GLI STATUTI
Terminata l'avventura marchigiana di Francesco Sforza,
la nostra città si ritrovò di nuovo in preda alle lotte intestine. Alle antiche
rivalità tra guelfi e ghibellini, si aggiunsero quelle tra «sforzeschi» e
«bracceschi», sostenitori i primi dello Sforza ed i secondi di Nicolò Fortebraccio.
Per porre termine a queste lotte, il consiglio generale della città, nei mesi
di agosto e settembre del 1447, votò una serie di delibere, con le quali si
faceva obbligo a tutti gli abitanti di giurare ogni anno piena devozione alla
Chiesa; inoltre ogni cittadino era tenuto a far precetto nel suo testamento
che i figlioli e gli eredi, pena la maledizione, persistessero sempre
nella vera obbedienza e fedeltà della Chiesa stessa. Ed era severamente
proibito dichiararsi partigiano di questa o di quella fazione; si poteva incorrere
in gravi punizioni soltanto a nominare guelfi, ghibellini, sforzeschi, ecc.
Il
26 febbraio dell'anno successivo il consiglio generale decise di compilare e
definire i nuovi statuti della città e del contado. L'incarico, come si è accennato
in precedenza, venne affidato a due jesini e a due contadisti: Angelo Colocci e
Antonio di Angelo, in rappresentanza della nostra città, Stefano Onofri da
Cupramontana e Domenico di Bartolomeo da Castelplanio per il Contado. Alla
stesura collaborò anche un frate, Domenico da Leonessa, che si trovava a Jesi
per un ciclo di predicazioni. Quegli statuti, considerati rispetto ai tempi,
sono un perfetto codice religioso, civile, criminale e politico. In essi si
viene alle più minute particolarità delle cose, non trascurandosi neppure la
pesca, la coltivazione degli olivi, degli orti e stabilendo anche la misura dei
mattoni e dei coppi, la forma dei quali si vede ancora scolpita nel muro del
nostro Palazzo (della Signoria).
«L'opera
degli Statuti jesini — scrive il Colini — si divide in sei libri. Il primo
libro tratta completamente dell'elezione di tutti i magistrati ed ufficiali
minori. Ivi sono stabilite le feste da celebrarsi annualmente nel Comune e la
maniera di convocare e dirigere i Consigli generali e quelli così detti di
Credenza. Chi mancava a quelle riunioni doveva subire la pena di una multa. I
diligenti e gli assidui ricevevano un premio.»
«II
secondo libro contiene 107 rubriche con le quali viene regolata
l'amministrazione della giustizia, tanto per le cause civili quanto per le
criminali. In questa parte sono anche designate la attribuzioni del podestà e
del vicario nelle cause civili, dei contratti di compra-vendita, di prestito,
di restituzione e della maniera di costituire ipoteche. Vi si parla delle doti
alle donne che vanno a marito, della successione dei figli ai genitori, della moglie al marito, del modo di fare gli inventari nelle successioni, dei
contratti fatti dalle donne e dei debiti che esse potevano aver fatti prima del
matrimonio...»
«II
terzo libro, colle sue rubriche, provvede alla sicurezza interna della città.
Descrive i delitti contro la proprietà pubblica e privata che dovevano essere
puniti. Non mancano le pene per coloro i quali usano cattivi trattamenti alle
bestie e rompono i nidi degli uccelli. Prevenendo il caso della esistenza dei
banditi nel territorio del Comune, sono stabilite le taglie da elargirsi a chi
li arresta o li uccide. I genitori possono impunemente percuotere i propri
figli…»
Erano
severamente puniti coloro che prendevano falso nome, che cospiravano a danno
del Comune e che osavano esporre il vessillo comunale in tempo di sommossa.
Nessuno poteva abbandonare la città in tempo di guerra. Il venerdì santo era il
giorno stabilito in cui i carcerati venivano lasciati in libertà.
«II
libro quarto comprende le leggi sulla pulizia urbana e rurale.»
Era
proibito il gioco delle piastrelle nelle piazze e nelle strade. Non si poteva
lanciare pietre, palaferri e lance, né gettare pallottole e frecce con arco e
balestra. Non si permetteva neppure il gioco o qualunque altro di dadi (nel
medioevo i giochi principali, non solo a Jesi, erano due: quello dei dadi
e l'altro delle tavole; il primo era detto gioco «a zara», chiamato poi
gioco d'azzardo: si giocava con tre dadi; il giocatore che otteneva il punto
gridava «azar!»; nel gioco delle tavole si adoperavano le pedine, che talvolta
erano anche dadi, e le scacchiere; il gioco dei dadi, che in molte altre parti
d'Italia era permesso a Natale, da noi era sempre proibito).
«II
libro quinto tratta delle pene contro coloro che arrecano danni ai proprietari
dei campi coltivati e ai prodotti agricoli.»
Veniva
inflitta una doppia pena a chi faceva questi danni di notte. Il giudice doveva
essere nato e dimorante in luogo almeno lontano trenta miglia da quello ove
esercitava la sua giurisdizione. Egli comminava pene soltanto pecuniarie. Il
potere del giudice era di grande importanza: sulle sue proposte deliberava
quella riunione di duecento capi di famiglia scelti dal Consiglio tra i
migliori e più ricchi della città.
«Nel
sesto libro si parla dell'ufficio e giurisdizione del giudice di appello, del
modo come questo deve esser fatto ed i casi nei quali non è lecito appellarsi».
Sempre per il quieto vivere, in data 14 gennaio 1453
il Consiglio generale emanava nuove disposizioni, suggerite queste da un certo
frate Giovanni, dell'ordine dei Minori, che era venuto a Jesi per appianare
talune divergenze sorte con il contado. Il Gianandrea ne ricorda alcune: «a)
che ogni operaio e artigiano sia obbligato di osservare tutte le feste
comandate dalla Chiesa dalle ore 24 della vigilia, eccetto gli speziali, i
flebotomi e i ferratori di cavalli; b) che nessuna donna osi portare vesti con
divise e frappe, e che delle vesti non si trascini per terra oltre un terzo
del braccio: pena dieci ducati da infliggersi anche ai sarti; c) che nessuno
osi trasformarsi o mascherarsi: pena undici fiorini; d) che si faccia un bussolo
donde estrarre al principio d'ogni reggimento di nuovo podestà due
cittadini, che col podestà stesso compongano ogni controversia tra città e
Contado con pieni poteri ».
ANCORA IL
PICCININO
Effettivamente i provvedimenti presi dal governo
jesino ottennero lo scopo di tenere a freno, per qualche tempo almeno, le
velleità dei partigiani delle varie correnti politiche dell'epoca. Ma non v'era
pace, per la città, sulla quale gravavano nuove nubi. Dopo la partenza di
Francesco Sforza, s'era dovuto far fronte ad alcune scorrerie di Albanesi, che
minacciavano le contrade del Contado; poi, nel 1450, c'era stato l'arrivo di
Giovanni Piccinino al comando di un forte esercito, spedito a guardia di Jesi
dal pontefice Nicolò V per tema dei Senesi, Fiorentini e Veneziani che
guerreggiavano tra di loro. Gli Jesini, ritenendo che si trattasse di un
pretesto per assegnare al Piccinino la signoria della nostra città, si erano
allarmati ed avevano costretto il magistrato, sotto la minaccia di una
sollevazione popolare, a chiedere al papa lo sgombero della città da parte
delle truppe del Piccinino.
Per
rivolgersi al papa era stato deputato in quella occasione Ser Ugolino Salvoni,
procuratore jesino presso la curia romana. Con Breve del 1° luglio del 1450, Nicolò V aveva chiarito che il
Piccinino era a Jesi per vigilare non solo sulla nostra città, ma su tutta la
provincia. Tuttavia, poiché i Nostri erano rimasti diffidenti, alla fine il
papa aveva ordinato che il Piccinino alloggiasse
con le sue genti alla campagna.
Poi
era scoppiata una nuova lite con gli Anconetani; pomo della discordia, questa
volta, il possesso di Chiaravalle. «Sembra — scrive il Gianandrea — che la
discordia avesse origine per un mutamento d'alveo avvenuto nel nostro fiume sul
principio dei secolo XV; onde un buon tratto di terra spettante alla badia
restò fuori, di verso Ancona, del confine naturale tra essa e Jesi». La
questione avrebbe potuto essere risolta senza eccessive difficoltà,
trattandosi, tutto sommato, di una piccola fascia di terra; ma ormai un
profondo astio divideva le due popolazioni ed ogni piccola divergenza assumeva
dimensioni macroscopiche fino a trasformarsi in un grosso «affare di stato».
Le
due città, quindi, erano di continuo su l’armi; quelli (gli Anconetani) facevano
vari ordini e leggi contro i nostri cittadini; i Nostri, incrudelendo anche
contro quelli che entravano nel loro territorio senza salvacondotto, contro di
loro. Per oltre tre secoli Jesini e Anconetani si guardarono in cagnesco,
dando luogo a contrasti e rappresaglie senza numero: cause di lunga durata,
promosse e agitate da entrambe le parti innanzi ai luogotenenti e vicari
provinciali e innanzi la Curia romana; ma qualsiasi tentativo di
pacificazione o di comporre amichevolmente le molte vertenze fallivano sul
nascere o non andavano quasi mai a buon fine; cosicché non di rado le liti
sfociavano in terribili assalti e guerre sanguinose. Dal canto loro, i
luogotenenti, i vicari e la stessa Curia romana, nel tentativo di sanare le
frequenti dispute, ripiegavano spesso e volentieri su minacce o scomuniche o
interdetti che tornavano quasi sempre a nostro danno. «I documenti relativi a
tutto questo — osserva il Gianandrea — nel nostro archivio (comunale) sono in
numero veramente strabocchevole».
Abbiamo
rievocato, nel nono capitolo di questa «storia», la dura battaglia che gli
Jesini vinsero a Camerata nel 1309. Si è fatto cenno più volte anche alle
annose dispute fra Jesini e Anconetani per il possesso di Monte S. Vito e della
rocca di Fiumesino (Rocca Priora). Un altro gravissimo soggetto di contesa
fu il passaggio libero al mare tra la foce dell'Esino e il villaggio delle
Case Bruciate, che i Nostri pretendevano e che gli Anconetani impedivano.
Fra i tanti, un ennesimo elemento di disputa è
ricordato dallo stesso Gianandrea: «18 giugno 1451: è riferito in Consiglio di
credenza che gli Anconetani hanno fatta una chiusa per deviare le acque del
fiume; si delibera che si mandi subito a guastarla»: quasi dei dispettucci fra
ragazzi che provano gusto a danneggiarsi.
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