per l'altra il vescovo ed i monaci furon fatti accorti che i loro vassalli erano maturi per la libertà e degni dell'affrancamento, come in premio e gratitudine dei rilevanti servigi che avevano prestato ai loro padroni e dominatori».
Il motto che campeggiava sullo stemma dell'antico Comune di Jesi diceva: «Respublica Aesina Libertas Ecclesiastica» che, nell'interpretazione dell'Annibaldi, non starebbe a significare il grido di gioia degli Jesini nel ritrovarsi finalmente liberi dalla signoria degli ecclesiastici, ma confermerebbe che «l'affrancazione effettuata dai monaci e dal vescovo fu spontanea e non punto violenta» e che gli Jesini volessero anzi fissare in quel motto la loro espressione di gratitudine perenne «verso gli ecclesiastici che li affrancarono».
I Comuni di allora, così come erano costituiti e retti, non assomigliavano affatto ai Comuni moderni, che hanno (o dovrebbero avere) piena autonomia amministrativa. I Comuni medioevali puntavano invece ad una completa autonomia politica; volevano essere, cioè, tante piccole repubbliche. Li governavano capi detti «consoli», i quali comandavano l'esercito ed amministravano la giustizia. Poi c'era il parlamento, che era l'assemblea di tutti i cittadini, i quali, in quella sede, facevano le leggi e nominavano i magistrati, i consoli in carica potevano essere anche più di uno, ma in ogni caso mantenevano l'incarico soltanto un anno e dovevano rendere conto del loro operato.
IL PRIMO SINDACO
Per quanto riguardava Jesi, i rappresentanti del nostro Comune dapprincipio erano tutti artigiani aggregati a diverse scuole o confraternite. Il Comune jesino ebbe inizio con gli artigiani perché le arti furono uno dei primi fattori dell'affrancamento. Ivi non si mostrava punto la nobiltà, la ricchezza. Gli Jesini non avevano ne l'una ne l'altra, perché già servi e vassalli dei monaci e del vescovo. La loro ricchezza era il possesso e l'esercizio dell'arte, la loro nobiltà era il valore della medesima.
Il primo consiglio comunale di Jesi si chiamò «adunanza degli uomini delle arti della città di Jesi»; si teneva o nella chiesa cattedrale o nel palazzo vescovile (il che da, ragione alla tesi dell'Annibaldi a proposito dell'affrancamento) ed i «consiglieri» erano convocati al suono delle campane (l'uso è rimasto fino ad oggi, anche se ora è il campanone del palazzo della Signoria a «convocare» il consiglio). Il primo sindaco di Jesi di cui si conosca il nome — più precisamente era detto «sindaco generale delle arti» — fu Buonacosa Diotaiuti: un plauso ed un augurio insieme, come si vede.


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