martedì 5 novembre 2013

JESI, "BETLEM" DI FEDERICO II

LA NOSTRA "BETLEM"
Nel 1234, ad accendere la miccia fu uno dei giovani figli di Federico II, Enrico, che si trovava in Germania. Enrico, alleatosi con alcuni Comuni dell’Alta Italia, si ribellò. Il padre lo raggiunse in breve tempo, lo affrontò, lo vinse e lo mandò prigioniero in Puglia. Quindi sconfisse anche alcuni Comuni dei ribelli, Vicenza, Padova e Bergamo. Ma altri Comuni, come Milano, non cedettero, anche grazie all’intervento del Papa, preoccupato dei successi dell’imperatore svevo. Il pontefice, accusando Federico II di essere venuto meno agli accordi di San Germano, il 20 Marzo 1239, lo scomunicò per la seconda volta, adducendo ben sedici motivazioni.
Questa volta Federico II rispose alla scomunica con le armi. E, tanto per cominciare, essendo egli impegnato nel nord Italia, incaricò il figlio Enzo, nominato in precedenza re di Sardegna, di impadronirsi della Marca di Ancona. Il papa mandò contro il giovane Enzo un esercito guidato dal Cardinale Colonna. Inutile dire che le città si schierarono chi per l’imperatore, chi per il pontefice.
Nell’agosto di quell’anno, Federico II indirizzava agli Jesini, tramite il figlio Enzo, una lettera per incitarli a schierarsi dalla sua parte. «Se il luogo nativo», recitava la lettera, «con un certo effetto di naturale volontà è da tutti indifferentemente amato in modo speciale, se l’amore della patria con la sua dolcezza tutti stringe, né permette loro di essere immemori di essa, con pari ragione, secondo che ne detta la natura, siamo attratti e abbracciare con intimo affetto Jesi, nobile città della Marca, principio insigne dell’origine nostra, ove noi la diva madre nostra diede alla luce, ove risplendette la nostra nascita. Questo fa che non possa dipartirsi dalla nostra memoria quel luogo, e la nostra Betlem e la terra e l’origine di Cesare non rimanga profondamente radicata nell’animo nostro: onde tu, Betlem, città della Marca non ultima, sei tra le principali della nostra prosapia. Da te, infatti, uscì la guida e il capo del Romano Impero, che reggerà il popolo tuo, e non patirà che tu più oltre soggiaccia ad ostile reggimento. (…) Sorgi, dunque, principia genitrice, e scuoti l’indebito giogo. Laonde noi misericordiosi alle gravezze vostre e degli altri nostri fedeli, deliberammo di liberar voi e gli altri fedeli nostri, sia della Marca sia del Ducato Spoletano, dalla soggezione del nostro oltraggiatore, il quale avendo per la sua manifesta ingratitudine demeritato di noi e dell’impero, credemmo di sciogliervi dal giuramento da voi, salvo il diritto dell’impero stesso, prestato alla Chiesa, mandandovi il nostro diletto figliuolo.»
Gli Jesini non tardarono ad accorrere all’appello di Federico II. Sempre nel 1239, e precisamente nel mese di ottobre, il principe Enzo, che si trovava accampato presso il fiume Musone, compilava un diploma a favore della nostra città.
Considerando la sincerità della fede e la molteplicità delle prove di devozione della città di Jesi verso l’imperatore suo padre, con quell’atto il giovane principe le concedeva e confermava in perpetuo l’intero suo contado con i castelli e le ville in esso esistenti e coi loro abitanti dentro e fuori. E nominatamente le ville delle Ripe e del Monte delle Torri (situate nelle colline a levante della città), i Castelli di Morro, Albarello, Monsanvito e tutto ciò che le fu già concesso dal Comune di Senigallia e la selva di Castagnola e le sue pertinenze, con piena ed intera giurisdizione e con ogni altro diritto spettante all’Impero nei luoghi predetti. Accordava inoltre ai cittadini di Jesi sicurezza assoluta nelle persone e nelle cose, rimettendo loro ogni offesa fatta per qualunque ragione all’Impero medesimo. Dava facoltà al Comune di Jesi di costituire il proprio reggimento nella città, e fuori, e nel contado, e nei luoghi predetti e ovunque abbia suoi cittadini e castellani, con pieno potere di punire ogni delitto, e piena e mera giurisdizione sopra ogni delinquente in essi luoghi. E in simil modo, di formare statuti da osservarsi a loro arbitrio e volontà; e che gli uomini di Jesi e delle sue dipendenze non fossero sottratti dalla giurisdizione e dalla curia della città, e se chiamati fuori a tal uopo non fossero tenuti d’obbedire. Li autorizzava a vendere le loro derrate e ogni altra cosa che volessero e portarle e farle portare in ogni luogo per mere o per terra senza alcun pedaggio o dazio e senza alcun ostacolo da parte dell’Impero.  Infine concedeva alla città di avere un porto sul mare, «liberum et absolutum», dovunque le fosse piaciuto per tutta la giurisdizione dell’Impero nella Marca.
L’atto memorando si chiudeva con le seguenti parole: «Se fosse avvenuto in alcun tempo un accordo tra l’Impero e la Chiesa, per il quale la Marca avesse dovuto a questa restituirsi, l’Imperatore non l’avrebbe restituita senza la promessa che il regio diploma fosse mantenuto in perpetuo alla città di Jesi.» La presa di posizione a fianco dell’Imperatore comportò per tutti gli jesini la scomunica papale.

QUATTROMILA MORTI
Nel frattanto il pontefice aveva convocato a Roma il con­cilio per decidere sulla contesa. Ma Federico II volle impedirlo. Fece assalire dai Pisani la flotta genovese che portava a Roma i vescovi francesi, poi cercò di impadronirsi addirittura della persona del papa: marciò contro Roma ed era già alle porte della capitale quando Gregorio IX, quasi centenario, moriva. Gli successe sul trono pontificio, due anni dopo, il cardinale Fieschi, che prese il nome di Innocenzo IV. Il Fieschi era sem­pre stato amico di Federico II, il quale, saputo della nomina, ebbe a dire: «Non si è mai saputo che un papa sia ghibellino». Ed infatti ghibellino più non era, perché Innocenzo IV, rispol­verando il programma del suo predecessore, si trasferì in tutta segretezza a Lione e là tenne quel concilio che non si era potuto tenere a Roma. E fu un processo a Federico II. Correva l'anno 1245.
A Lione l'imperatore svevo inviò, quali suoi ambasciatori, Pier delle Vigne e Taddeo da Sessa, i quali, con brillante ora­toria, cercarono di far valere le ragioni del loro rappresentato. Ma senza successo. Federico II, riconosciuto spergiuro, eretico e ribelle, venne scomunicato per la terza volta ed i suoi sudditi vennero sciolti dal giuramento di fedeltà.
Ciononostante gli Jesini rimasero fedeli all'imperatore e continuarono a combattere sotto le sue insegne agli ordini di Ro­berto di Castiglione, a fianco di altri ghibellini della Marca, contro i guelfi comandati da un anconitano, Marcellino Pete, vescovo di Arezzo. La scomunica che colpì gli Jesini questa volta non risparmiò neppure il Capitolo della Cattedrale, come risulta da una lettera di Innocenzo IV del 30 maggio 1247. La diocesi di Jesi, in quel periodo, restò ovviamente senza vescovo.
La guerra tra pontifici ed imperiali raggiunse la fase più acuta verso la fine del 1247 e l'inizio del 1248. La grande bat­taglia, che si svolse presso Osimo e Civitanova, doveva essere l'estremo colpo per le truppe pontificie e mirava alla conquista di Ancona, primo sostegno del partito guelfo e del legato pon­tificio. L'armata imperiale era formata da saraceni, truppe di Macerata, Jesi, Senigallia, Matetica ed Osimo. Con le milizie della Chiesa erano questa volta, oltre agli Anconetani, gli uomini di Camerino e Recanati. Lo scontro fu terribile e si risolse in una grave sconfitta per le truppe pontificie: si dice che gli Anconetani abbiano avuto perdite fortissime; molti di essi furono uccisi o fatti prigionieri. Il Carroccio cadde nelle mani degli Osimani, che si impadronirono anche della bandiera. Il Gianandrea riferisce che i guelfi lasciarono sul campo più di quattromila morti. Il vescovo Marcellino, fatto prigioniero, finì impiccato dopo aver subito ogni sorta di sevizie. Tutte le città delle Marche erano ora sotto il dominio di Federico II.

MORTE DI FEDERICO II

II 1248 segnò, però, anche il principio della fine dell'impe­ratore svevo. Nel Nord Italia i guelfi espugnarono Parma, roccaforte dei ghibellini. Federico II, deciso a prendersi la rivin­cita, strinse d'assedio la città, ma i guelfi ebbero ancora la meglio: durante una sortita, approfittando del fatto che Fede­rico II era impegnato in una battuta di caccia al falcone, sconfissero le sue truppe, costringendole a togliere l'assedio.
Pochi giorni prima di quella disfatta, Jesi era tornata alla Chiesa. « Da quali cagioni e da quali fatti fosse determinato questo ritorno noi non sappiamo — scrive il Gianandrea, che aggiunge : — Ci piace però di notare, a difesa dei nostri dall'ac­cusa di vile abbandono, che esso avvenne prima, sia pure di pochi giorni, dalla strepitosa rotta di Parma ».
Jesi ottenne dal vicario del papa, cardinal Raniero, venu­to direttamente a Jesi il 13 febbraio 1248 per ricevere la sog­gezione dei nostri, ampia conferma della donazione di re Enzo con altri importanti diritti e privilegi e con l'aggiunta al suo dominio del castello di Montecarotto.
Dopo la sconfitta di Federico II a Parma, mentre altre città che gli sembravano fedeli defezionavano, l'imperatore subiva un altro grave colpo a Fossalta: qui i Bolognesi battevano Enzo in campo aperto (imprigionatolo, non lo libereranno più). La stella di Federico II volgeva ormai al tramonto. Lo stesso imperatore, mentre si trovava nel Castello di Ferentino, presso Luceria in Capitanata, e si preparava a respingere le armate papali dell'Italia meridionale, veniva colto da violente febbri. Il 13 dicembre del 1250 moriva. Poco prima il suo segretario Per delle Vigne, caduto in disgrazia e finito in galera, si era ucciso. Da Lione il papa annunciò la morte di Federico II con lettere che rimasero famose.
Nella « Divina Commedia », composta circa cinquant'anni dopo la morte di Federico II, Dante, che lo ricorda più volte nel suo poema, lo porrà nell’Inferno tra gli eresiarchi; tuttavia nel Paradiso, additando la luce della « gran Costanza », la madre di Federico, accennerà a lui come all’ultima possanza » del­l'impero.
Con la morte di Federico II e il ritorno del Comune di Jesi sotto l'autorità della Chiesa, i guelfi ripresero a governare la nostra città. Una delle loro prime deliberazioni fu quella — vara­ta nel 1250 — di entrare a far parte di una Lega di Comuni alla quale avevano già aderito Ancona, Cagli, Fano, Fossombrone e Pesare. Questa Lega doveva servire a serbare così unite più costante la filiale obbedienza e la fede alla S. Chiesa romana.
Si trattava di una mossa opportunistica per far dimenti­care evidentemente il recente passato della Jesi ghibellina. Il papa, ad ogni modo, non se ne dimostrò dispiaciuto; infatti nel 1253 scriveva al rettore della Marca ingiungendogli di man­tenere e difendere le ragioni e i diritti della Comunità jesina e a non imporre e indurre indebite novità. Ma il rettore della Marca fece orecchie da mercante e privò gli Jesini del Conta do: essi ricorsero e la loro causa fu commessa da altro rettore della Marca a Guglielmo da Piacenza e ad Alamanno da Firen­ze, i quali sentenziarono a favore degli Jesini e ad essi fu resti­tuito il Contado.

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