FRANCESCO SFORZA
Gli ultimi anni del XIV secolo ed i
primi decenni del XV secolo furono molto difficili per la Chiesa, minacciata da
due scismi, il secondo dei quali portò nelle nostre contrade uno dei più
audaci e geniali condottieri del tempo,
Francesco Sforza, che sarà per
molti anni Signore di Jesi.
Il primo scisma d'occidente aveva
avuto inizio dopo la morte di Gregorio XI, allorché, come abbiamo visto, al successore
Urbano VI i Francesi avevano contrapposto Clemente VII. Nel tentativo di
sbloccare quella incresciosa situazione, personalità ecclesiastiche e laiche si
radunarono a Pisa e, convinte che non vi fosse soluzione migliore,
dichiararono deposti i due papi in carica, eleggendo al loro posto un nuovo
papa nella persona di Alessandro VI, arcivescovo di Milano. Ma poiché né
Urbano VI né Clemente VII rinunciarono alla tiara, ad un certo momento la
Chiesa si trovò ad avere tre papi nello stesso tempo.
Per sanare il tragico dissidio, intervenne Sigismondo di Lussemburgo, re di Germania, d'Ungheria e di Boemia. Questi prese l'iniziativa di convocare a Costanza un concilio, che durò tre anni, dal 1414 al 1417. L'assemblea diede i suoi frutti: il 20 maggio del 1415 Giovanni XXIII (nel frattempo succeduto ad Alessandro VI) fuggiva travestito e veniva deposto il 29 maggio; il 4 luglio Gregorio XII dava le dimissioni; ventidue giorni dopo veniva deposto Benedetto XIII (questi ultimi due erano succeduti ad Urbano VI e Clemente VII). L'11 novembre dello stesso anno era eletto — unico papa, finalmente — Martino V.
Per sanare il tragico dissidio, intervenne Sigismondo di Lussemburgo, re di Germania, d'Ungheria e di Boemia. Questi prese l'iniziativa di convocare a Costanza un concilio, che durò tre anni, dal 1414 al 1417. L'assemblea diede i suoi frutti: il 20 maggio del 1415 Giovanni XXIII (nel frattempo succeduto ad Alessandro VI) fuggiva travestito e veniva deposto il 29 maggio; il 4 luglio Gregorio XII dava le dimissioni; ventidue giorni dopo veniva deposto Benedetto XIII (questi ultimi due erano succeduti ad Urbano VI e Clemente VII). L'11 novembre dello stesso anno era eletto — unico papa, finalmente — Martino V.
Il secondo scisma
d'occidente prese l'avvio praticamente nel 1431 quando, succedendo a Martino V,
salì la cattedra di Pietro Eugenio IV. Il nuovo eletto era il cardinale
Condulmer, che per un certo tempo era stato anche legato pontificio nella Marca
d'Ancona. Eugenio IV, austero ed autoritario, ebbe subito grossi
contrasti con il Concilio di Basilea, che, contro il suo volere, era stato
convocato, come il precedente, da Sigismondo di Lussemburgo.
Fin dalle prime sessioni i cardinali avevano citato il
papa ad intervenire a quel Concilio, ma Eugenio IV si era sempre rifiutato di
parteciparvi; anzi, replicò energicamente e, dannando il luogo come
discommodo agli Italiani, levò la fede a quelle astoni. Contro Eugenio IV
ed a favore del Concilio di Basilea, si schierò Filippo Maria Visconti, duca di
Milano, il quale istigò Francesco Sforza, che era alle sue dipendenze, ad
invadere gli Stati della Chiesa.
L'avanzata verso
la Marca d'Ancona del famoso condottiero fu così rapida che lo si seppe
prima qui giunto che partito di Romagna. Francesco Sforza il 7 dicembre del
1433 era a campo sotto Jesi con tutto l'esercito e la famiglia civile e
militare: della prima facevano parte Angelo Simonetta, suo particolare segretario,
il conte Francesco Salimbeni da Siena, Contuccio de Mattheis e Boccaccino Degli
Alamanni; dell'altra Alessandro, Giovanni e Leone Sforza fratelli, Foschino e Lorenzo
Attendolo, Pier Brunoro da San Vitale.
Scrive il Natalucci: «Sulle ragioni che hanno indotto
lo Sforza ad occupare la Marca sono diversi i pareri. Si pensa in genere che
Filippo Maria Visconti abbia spinto all'impresa lo Sforza per liberarsi di un
pericoloso competitore e per far dispetto ad Eugenio IV, veneziano ed amico
della repubblica, da cui egli aveva ricevuto gravi sconfitte ».
Altri affermano «che sarebbero stati gli stessi
abitanti della Marca ad invitarlo, stanchi dell'oppressione del Vitelleschi
(vescovo di Recanati e rettore della Marca) e smaniosi di novità. Quali che
siano stati i reali motivi dell'occupazione, lo Sforza finse di volersi recare
in Puglia per sottomettere alcuni castelli che si erano ribellati alla sua
autorità; poi, togliendosi la maschera, si presentò quale liberatore delle
popolazioni marchigiane dal giogo papale ed esecutore dei mandati del Concilio
di Basilea».
In effetti, il giorno stesso in cui giunse a Jesi,
Francesco Sforza lanciava da qui ai popoli della Marca un proclama invitandoli
a ribellarsi ad Eugenio IV ed a sottomettersi alla sua Signoria.
«Ragguardevoli uomini, amici e carissimi
come fratelli, — così iniziava il proclama — perché potrebbe essere, non sapendo
voi la cagione della venuta mia in questa parte, che ne stiate dubbiosi, vi
avviso con questa per cavarvi da ogni ammirazione, che ne poteste avere, come
io già sono venuto per comandamento del santo Concilio. Il quale... volendo
privarlo (Eugenio IV) come persona ingrata a Dio e che non merita tanta dignità
e grado, mi ha chiesto, pregato e comandato che debba venire a queste parti
perché tolga tutta questa provincia alla sua ob-bedienza; e non solamente qui,
ma in ogni altro loco ove mi potessi estendere, io debba in suo apposito
operare e fare ogni cosa a me possibile, pretendendo il santo Concilio
totalmente il suo disfacimento. E pertanto, volendo io essere obbediente...
sono venuto in queste parti disposto voler mettere la compagnia e quanto ho al
mondo in vostro favore, con intenzione ai non abbandonarvi mai ».
«Vi potrò ben difendere da qualunque
persona vi potesse nuocere e far contro di voi — diceva più oltre Francesco
Sforza —. Sicché, ricevuta questa, vogliate dar licenza a tutti e a ciascun
officiale che si trovasse all’obbedienza del detto Eugenio, e non gli dobbiate
rispondere di niuna taglia, né d'altra sovvenzione o pagamento per qualunque
modo si sia, né gli dobbiate fare altra obbedienza; avvisandovi che, facendo il
contrario, si procederà contro di voi, e per ogni denaro che pagherete ve se ne
farebbero pagar due... E perché possiate esser più certi della mia buona
volontà verso di voi, manderete da noi quattro dei vostri cittadini, coi quali
possa più a pieno conferire di quanto sarà di bisogno. E perché costoro possano
venire senza alcun sospetto, nonostante che non ve ne fosse di bisogno, più per
loro norma, voglio che questa lettera sia a loro ed a chiunque venisse con loro
pieno e valido salvacondotto di poter venire e tornare senza impaccio, novità,
ne altro ostacolo ».
La lettera portava in calce un post
datum: «Io vi avverto che ho avuto la città di Jesi con tutto il Contado,
Montefilottrano, Staffolo ed altre terre ed ogni dì spero aver delle altre ».
In realtà quando Francesco Sforza aveva
scritto quella lettera, non era ancora entrato a Jesi, pur essendo sul punto di
occuparla. La nostra città, secondo gli ordini del Vitelleschi, era presidiata
da Giosia di Acquaviva, duca di Atri, subentrato al capitano Sancio Cirillo —
passato, armi e bagagli, allo Sforza — nel comando delle truppe pontificie.
Il Giosia disponeva di un grosso numero
di soldati, ma, sorpreso e spaventato dall'improvviso assalto, cedette Jesi
allo Sforza, patteggiò vantaggiosamente per i suoi e si rifugiò a Recanati.
Racconta il Grizio che lo Sforza ebbe facile gioco nella conquista di Jesi, perché
i nostri concittadini l'intromisero dentro la città e voltarono l'armi
contro Giosia; la qual cosa trova spiegazione nell'antipatia che le
popolazioni marchigiane nutrivano nei confronti del governatore pontificio: troppi
motivi di odio aveva cumulato sul suo capo il Vitelleschi.
Francesco Sforza, divenuto Signore di Jesi, ricevé onori, doni e festeggiamenti come amico e liberatore. Dopo tre giorni, lasciata una guarnigione nella nostra città, proseguì la marcia verso il Sud e la sua fu quasi una marcia trionfale, perché i paesi e le città si sollevarono ovunque, invocando la protezione del nuovo conquistatore: entro la fine del 1433 praticamente tutta la Marca era sotto la Signoria dello Sforza. Il quale si trasferiva poi in Umbria, arrivando, di successo in successo, fin quasi alle porte di Roma.
SIGNORE DI
JESI
Francesco Sforza, divenuto Signore di Jesi, ricevé onori, doni e festeggiamenti come amico e liberatore. Dopo tre giorni, lasciata una guarnigione nella nostra città, proseguì la marcia verso il Sud e la sua fu quasi una marcia trionfale, perché i paesi e le città si sollevarono ovunque, invocando la protezione del nuovo conquistatore: entro la fine del 1433 praticamente tutta la Marca era sotto la Signoria dello Sforza. Il quale si trasferiva poi in Umbria, arrivando, di successo in successo, fin quasi alle porte di Roma.
A questo punto, per evitare il peggio,
papa Eugenio IV reputò opportuno scendere a patti con lo Sforza, che nel marzo
del 1434 riceveva dal pontefice, con il titolo di marchese a vita, il dominio
della Marca e, tra gli altri benefici, anche il comando delle armi pontificie,
quale gonfaloniere della Chiesa. Sotto le nuove insegne, si trovò presto a
combattere in Umbria e nel Lazio contro Nicolò Fortebraccio, nipote di Braccio
da Montone, e Nicolò Piccinino, che Filippo Maria Visconti, invidioso della
rapida fortuna del suo ex capitano, gli aveva aizzato contro. Il
Fortebraccio venne liquidato subito; infatti, dopo feroce combattimento,
fu sconfitto e ucciso. La sua morte segnò la fine delle ostilità.
Il 28 marzo del 1438 Francesco Sforza concludeva un
trattato di pace con il duca di Milano, Filippo Maria Visconti, il quale, ben
sapendo quali vantaggi gli sarebbero venuti dalla parentela con lo Sforza ed
allo scopo quindi di accattivarsene sempre più l'amicizia, gli promise in sposa
l'unica figlia legittima, Maria Bianca. Le nozze vennero fissate per il mese di
maggio di quell'anno. In breve sì sparse la voce che gli sposi sarebbero venuti
nella Marca in luna di miele. Fu questo l'argomento di tutti i discorsi;
ovunque, nella Marca, se ne fecero gazzarre, luminarie e falò; ovunque si
tennero ad urgenza adunanze consiliari per deliberare circa i festeggiamenti e
i doni da fare agli sposi nella loro prossima venuta.
Ma le nozze furono sospese, sia perché il Visconti
decise d'un tratto di rimandarle ad altra epoca e sia perché il promesso sposo
si era venuto a trovare imbrigliato, nel frattanto, m altre questioni militari.
Si recò infatti a combattere in Toscana e nell'Umbria e quindi nel Napoletano
contro Giosia di Acquaviva ed il rE Alfonso d'Aragona. Stipulata la pace con
quest'ultimo, venne nella Marca per sottomettere alcuni Comuni ribelli e
finalmente si ritirò a Jesi, ove giunse il 20 ottobre del 1438 accolto con
festeggiamenti e regali. Ed a Jesi egli si fermò per trascorrervi l'inverno.
Ripartì dalla nostra città il 7 aprile dell'anno seguente con buona parte delle
sue truppe per correre in aiuto dei suoi alleati veneziani.
Intanto era scoppiato il secondo scisma
d'occidente: il Concilio di Basilea, convocato contro il volere del papa, aveva
dichiarato contumace Eugenio IV, che, a sua volta, aveva dichiarato sciolto
quel Concilio, riconvocandolo a Firenze ; i cardinali dissidenti rimasti a
Basilea il 5 giugno del 1439 reagivano, deponendo Eugenio IV ed eleggendo in
sua vece Amedeo Vili, duca di Savoia ; questi, che aveva abdicato al trono e si
era ritirato a vita solitaria di preghiera, prese il titolo di Felice V.
Naturalmente Eugenio IV rimase al suo posto; si avranno così, da quel momento,
due papi, ma fortunatamente solo per nove anni, perché nel 1449 Felice V, per
amore della pace e dell'unità della Chiesa, abdicherà.
LE NOZZE CON
BIANCA
Nell'ottobre del 1441 Francesco Sforza
convolava a nozze con Maria Bianca Visconti, la quale aveva appena sedici anni
contro i quaranta dello sposo. Alla cerimonia nuziale, celebrata a Cremona,
intervennero anche gentildonne e gentiluomini marchigiani. L'arrivo degli
sposi nella Marca, però, avvenne soltanto nel maggio del 1442.
Francesco Sforza, accompagnato dalla
consorte e dai suoi più valorosi capitani, fra i quali Sigismondo Malatesta,
giunse a Jesi per l'esattezza il 20 maggio. Ma quattro giorni dopo era già sul
piede di partenza, avendo progettato di trasferirsi nel Napoletano, ove si
trovava il fratello Alessandro, per combattere contro Alfonso d'Aragona. E,
prevedendo di doversi assentare per parecchio tempo, emanava dalla nostra città
un'ordinanza con la quale affidava il governo della Marca alla sua giovanissima
consorte.
«Poniamo a capo di tutta la nostra
provincia — diceva — l'inclita e l'illustre nostra consorte, Bianca Maria, per
le grandissime ed ammirabili virtù che l'adornano e le affidiamo tutto il
governo della medesima. Perciò ingiungiamo con tutta la possibile premura e
diligenza di eseguire persino un cenno della sua volontà con rettitudine e con
la massima esattezza e di obbedire e secondare alacremente e premurosamente
ogni suo comando... ».
Lo Sforza era appena partito quando gli piovve addosso
una serie di brutte notizie: il suocero ed il papa si erano alleati ad Alfonso
d'Aragona; Eugenio IV aveva dichiarato lo Sforza ribelle; Nicolò Piccinino
stava marciando verso la Marca, con un esercito agguerritissimo, per
riconquistarla alla Chiesa. Lo Sforza, sbalordito, ordinò ai suoi di retrocedere
verso Jesi, ove stabilì il suo quartier generale. Quindi, dopo aver fatto
partire frettolosamente la sua Bianca per Fermo dal momento che la
nostra città era divenuta per lei residenza mal sicura, adunò attorno a
sé il maggior numero di forze possibili, con le quali partì da Jesi contro il
nemico. I due eserciti si scontrarono presso Amandola e, seppure numericamente
superiore, il Piccinino fu costretto a subire una pesante sconfitta.
Le cose sembravano volgere dunque a favore dello Sforza;
senonché il papa riuscì a convincere Alfonso d'Aragona a spedire nella Marca un
forte esercito. La disparità di forze questa volta era troppo accentuata e lo
Sforza si rese conto che sarebbe stata pazzia affrontare il nemico in campo
aperto; perciò divise le sue schiere e le distribuì sotto i suoi più bravi
capitani in quelle località ove era possibile organizzare una lunga resistenza,
mentre egli si ritirava a Fano per sollecitare l'invio di truppe da parte dei
suoi alleati. A Jesi rimase suo cognato Troilo, a Staffolo Fiesco Girasio, a
Massaccio Guglielmo da Baviera, a Fabriano Pietrobrunoro, e così via.
L'esercito di re Alfonso poté tuttavia impadronirsi di
buona parte della Marca, agevolato dal fatto che molti Comuni, ritenendo ormai
lo Sforza in declino, lo avevano abbandonato. E soprattutto perché molti capitani
fedeli tradirono lo Sforza, vendendosi al monarca napoletano. Lo stesso
Troilo aprì le porte di Jesi all'esercito di Alfonso. E la rocca di Jesi, che
era rimasta ciononostante fedele allo Sforza, fu costretta a capitolare sotto
gli assalti della truppa di Pietrobrunoro, anch'egli, come Fiesco Girasio e
Guglielmo di Baviera, passato al nemico.
FEDELE ALLO
SFORZA
Alfonso d'Aragona, occupata Jesi, si spinse sotto le
mura di Fano, ma i suoi tentativi per impadronirsene risultarono vani.
Informato poi che erano in arrivo i rinforzi per il suo avversario, preferì
togliere il campo e ripartire alla volta di Napoli, portando con sé, in catene,
Troilo e Pietrobrunoro i quali, sotto l'accusa di tradimento ai danni
dell'aragonese (e ciò grazie ad un espediente escogitato dallo stesso Sforza,
che aveva così voluto punire due di coloro che gli avevano voltato le spalle),
giaceranno nelle prigioni napoletane per dieci anni.
Restavano a contrastare il passo a
Francesco Sforza i pontifici capeggiati ancora una volta da Nicolò Piccinino,
che dalla battaglia combattuta sul fiume Foglia usciva nuovamente battuto.
Deciso a riconquistare tutta la Marca, lo Sforza puntò su Jesi, i a strinse
d'assedio e dopo tre giorni la occupò grazie alla collaborazione degli Jesini
che, confidatisi nell'appoggio di lui, ammassando tutto il presidio di
Alfonso che era nella città, s'impadronirono per via di una grotta sotterranea
della rocca: una nuova prova di fedeltà, dunque, degli Jesini a beneficio
dello Sforza, col quale probabilmente si sentivano in dovere di doversi
schierare anche per protesta contro Eugenio IV che li aveva «danneggiati»
vendendo (1432) per tremila ducati agli Anconetani il castello di Monte S. Vito
che era stato degli Jesini.
Il Piccinino, battuto sul Foglia,
riorganizzò le file dell'esercito con gli aiuti del legato pontificio,
cardinale Capranica, ma, prima di scontrarsi di nuovo con lo Sforza, partì per
Milano, lasciando il comando al figlio Francesco. Questi, inorgoglito da un
successo iniziale, cercò la sua giornata di gloria contro lo Sforza, ma subì
una rovinosa disfatta e cadde prigioniero dopo essersi nascosto fra i giunchi
di una palude. Il padre, Nicolò Piccinino, dal
dispiacere ne morirà di
crepacuore.
Quella disfatta coinvolse anche il cardinal Capranica,
il quale, mentre fuggiva
all'impazzata senza rocchetto e cappello, fu preso, battuto e costretto ad
arrendersi, e nulla gli valse il fingersi di essere cappellano del conte
Sforza. Dalla parte sforzesca pochi furono i morti, molti i feriti. Anche il
conte Francesco fu in grave pericolo, poiché in un momento in cui correndo era
rimasto senza elmo, si trovò circondato da una squadra ostile, che avrebbe
potuto ucciderlo se non l'avesse rispettato per quella simpatia che godeva
anche presso i nemici.
Il 30 settembre di quell'anno lo Sforza
sottoscriveva col pontefice una tregua a condizioni quanto meno singolari: egli
aveva dodici giorni di tempo per sottomettere i paesi della Marca: allo scadere
del dodicesimo giorno ciò che avrebbe conquistato sarebbe stato suo (avrebbe
dovuto pagare però tributi e gabelle alla Camera Apostolica); il resto della
Marca sarebbe rimasto sotto il controllo diretto dalla Chiesa. Trascorso il
termine convenuto, fatta eccezione per Osimo, Recanati e Fabriano, tutta la
Marca era di nuovo sotto Francesco Sforza.
ADDIO ALLA
MARCA
Normalizzatasi la situazione, lo Sforza
e sua moglie Bianca tornarono a Jesi: erano i primi di dicembre del 1444. Ma
già agli inizi del nuovo anno altre ostilità si profila vano all'orizzonte.
Sigismondo Malatesta, che gli era stato alleato in tante battaglie, ora gli era
contro, perché offeso dalla cessione di Pesaro fatta da Francesco Sforza al
fratello Alessandro, a discapito di un fratello del Malatesta. Per di più il
papa, Alfonso d'Aragona e Filippo Maria Visconti stavano tramando ai suoi
danni. A primavera inoltrata un poderoso schieramento di truppe era in marcia
contro lo Sforza; lo comandava lo stesso Sigismondo.
Francesco Sforza, rimasto a Jesi
pressoché inoperoso per sei mesi, di fronte alla nuova minaccia, non si
scompose e rispose alle armi con le armi. Si trovava a Fermo con i suoi soldati
quando gli pervenne la notizia che Roccacontrada (Arcevia) aveva ceduto a
Sigismondo Malatesta. Questa perdita era fatale allo Sforza, non solo perché si
trattava di un punto strategico e pressoché inespugnabile, ma perché
costituiva l’unica comunicazione libera verso Urbino e la Toscana. Lo Sforza
mosse subito in soccorso del castellano di Roccacontrada, ma quando fu
presso il fiume Esino, nella contrada denominata «passo dell'imperatore»,
lontano tre miglia a mezzogiorno di Jesi, ebbe notizia che quel castellano
l'aveva tradito e aveva consegnato la fortezza al nemico. Lo Sforza ne rimase
dolentissimo e indispettito quanto mai.
Fu a questo punto che lo Sforza comprese
che la sua Signoria nella Marca era ormai al tramonto. Ovunque le città ed i
castelli lo abbandonavano. Ripiegò su Jesi, deciso però a tenere la nostra
città ad ogni costo. Fortificò la rocca e la cinse con vari bastioni e
cavalieri. Tutt'altro che rassegnato alla sconfitta, allestì un esercito
più forte, col quale si portò in Umbria: la occupò e minacciò il Lazio. Il
papa, temendo che la vendetta dello Sforza potesse indurlo a tentare addirittura
un colpo di mano su Roma, invocò l'aiuto di Alfonso d'Aragona. Il re partenopeo
dirottò subito contro lo Sforza l'esercito dislocato nella Marca. Ma non vi fu
scontro. Lo Sforza, a corto di vettovaglie, ripiegò su Fano, mentre le truppe
papaline, occupata Ancona, muovevano su Jesi.
La nostra città venne assediata ai primi di luglio. Il
cardinale Capranica, tornato a comandare le milizie pontificie, tuttavia non
riuscì ad espugnarla, quantunque
ingagliardito dalle compagnie del Furiano, reduce dall'Umbria, e più tardi da
quelle del viceré degli Abruzzi, spedito in aiuto del pontefice da re Alfonso.
Intanto era scoppiata la peste, che per più di tre
mesi seminò vittime e miseria,
riducendo le popolazioni in pietose condizioni. Anche la nostra città ebbe a
soffrirne. L’8 febbraio del 1447 Gaspare da Lodi, che lo Sforza (recatesi a
Pesaro) aveva lasciato a Jesi quale luogotenente, così gli scriveva: «Questo
popolo non ha più da vivere e già sono partite tre famiglie per fame; i
soldati, malcontenti di certo, fanno delle cose disoneste assai. Io ci rimedio
quanto posso. E vedo chiarissimamente che, non provvedendo la S. V. subito di
vettovaglie e a questi soldati di denari, voi perderete la rocca, la terra e la
gente ad un tratto... Cristoforo da Cremona volle battere ieri sera il podestà,
perché non ebbe sì presto le legna per la guardia... ».
A Pesaro Francesco Sforza apprese che Eugenio IV era
morto il 23 febbraio (gli succederà il 5 marzo Nicolò V). La morte di Eugenio
IV fece mutare completamente i suoi atteggiamenti verso la Chiesa: «È nostra
intenzione — scriveva agli Jesini il 1° marzo — non essere più in cosa alcuna
contro la Santa Chiesa, ma esser suo buon figliolo e servitore, e quello che
abbiamo fatto fino adesso contro la Chiesa è stato contro nostra volontà,
perché, essendo già per cinque anni assaliti ed aspramente offesi dalla buona
memoria di papa Eugenio, ne è stato necessario difenderci... ».
Durante la sua permanenza a Pesaro, lo Sforza aveva
ricevuto nel frattempo lettere ed ambasciatori da parte del suocero, il
quale, minacciato dai suoi nemici, gli
faceva la descrizione di tutte le proprie disgrazie fisiche, morali,
domestiche, militari e politiche; lo pregava si muovesse a pietà di un infelice
suocero, dì un derelitto cieco, dì un povero moribondo, promettendo
solennemente al conte dì nominarlo suo erede e successore nel principato di
Milano. Contemporaneamente la moglie Bianca, piangendo, scongiurava
Francesco a perdonare suo padre ed aiutarlo.
Lo Sforza, dopo tante insistenze e preghiere, finì col
dirsi disposto ad abbandonare la Marca per trasferirsi definitivamente a
Milano. Tutto avrebbe lasciato, però, meno che la Signoria sulla città di Jesi.
A questo scopo, inviò a Roma il fratello Alessandro affinché patrocinasse la
sua richiesta presso il pontefice e il re Alfonso, poi raggiunse la nostra
città. Qui giunto verso la fine dell'aprile del 1447, trovò questa città in
grande trepidazione e trambusto per le voci che correvano circa la sua
concessione al pontefice.
SOLTANTO
JESI
Da Jesi, lo Sforza scrisse due lettere, una ad Alfonso
d'Aragona e l'altra agli ambasciatori del duca di Milano a Roma: «Qui a Jesi —
diceva nella seconda — son venuto con circa venti cavalli disarmati ; il mio
venire era più che necessario, perché questi uomini erano in disperazione per
quello che questi della Chiesa hanno detto e divulgato che io rendeva questa
terra alla Chiesa... E se io non veniva, di certo che saria qui seguito qualche
inconveniente, perché questi uomini, dicono, avevano deliberato prima lasciare
la terra e bruciarla e venire da me dove io era, o andare ad abitare altrove,
anziché ritornare sotto la Chiesa».
La risposta che gli pervenne non fu certo quella che
si aspettava: «La maestà del re si rimette alla deliberazione del papa: il papa
risponde che al signor Duca fidarìa non solo Jesi ma anche tutta la Marca; non
delibera (però) di consentire, perché gli parerìa fare contro coscienza; dice
anche che l'opinione sua è stata che Jesi dovesse essere posta nelle mani del cardinal
di Fermo (il Capranica)...».
A metà giugno lo Sforza riceveva poi una lettera di un
suo grande amico, Nicolò Guarna, il quale lo metteva al corrente delle
difficoltà militari in cui si dibatteva Filippo Maria Visconti consigliandone
a smettere ogni idea di ottenere Jesi in vicariato, essendone il papa contrarissimo
e di non poter contare perciò nell'appoggio di re Alfonso e dei suoi alleati;
interpretando anche il parere del Visconti, il Guarna aggiungeva al riguardo
che sarebbe stato assai meglio per lui cedere al pontefice la suddetta città
dietro forte corrispettivo, che potrebbe elevarsi anche a 35 mila ducati;
concludeva che, se avesse tardato ad abbracciare questo consiglio, avrebbe
fatto il gioco dei suoi nemici, i Bracceschi, che non ristavano dall’arrabattarsi
contro di lui presso i Visconti.
Fu allora che Francesco Sforza incaricò il cugino
Marco Attendolo da Cotignola di trattare la cessione di Jesi. «Prometterai la
libera cessione di Jesi nelle mani di sua Maestà — gli disse — ma aggiungerai che
il mio onore richiede che questa sia fatta quindici giorni dopo la mia partenza
dalla Marca. Fatti dare in iscritto la promessa, una dal papa ed una dal re,
che nulla verrà innovato di quanto ho concesso agli Jesini, che sono stati e
dimostrati amici miei. Fatti pagare in corrispettivo della cessione di
Jesi 35 mila ducati».
Alla fine di luglio tutte le difficoltà erano
appianate. Quando giunse il momento della cessione di Jesi, pianse il cuore
allo Sforza, perché gli era noto di ciò che era costretto a fare contro la
voglia dei cittadini che infiniti affanni per lui avevano sopportato. Gli
accordi erano che la nostra città sarebbe stata ceduta al papa tramite un
commissario di Alfonso d'Aragona. Questi il 4 agosto inviò a Jesi Giovanni de
Canesiis; da parte sua, lo Sforza, che si trovava a Pesaro, inviò Marco
Attendolo.
Narra il Benadduci: «La consegna fu effettuata con
tutte le formalità e solennità richieste: i soldati sforzeschi, che erano di
guardia nella città e nella rocca, nello Staffolo e nelle castella del
distretto jesino, ne partirono e ripiegarono verso Pesaro, ove si riunirono ai
loro compagni d'arme. Giovanni de Canesiis prese a governare per Alfonso
d'Aragona e suo primo intento fu quello di ottenere la pacificazione degli animi.
Fece perciò convocare dal podestà Michele, conte di Casalecchio, un Consiglio,
che fu tenuto agli 8 agosto e vi si trattò la surrogazione dei consiglieri
mancanti e la concordia e la pace da farsi tra tutti i cittadini, specialmente
con quelli che, per ordine dello Sforza, erano tuttora fuorusciti. Il commissario
Giovanni de Canesiis propose che a suggellare la pace dovesse farsi un
banchetto popolare e la proposta fu ad unanimità approvata».
Nei giorni che seguirono, il governo della città passò
dagli aragonesi alla Chiesa; in tutta la Marca furono fatte luminarie e falò
per la cessione di Jesi. «La Signoria di Francesco Sforza nella Marca, che
aveva avuto inizio col possesso di Jesi — commenta il Benadduci — cessò
definitivamente con la cessione della stessa città. Il duca Filippo Maria, che
nel 1433 aveva istigato e favorito il conte Francesco a togliere la Marca al
pontefice, in quest'anno 1447 lo indusse e persuase a restituire il poco
rimastogli».
Incassati i 35 mila ducati, lo Sforza con sua moglie
Bianca, scortati da quattromila cavalieri e duemila fanti, il 9 agosto lasciava
Pesaro e la Marca, dopo aver dato un saluto a quest'ultima, ove lasciava di
sé tante memorie ed affetti. A Milano finirà per diventare duca di quel
principato e fondarvi una dinastia.
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