martedì 22 luglio 2014

FRANCESCO SFORZA

FRANCESCO SFORZA

Gli ultimi anni del XIV secolo ed i primi decenni del XV secolo furono molto difficili per la Chiesa, minacciata da due scismi, il secondo dei quali portò nelle nostre contrade uno dei più audaci e geniali condottieri del tempo,
Francesco Sforza, che sarà per molti anni Signore di Jesi.
Il primo scisma d'occidente aveva avuto inizio dopo la morte di Gregorio XI, allorché, come abbiamo visto, al suc­cessore Urbano VI i Francesi avevano contrapposto Clemente VII. Nel tentativo di sbloccare quella incresciosa situazione, personalità ecclesiastiche e laiche si radunarono a Pisa e, con­vinte che non vi fosse soluzione migliore, dichiararono depo­sti i due papi in carica, eleggendo al loro posto un nuovo papa nella persona di Alessandro VI, arcivescovo di Milano. Ma poi­ché né Urbano VI né Clemente VII rinunciarono alla tiara, ad un certo momento la Chiesa si trovò ad avere tre papi nello stesso tempo. 
Per sanare il tragico dissidio, intervenne Sigismondo di Lussemburgo, re di Germania, d'Ungheria e di Boemia. Questi prese l'iniziativa di convocare a Costanza un concilio, che durò tre anni, dal 1414 al 1417.  L'assemblea diede i suoi frutti: il 20 maggio del 1415 Giovanni XXIII (nel frattempo succeduto ad Alessandro VI) fuggiva travestito e veniva deposto il 29 maggio; il 4 luglio Gregorio XII dava le dimissioni; ventidue giorni dopo veniva deposto Benedetto XIII (questi ultimi due erano succeduti ad Urbano VI e Clemente VII). L'11 novem­bre dello stesso anno era eletto — unico papa, finalmente — Martino V.
Il secondo scisma d'occidente prese l'avvio praticamente nel 1431 quando, succedendo a Martino V, salì la cattedra di Pietro Eugenio IV. Il nuovo eletto era il cardinale Condulmer, che per un certo tempo era stato anche legato pontificio nella Marca d'Ancona. Eugenio IV, austero ed autoritario, ebbe subi­to grossi contrasti con il Concilio di Basilea, che, contro il suo volere, era stato convocato, come il precedente, da Sigismondo di Lussemburgo.
Fin dalle prime sessioni i cardinali avevano citato il papa ad intervenire a quel Concilio, ma Eugenio IV si era sempre rifiutato di parteciparvi; anzi, replicò energicamente e, dan­nando il luogo come discommodo agli Italiani, levò la fede a quelle astoni. Contro Eugenio IV ed a favore del Concilio di Basilea, si schierò Filippo Maria Visconti, duca di Milano, il quale istigò Francesco Sforza, che era alle sue dipendenze, ad invadere gli Stati della Chiesa.
L'avanzata verso la Marca d'Ancona del famoso condottie­ro fu così rapida che lo si seppe prima qui giunto che partito di Romagna. Francesco Sforza il 7 dicembre del 1433 era a campo sotto Jesi con tutto l'esercito e la famiglia civile e militare: della prima facevano parte Angelo Simonetta, suo particolare segre­tario, il conte Francesco Salimbeni da Siena, Contuccio de Mattheis e Boccaccino Degli Alamanni; dell'altra Alessandro, Giovanni e Leone Sforza fratelli, Foschino e Lorenzo Attendo­lo, Pier Brunoro da San Vitale.
Scrive il Natalucci: «Sulle ragioni che hanno indotto lo Sforza ad occupare la Marca sono diversi i pareri. Si pensa in genere che Filippo Maria Visconti abbia spinto all'impresa lo Sforza per liberarsi di un pericoloso competitore e per far di­spetto ad Eugenio IV, veneziano ed amico della repubblica, da cui egli aveva ricevuto gravi sconfitte ».
Altri affermano «che sarebbero stati gli stessi abitanti della Marca ad invitarlo, stan­chi dell'oppressione del Vitelleschi (vescovo di Recanati e ret­tore della Marca) e smaniosi di novità. Quali che siano stati i reali motivi dell'occupazione, lo Sforza finse di volersi recare in Puglia per sottomettere alcuni castelli che si erano ribellati alla sua autorità; poi, togliendosi la maschera, si presentò qua­le liberatore delle popolazioni marchigiane dal giogo papale ed esecutore dei mandati del Concilio di Basilea».
In effetti, il giorno stesso in cui giunse a Jesi, Francesco Sforza lanciava da qui ai popoli della Marca un proclama in­vitandoli a ribellarsi ad Eugenio IV ed a sottomettersi alla sua Signoria.
«Ragguardevoli uomini, amici e carissimi come fratelli, — così iniziava il proclama — perché potrebbe essere, non sapen­do voi la cagione della venuta mia in questa parte, che ne stiate dubbiosi, vi avviso con questa per cavarvi da ogni ammirazio­ne, che ne poteste avere, come io già sono venuto per comanda­mento del santo Concilio. Il quale... volendo privarlo (Eugenio IV) come persona ingrata a Dio e che non merita tanta dignità e grado, mi ha chiesto, pregato e comandato che debba venire a queste parti perché tolga tutta questa provincia alla sua ob-bedienza; e non solamente qui, ma in ogni altro loco ove mi potessi estendere, io debba in suo apposito operare e fare ogni cosa a me possibile, pretendendo il santo Concilio totalmente il suo disfacimento. E pertanto, volendo io essere obbediente... sono venuto in queste parti disposto voler mettere la com­pagnia e quanto ho al mondo in vostro favore, con intenzione ai non abbandonarvi mai ».
«Vi potrò ben difendere da qualunque persona vi potesse nuocere e far contro di voi — diceva più oltre Francesco Sforza —. Sicché, ricevuta questa, vogliate dar licenza a tutti e a ciascun officiale che si trovasse all’obbedienza del detto Eugenio, e non gli dobbiate rispondere di niuna taglia, né d'altra sovvenzione o pagamento per qualunque modo si sia, né gli dobbiate fare altra obbedienza; avvisandovi che, facendo il contrario, si procederà contro di voi, e per ogni denaro che pagherete ve se ne farebbero pagar due... E perché possiate esser più certi della mia buona volontà verso di voi, manderete da noi quattro dei vostri cittadini, coi quali possa più a pieno conferire di quanto sarà di bisogno. E perché costoro possano venire senza alcun sospetto, nonostante che non ve ne fosse di bisogno, più per loro norma, voglio che questa lettera sia a loro ed a chiunque venisse con loro pieno e valido sal­vacondotto di poter venire e tornare senza impaccio, novità, ne altro ostacolo ».
La lettera portava in calce un post datum: «Io vi avverto che ho avuto la città di Jesi con tutto il Contado, Montefilottrano, Staffolo ed altre terre ed ogni dì spero aver delle altre ».
In realtà quando Francesco Sforza aveva scritto quella lettera, non era ancora entrato a Jesi, pur essendo sul punto di occuparla. La nostra città, secondo gli ordini del Vitelleschi, era presidiata da Giosia di Acquaviva, duca di Atri, subentrato al capitano Sancio Cirillo — passato, armi e bagagli, allo Sforza — nel comando delle truppe pontificie.
Il Giosia disponeva di un grosso numero di soldati, ma, sorpreso e spaventato dall'improvviso assalto, cedette Jesi allo Sforza, patteggiò vantaggiosamente per i suoi e si rifugiò a Recanati. Racconta il Grizio che lo Sforza ebbe facile gioco nella conquista di Jesi, perché i nostri concittadini l'intromisero dentro la città e voltarono l'armi contro Giosia; la qual cosa trova spiegazione nell'antipatia che le popolazioni mar­chigiane nutrivano nei confronti del governatore pontificio: troppi motivi di odio aveva cumulato sul suo capo il Vitelleschi.
SIGNORE DI JESI

Francesco Sforza, divenuto Signore di Jesi, ricevé onori, doni e festeggiamenti come amico e liberatore. Dopo tre giorni, lasciata una guarnigione nella nostra città, proseguì la marcia verso il Sud e la sua fu quasi una marcia trionfale, perché i pae­si e le città si sollevarono ovunque, invocando la protezione del nuovo conquistatore: entro la fine del 1433 praticamente tutta la Marca era sotto la Signoria dello Sforza. Il quale si trasferiva poi in Umbria, arrivando, di successo in successo, fin quasi alle porte di Roma.
A questo punto, per evitare il peggio, papa Eugenio IV reputò opportuno scendere a patti con lo Sforza, che nel marzo del 1434 riceveva dal pontefice, con il titolo di marchese a vita, il dominio della Marca e, tra gli altri benefici, anche il comando delle armi pontificie, quale gonfaloniere della Chiesa. Sotto le nuove insegne, si trovò presto a combattere in Umbria e nel Lazio contro Nicolò Fortebraccio, nipote di Braccio da Montone, e Nicolò Piccinino, che Filippo Maria Visconti, invidioso della rapida fortuna del suo ex capitano, gli aveva aizzato contro. Il Fortebraccio venne liquidato subito; infatti, dopo feroce combattimento, fu sconfitto e ucciso. La sua morte segnò la fine delle ostilità. 
Il 28 marzo del 1438 Francesco Sforza concludeva un trattato di pace con il duca di Milano, Filippo Maria Visconti, il quale, ben sapendo quali vantaggi gli sarebbero venuti dalla parentela con lo Sforza ed allo scopo quindi di accattivarsene sempre più l'amicizia, gli promise in sposa l'unica figlia legittima, Maria Bianca. Le nozze vennero fissate per il mese di maggio di quell'anno. In breve sì sparse la voce che gli sposi sarebbero venuti nella Marca in luna di miele. Fu questo l'argomento di tutti i discorsi; ovunque, nella Marca, se ne fecero gazzarre, lumi­narie e falò; ovunque si tennero ad urgenza adunanze consiliari per deliberare circa i festeggiamenti e i doni da fare agli sposi nella loro prossima venuta.
Ma le nozze furono sospese, sia perché il Visconti decise d'un tratto di rimandarle ad altra epoca e sia perché il promesso sposo si era venuto a trovare imbrigliato, nel frattanto, m altre questioni militari. Si recò infatti a combattere in Toscana e nell'Umbria e quindi nel Napoletano contro Giosia di Acquaviva ed il rE Alfonso d'Aragona. Stipulata la pace con quest'ultimo, venne nella Marca per sottomettere alcuni Comuni ribelli e finalmente si ritirò a Jesi, ove giunse il 20 ottobre del 1438 accolto con festeggiamenti e regali. Ed a Jesi egli si fermò per trascorrervi l'inverno. Ripartì dalla nostra città il 7 aprile dell'anno seguente con buona parte delle sue truppe per correre in aiuto dei suoi alleati veneziani.
Intanto era scoppiato il secondo scisma d'occidente: il Concilio di Basilea, convocato contro il volere del papa, aveva dichiarato contumace Eugenio IV, che, a sua volta, aveva dichia­rato sciolto quel Concilio, riconvocandolo a Firenze ; i cardinali dissidenti rimasti a Basilea il 5 giugno del 1439 reagivano, depo­nendo Eugenio IV ed eleggendo in sua vece Amedeo Vili, duca di Savoia ; questi, che aveva abdicato al trono e si era ritirato a vita solitaria di preghiera, prese il titolo di Felice V. Natural­mente Eugenio IV rimase al suo posto; si avranno così, da quel momento, due papi, ma fortunatamente solo per nove an­ni, perché nel 1449 Felice V, per amore della pace e dell'unità della Chiesa, abdicherà.
LE NOZZE CON BIANCA
Nell'ottobre del 1441 Francesco Sforza convolava a nozze con Maria Bianca Visconti, la quale aveva appena sedici anni contro i quaranta dello sposo. Alla cerimonia nuziale, celebrata a Cremona, intervennero anche gentildonne e gentiluomini mar­chigiani. L'arrivo degli sposi nella Marca, però, avvenne soltan­to nel maggio del 1442.
Francesco Sforza, accompagnato dalla consorte e dai suoi più valorosi capitani, fra i quali Sigismondo Malatesta, giunse a Jesi per l'esattezza il 20 maggio. Ma quattro giorni dopo era già sul piede di partenza, avendo progettato di trasferirsi nel Napoletano, ove si trovava il fratello Alessandro, per combat­tere contro Alfonso d'Aragona. E, prevedendo di doversi assentare per parecchio tempo, emanava dalla nostra città un'ordinanza con la quale affidava il governo della Marca alla sua giovanissima consorte.
«Poniamo a capo di tutta la nostra provincia — diceva — l'inclita e l'illustre nostra consorte, Bianca Maria, per le gran­dissime ed ammirabili virtù che l'adornano e le affidiamo tutto il governo della medesima. Perciò ingiungiamo con tutta la possibile premura e diligenza di eseguire persino un cenno della sua volontà con rettitudine e con la massima esattezza e di obbedire e secondare alacremente e premurosamente ogni suo comando... ».
Lo Sforza era appena partito quando gli piovve addosso una serie di brutte notizie: il suocero ed il papa si erano alleati ad Alfonso d'Aragona; Eugenio IV aveva dichiarato lo Sforza ribelle; Nicolò Piccinino stava marciando verso la Marca, con un esercito agguerritissimo, per riconquistarla alla Chiesa. Lo Sforza, sbalordito, ordinò ai suoi di retroce­dere verso Jesi, ove stabilì il suo quartier generale. Quindi, dopo aver fatto partire frettolosamente la sua Bianca per Fer­mo dal momento che la nostra città era divenuta per lei residenza mal sicura, adunò attorno a sé il maggior numero di forze possibili, con le quali partì da Jesi contro il nemico. I due eserciti si scontrarono presso Amandola e, seppure nu­mericamente superiore, il Piccinino fu costretto a subire una pesante sconfitta.
Le cose sembravano volgere dunque a favore dello Sforza; senonché il papa riuscì a convincere Alfonso d'Aragona a spedire nella Marca un forte esercito. La disparità di forze questa volta era troppo accentuata e lo Sforza si rese conto che sarebbe stata pazzia affrontare il nemico in campo aperto; perciò divise le sue schiere e le distribuì sotto i suoi più bravi capitani in quelle località ove era possibile organizzare una lunga resistenza, mentre egli si ritirava a Fano per solle­citare l'invio di truppe da parte dei suoi alleati. A Jesi rimase suo cognato Troilo, a Staffolo Fiesco Girasio, a Massaccio Guglielmo da Baviera, a Fabriano Pietrobrunoro, e così via.
L'esercito di re Alfonso poté tuttavia impadronirsi di buo­na parte della Marca, agevolato dal fatto che molti Comuni, ritenendo ormai lo Sforza in declino, lo avevano abbandonato. E soprattutto perché molti capitani fedeli tradirono lo Sforza, vendendosi al monarca napoletano. Lo stesso Troilo aprì le porte di Jesi all'esercito di Alfonso. E la rocca di Jesi, che era rimasta ciononostante fedele allo Sforza, fu costretta a capito­lare sotto gli assalti della truppa di Pietrobrunoro, anch'egli, come Fiesco Girasio e Guglielmo di Baviera, passato al nemico.
FEDELE ALLO SFORZA
Alfonso d'Aragona, occupata Jesi, si spinse sotto le mura di Fano, ma i suoi tentativi per impadronirsene risultarono vani. Informato poi che erano in arrivo i rinforzi per il suo avversario, preferì togliere il campo e ripartire alla volta di Napoli, portando con sé, in catene, Troilo e Pietrobrunoro i qua­li, sotto l'accusa di tradimento ai danni dell'aragonese (e ciò grazie ad un espediente escogitato dallo stesso Sforza, che aveva così voluto punire due di coloro che gli avevano voltato le spalle), giaceranno nelle prigioni napoletane per dieci anni.
Restavano a contrastare il passo a Francesco Sforza i pontifici capeggiati ancora una volta da Nicolò Piccinino, che dalla battaglia combattuta sul fiume Foglia usciva nuovamente battuto. Deciso a riconquistare tutta la Marca, lo Sforza puntò su Jesi, i a strinse d'assedio e dopo tre giorni la occupò grazie alla collaborazione degli Jesini che, confidatisi nell'appog­gio di lui, ammassando tutto il presidio di Alfonso che era nella città, s'impadronirono per via di una grotta sotterranea della rocca: una nuova prova di fedeltà, dunque, degli Jesini a beneficio dello Sforza, col quale probabilmente si sentivano in dovere di doversi schierare anche per protesta contro Eugenio IV che li aveva «danneggiati» vendendo (1432) per tremila ducati agli Anconetani il castello di Monte S. Vito che era stato degli Jesini.
Il Piccinino, battuto sul Foglia, riorganizzò le file dell'eser­cito con gli aiuti del legato pontificio, cardinale Capranica, ma, prima di scontrarsi di nuovo con lo Sforza, partì per Milano, lasciando il comando al figlio Francesco. Questi, inor­goglito da un successo iniziale, cercò la sua giornata di gloria contro lo Sforza, ma subì una rovinosa disfatta e cadde prigio­niero dopo essersi nascosto fra i giunchi di una palude. Il padre, Nicolò Piccinino, dal  dispiacere  ne morirà di crepacuore.
Quella disfatta coinvolse anche il cardinal Capranica, il quale, mentre fuggiva all'impazzata senza rocchetto e cappello, fu preso, battuto e costretto ad arrendersi, e nulla gli valse il fingersi di essere cappellano del conte Sforza. Dalla parte sforzesca pochi furono i morti, molti i feriti. Anche il conte Francesco fu in grave pericolo, poiché in un momento in cui correndo era rimasto senza elmo, si trovò circondato da una squadra ostile, che avrebbe potuto ucciderlo se non l'avesse rispettato per quella simpatia che godeva anche presso i nemici.
Il 30 settembre di quell'anno lo Sforza sottoscriveva col pontefice una tregua a condizioni quanto meno singolari: egli aveva dodici giorni di tempo per sottomettere i paesi della Marca: allo scadere del dodicesimo giorno ciò che avrebbe conquistato sarebbe stato suo (avrebbe dovuto pagare però tributi e gabelle alla Camera Apostolica); il resto della Marca sarebbe rimasto sotto il controllo diretto dalla Chiesa. Trascorso il termine convenuto, fatta eccezione per Osimo, Recanati e Fabriano, tutta la Marca era di nuovo sotto Francesco Sforza.
ADDIO ALLA MARCA
Normalizzatasi la situazione, lo Sforza e sua moglie Bianca tornarono a Jesi: erano i primi di dicembre del 1444. Ma già agli inizi del nuovo anno altre ostilità si profila vano all'orizzon­te. Sigismondo Malatesta, che gli era stato alleato in tante battaglie, ora gli era contro, perché offeso dalla cessione di Pesaro fatta da Francesco Sforza al fratello Alessandro, a discapito di un fratello del Malatesta. Per di più il papa, Alfonso d'Aragona e Filippo Maria Visconti stavano tramando ai suoi danni. A primavera inoltrata un poderoso schieramento di truppe era in marcia contro lo Sforza; lo comandava lo stesso Sigismondo.
Francesco Sforza, rimasto a Jesi pressoché inoperoso per sei mesi, di fronte alla nuova minaccia, non si scompose e rispose alle armi con le armi. Si trovava a Fermo con i suoi soldati quando gli pervenne la notizia che Roccacontrada (Arcevia) aveva ceduto a Sigismondo Malatesta. Questa perdita era fatale allo Sforza, non solo perché si trattava di un punto stra­tegico e pressoché inespugnabile, ma perché costituiva l’unica comunicazione libera verso Urbino e la Toscana. Lo Sforza mosse subito in soccorso del castellano di Roccacontrada, ma quando fu presso il fiume Esino, nella contrada denominata «passo dell'imperatore», lontano tre miglia a mezzogiorno di Jesi, ebbe notizia che quel castellano l'aveva tradito e aveva consegnato la fortezza al nemico. Lo Sforza ne rimase dolentissimo e indispettito quanto mai.
Fu a questo punto che lo Sforza comprese che la sua Signoria nella Marca era ormai al tramonto. Ovunque le città ed i castelli lo abbandonavano. Ripiegò su Jesi, deciso però a tenere la nostra città ad ogni costo. Fortificò la rocca e la cinse con vari bastioni e cavalieri. Tutt'altro che rassegnato alla sconfitta, allestì un esercito più forte, col quale si portò in Umbria: la occupò e minacciò il Lazio. Il papa, temendo che la vendetta dello Sforza potesse indurlo a tentare addirit­tura un colpo di mano su Roma, invocò l'aiuto di Alfonso d'Aragona. Il re partenopeo dirottò subito contro lo Sforza l'eser­cito dislocato nella Marca. Ma non vi fu scontro. Lo Sforza, a corto di vettovaglie, ripiegò su Fano, mentre le truppe papa­line, occupata Ancona, muovevano su Jesi.
La nostra città venne assediata ai primi di luglio. Il cardi­nale Capranica, tornato a comandare le milizie pontificie, tuttavia non riuscì ad espugnarla, quantunque ingagliardito dalle compagnie del Furiano, reduce dall'Umbria, e più tardi da quelle del viceré degli Abruzzi, spedito in aiuto del pontefice da re Alfonso.
Intanto era scoppiata la peste, che per più di tre mesi seminò vittime e miseria, riducendo le popolazioni in pietose condizioni. Anche la nostra città ebbe a soffrirne. L’8 febbraio del 1447 Gaspare da Lodi, che lo Sforza (recatesi a Pesaro) aveva lasciato a Jesi quale luogotenente, così gli scriveva: «Questo popolo non ha più da vivere e già sono partite tre famiglie per fame; i soldati, malcontenti di certo, fanno delle cose disone­ste assai. Io ci rimedio quanto posso. E vedo chiarissimamente che, non provvedendo la S. V. subito di vettovaglie e a questi soldati di denari, voi perderete la rocca, la terra e la gente ad un tratto... Cristoforo da Cremona volle battere ieri sera il podestà, perché non ebbe sì presto le legna per la guardia... ».
A Pesaro Francesco Sforza apprese che Eugenio IV era morto il 23 febbraio (gli succederà il 5 marzo Nicolò V). La morte di Eugenio IV fece mutare completamente i suoi atteggiamenti verso la Chiesa: «È nostra intenzione — scriveva agli Jesini il 1° marzo — non essere più in cosa alcuna contro la Santa Chiesa, ma esser suo buon figliolo e servitore, e quello che abbiamo fatto fino adesso contro la Chiesa è stato contro nostra volontà, perché, essendo già per cinque anni assaliti ed aspramente offesi dalla buona memoria di papa Eugenio, ne è stato necessario difenderci... ».
Durante la sua permanenza a Pesaro, lo Sforza aveva rice­vuto nel frattempo lettere ed ambasciatori da parte del suoce­ro, il quale, minacciato dai suoi nemici, gli faceva la descrizio­ne di tutte le proprie disgrazie fisiche, morali, domestiche, militari e politiche; lo pregava si muovesse a pietà di un infelice suocero, dì un derelitto cieco, dì un povero moribon­do, promettendo solennemente al conte dì nominarlo suo erede e successore nel principato di Milano. Contemporaneamente la moglie Bianca, piangendo, scongiurava Francesco a perdonare suo padre ed aiutarlo.
Lo Sforza, dopo tante insistenze e preghiere, finì col dirsi disposto ad abbandonare la Marca per trasferirsi defini­tivamente a Milano. Tutto avrebbe lasciato, però, meno che la Signoria sulla città di Jesi. A questo scopo, inviò a Roma il fratello Alessandro affinché patrocinasse la sua richiesta presso il pontefice e il re Alfonso, poi raggiunse la nostra città. Qui giunto verso la fine dell'aprile del 1447, trovò questa città in grande trepidazione e trambusto per le voci che correvano circa la sua concessione al pontefice.
SOLTANTO JESI
Da Jesi, lo Sforza scrisse due lettere, una ad Alfonso d'Aragona e l'altra agli ambasciatori del duca di Milano a Roma: «Qui a Jesi — diceva nella seconda — son venuto con circa venti cavalli disarmati ; il mio venire era più che necessario, perché questi uomini erano in disperazione per quello che questi della Chiesa hanno detto e divulgato che io rendeva questa terra alla Chiesa... E se io non veniva, di certo che saria qui seguito qualche inconveniente, perché questi uomini, dicono, avevano deliberato prima lasciare la terra e bruciarla e venire da me dove io era, o andare ad abitare altrove, anziché ritornare sotto la Chiesa».
La risposta che gli pervenne non fu certo quella che si aspettava: «La maestà del re si rimette alla deliberazione del papa: il papa risponde che al signor Duca fidarìa non solo Jesi ma anche tutta la Marca; non delibera (però) di consenti­re, perché gli parerìa fare contro coscienza; dice anche che l'opinione sua è stata che Jesi dovesse essere posta nelle mani del cardinal di Fermo (il Capranica)...».
A metà giugno lo Sforza riceveva poi una lettera di un suo grande amico, Nicolò Guarna, il quale lo metteva al corrente delle difficoltà militari in cui si dibatteva Filippo Maria Visconti consigliandone a smettere ogni idea di ottenere Jesi in vicaria­to, essendone il papa contrarissimo e di non poter contare perciò nell'appoggio di re Alfonso e dei suoi alleati; interpre­tando anche il parere del Visconti, il Guarna aggiungeva al riguardo che sarebbe stato assai meglio per lui cedere al pontefice la suddetta città dietro forte corrispettivo, che potreb­be elevarsi anche a 35 mila ducati; concludeva che, se avesse tardato ad abbracciare questo consiglio, avrebbe fatto il gioco dei suoi nemici, i Bracceschi, che non ristavano dall’arrabattarsi contro di lui presso i Visconti.
Fu allora che Francesco Sforza incaricò il cugino Marco Attendolo da Cotignola di trattare la cessione di Jesi. «Promet­terai la libera cessione di Jesi nelle mani di sua Maestà — gli disse — ma aggiungerai che il mio onore richiede che questa sia fatta quindici giorni dopo la mia partenza dalla Marca. Fatti dare in iscritto la promessa, una dal papa ed una dal re, che nulla verrà innovato di quanto ho concesso agli Jesini, che sono stati e dimostrati amici miei. Fatti pagare in corri­spettivo della cessione di Jesi 35 mila ducati».
Alla fine di luglio tutte le difficoltà erano appianate. Quando giunse il momento della cessione di Jesi, pianse il cuore allo Sforza, perché gli era noto di ciò che era costretto a fare contro la voglia dei cittadini che infiniti affanni per lui avevano sopportato. Gli accordi erano che la nostra città sarebbe stata ceduta al papa tramite un commissario di Alfon­so d'Aragona. Questi il 4 agosto inviò a Jesi Giovanni de Canesiis; da parte sua, lo Sforza, che si trovava a Pesaro, inviò Marco Attendolo.
Narra il Benadduci: «La consegna fu effettuata con tutte le formalità e solennità richieste: i soldati sforzeschi, che era­no di guardia nella città e nella rocca, nello Staffolo e nelle castella del distretto jesino, ne partirono e ripiegarono verso Pesaro, ove si riunirono ai loro compagni d'arme. Giovanni de Canesiis prese a governare per Alfonso d'Aragona e suo primo intento fu quello di ottenere la pacificazione degli ani­mi. Fece perciò convocare dal podestà Michele, conte di Casalecchio, un Consiglio, che fu tenuto agli 8 agosto e vi si trattò la surrogazione dei consiglieri mancanti e la concordia e la pace da farsi tra tutti i cittadini, specialmente con quelli che, per ordine dello Sforza, erano tuttora fuorusciti. Il commis­sario Giovanni de Canesiis propose che a suggellare la pace dovesse farsi un banchetto popolare e la proposta fu ad unanimità approvata».
Nei giorni che seguirono, il governo della città passò dagli aragonesi alla Chiesa; in tutta la Marca furono fatte luminarie e falò per la cessione di Jesi. «La Signoria di Fran­cesco Sforza nella Marca, che aveva avuto inizio col possesso di Jesi — commenta il Benadduci — cessò definitivamente con la cessione della stessa città. Il duca Filippo Maria, che nel 1433 aveva istigato e favorito il conte Francesco a togliere la Marca al pontefice, in quest'anno 1447 lo indusse e persuase a restituire il poco rimastogli».

Incassati i 35 mila ducati, lo Sforza con sua moglie Bianca, scortati da quattromila cavalieri e duemila fanti, il 9 agosto lasciava Pesaro e la Marca, dopo aver dato un saluto a quest'ultima, ove lasciava di sé tante memorie ed affetti. A Milano finirà per diventare duca di quel principato e fondarvi una dinastia.

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