SOTTO I MALATESTA
Eliminato il suo più forte rivale, il Boscareto ebbe via libera e poté assumere, per conto e con la protezione del Bavaro, il titolo di vicario di Jesi. Con crudeltà barbara, continuò a tagliare la testa a coloro che avevano seguito la fazione guelfa e li ammazzava talvolta con crudeli e durissime morti, sperando, una volta annientata la parte avversaria, di farsi nominare signore assoluto della città.
Furono
anni terribili, non solo per la nostra città, dice il Grizio. In campo
nazionale, il papa ed il Bavaro erano in lite continua; in campo locale, nella
Marca d'Ancona e nella stessa Vallesina, ognuno, per piccolo signore che
fosse, si sforzava rubare le cose altrui sema alcuna vergogna; e or questo e or
quello si aggrediva e, secondo che cambiava la fortuna, or altri nominava le
loro ville dalla loro fazione «guelfe», or altri dalla loro «ghibelline».
Fu questo il caso, molto presumibilmente, di Castelbellino (=Castel Ghibellino),
dove la fazione ghibellina avrebbe prevalso su quella guelfa.
Si che, essendo
in scompiglio le cose sacre e profane, si combatteva talora in tutte le
contrade della nostra città, che con catene grosse di ferro si chiudevano con
grandissima ira e rabbia, e scorrevasi per i villaggi in modo che gli alberi,
le viti e le case restavano dalla crudeltà dei guelfi e dei ghibellini
tagliati, bruciati e spianate, di sorte che non vi conoscevano alle volte le
vestigio. La qual cosa capitò, ad esempio, a Boccaleone, Castel Montano e
alla Villa Tessenaria. E, quel che è peggio, la parte vincitrice non
permetteva che i vinti riedificassero i luoghi minati, anche quando avevano
ceduto.
Fortunatamente il dispotismo del conte di Boscareto
sulla nostra città non ebbe lunga vita. Cinque anni dopo la decapitazione di
Tano Baligani, Jesi e le altre città della Marca non erano più in mano dei
ghibellini, essendo tornate all'ob-bedienza del pontefice. Nel 1333, sicché,
nella Jesi guelfa non doveva esserci più posto per il Boscareto; a meno che
questi, per conservare la Signoria, non si fosse convertito nel frattempo al
guelfismo per conservare il posto nella magistratura jesina. Questa ipotesi
potrebbe trovare conferma in un fatto d'armi del 1337, precisamente
nell'assedio di Osimo ad opera degli Anconetani, a fianco dei quali ed insieme
ad altri condottieri di parte guelfa, viene citato anche Nicolo di Boscareto.
Il
conte Bisaccioni in ogni caso nel 1342 era più che mai ghibellino, altrimenti
non sarebbe stato nominato, come in effetti fu, dal Bavaro fra i vicari eletti
nelle città della Marca in quello stesso anno e non avrebbe potuto, sempre nel
1342, riacquistare la Signoria della nostra città Ma gli Jesini erano ormai
stanchi di lui e dopo appena qualche mese cacciarono da Jesi a furor di popolo
per la sua crudeltà.
Boscareto
riparò nei suoi domini di Montenovo, Corinaldo e, appunto, Boscareto (dal 1343
al 1345 sarà podestà di Serra de' Conti).
La
rivolta contro Nicolo Bisaccioni era stata capeggiata da Lomo di Rinaldo
Simonetti, meglio conosciuto a quel tempo come Lomo di Santa Maria. Era anche
questi un capitano arditissimo e si era distinto l'anno prima quando,
assalito dai guelfi comandati dal rettore della Marca Dalmaziano da Quagliano,
aveva sconfitto sui piani di S. Lorenzo in Campo un nemico molto superiore. A
Lomo di Santa Maria venne affidata la Signoria di Jesi.
I MALATESTA
Nel 1347, come se non bastassero le beghe politiche e
le guerre con il vicinato, anche Jesi dovette subire il grave disturbo
arrecato dal passaggio delle truppe di Luigi d'Ungheria, che se ne andavano per
le nostre terre alla conquista del regno di Napoli. Poi, un anno più tardi,
facevano il loro ingresso nella Marca d'Ancona, per occuparla quasi del tutto,
Galeotto e Malatesta dei Malatesta, signori di Rimini. Jesi, durante il loro
dominio, dovette subire due invasioni, nel 1353 la prima e nel 1354 la seconda.
Anche i nuovi invasori — che, per quel che ci riguarda, erano guidati da un
altro famoso capitano di ventura. Fra Mortale — fecero i soliti molti danni
alle persone e al paese.
Per mettere fine a tanto disordine, il nuovo papa.
Innocenzo VI, nominava suo legato in Italia e vicario generale dello Stato
pontifico, con l'incarico di riconquistarlo all'autorità della Chiesa, il
cardinale Egidio Albornoz. Questi inviò nella Marca, come rettore, il nipote
Blasco Ivanez di Belviso con un esercito comandato da Rodolfo da Camerino, il
quale si impadronì subito di Fermo, mentre Recanati si ribellava ai Malatesta.
Poi i Malatesta subivano una pesante sconfitta presso Ancona, a Paterno; a
questa battaglia, nella quale rimase ferito e prigioniero lo stesso Galeotto
Malatesta, prese parte anche il Boscareto: secondo il Natalucci, era fra i
capitani al servizio del rettore pontificio, mentre per il Gianandrea era
allineato con le milizie malatestiane.
Il rovescio toccato ai Malatesta li convinse a
chiedere la pace; cosiché quasi tutte le città della Marca ora erano di nuovo
sotto il dominio della Chiesa. Il ritorno di Jesi alla Chiesa avvenne senso
contrasto e solo per effetto della disfatta che ebbe a soffrire Galeotto
Malatesta. Soltanto il Sepulveda, storico della guerra fatta in Italia
dall'Albornoz, sostiene che Jesi fu espugnata da Blasco Fernandez de
Belviso.
LE
COSTITUZIONI
Seguirono alcuni anni di relativa tranquillità;
relativa, perché c'era sempre qualche grana pronta a turbare la quiete dei
governatori jesini. Nel 1355, ad esempio, i castelli di Massaccio e Monsanvito
tentavano di sottrarsi al dominio di Jesi; ma il rettore della Marca li
costringeva all'obbedienza, sotto la pena di mille fiorini d'oro.
Contemporaneamente venivano sollevate dalle rovine San Marcelle, Belvedere,
Morrò ed altri castelli mandandovi ad abitare le famiglie dei popolani accresciute
nella città.
La calma di quegli anni permise all'Albornoz di
riorganizzare le terre dello Stato pontificio. Nella «Descriptio Marchiae»
egli fissò i limiti giurisdizionali di ciascuna città, terra o castello e
il censo annuale che doveva essere pagato alla S. Sede. Quindi compilò le
«Costituzioni», che regolavano tutto lo Stato ed in base alle quali nei
singoli Comuni gli statuti locali in tanto avevano vigore in quanto
rispettavano i principi della legislazione ecclesiastica. Tutto, insomma,
sembrava volgere per il meglio, anche perché nell'aprile del 1357 a Fano, nella
casa di Galeotto Malatesta, rettori, vescovi, gonfalonieri, sindaci e
personalità delle diverse città della Marca dichiaravano di accettare le nuove
leggi.
Ci fu, in realtà, una parentesi alla tregua nel 1360,
quando i castelli di Corinaldo, Montebove e Boscareto si ribellarono,
coinvolgendo nella rivolta anche il Montefeltro, Jesi, Ascoli e F'ermo, in
odio anche al rettore della provincia, che era allora li perfido Giovanni da
Oleggio, ma la sommossa venne presto soffocata da Galeotto Malatesta che
operava agli ordini dell’Albornoz.
Il «perfido» Giovanni da Oleggio il 3 dicembre del
1363 ratificava gli Statuti jesini redatti dal notaio Sante Colocci; tali
statuti (più precisamente, si trattava di un aggiornamento di quelli elaborati
nella nostra città nella terza decade del 1200) erano contenuti in cinque carte
bombicine; purtroppo non se ne ha più alcuna traccia.
ANCORA
DISORDINI
II 30 aprile del 1367, a bordo di una galea
anconetana, papa Urbano V abbandonava la sede di Avignone e tornava in Italia.
A Viterbo, ove si erano recati a rendergli omaggio gli ambasciatori di tutto
lo Stato pontificio, il cardinale Albornoz gli consegnava un carro pieno di
tutte le chiavi della città e castelli da lui sottomessi. Tré anni dopo,
però, il papa tornava ad Avignone a causa di nuovi disordini in Italia, questa
volta dovuti ad una acuta lotta fra la Chiesa ed i Visconti.
In
quel periodo non poche città della Marca si sollevarono ed anche Jesi
evidentemente ne fu coinvolta se nel 1371, per mezzo di D. Gerardo, legato
apostolico nella Marca, gli Jesini ottenevano l'amnistia dal nuovo papa
Gregorio XI, e se nel 1374 ancora gli Jesini, caduti in altri demeriti, per
confisca perdettero i beni ed i privilegi (tuttavia la mediazione dello
stesso D. Gerardo ed il pagamento di quattrocento fiorini d'oro permetteranno
agli Jesini di essere reintegrati negli uni e negli altri), e se, nel 1377,
Gregorio XI, che era tornato a Roma da Avignone due anni prima, dava al Comune
di Ancona, in premio della fedeltà, la giurisdizione sui castelli di
Monsanvito e dell'Albarello, tolti al Comune di Jesi.
Nuovi
disordini e nuove lotte si ebbero ancora dopo la morte di Gregorio XI. A questi
era succeduto Urbano VI, il quale, seppure eletto dai cardinali francesi e
italiani, non era stato poi riconosciuto dai primi, che avevano eletto un altro
pontefice, Clemente VII. Per conto deir« antipapa », nel 1382 entravano in
Italia le truppe collegate di Luigi d'Angiò e di Amedeo VI di Savoia, detto il
Conteverde.
Le milizie di Luigi d'Angiò fecero il loro ingresso
anche nella Marca, ma non trovarono l'accoglienza sperata. Al loro passaggio,
città e fortezze restavano ermeticamente chiuse e pertanto le truppe angioine,
per sfamarsi, si diedero a saccheggiare le campagne. Accampatesi presso
Fiumesino, si impossessarono con uno stratagemma della munitissima rocca di S.
Cataldo, in Ancona; vi lasciarono una guarnigione per presidiarla e
proseguirono verso il Sud. Gli Anconetani, decisissimi a riconquistare la loro
rocca, chiesero aiuto a Galeotto Matatesta e a Rodolfo Varano: scelsero
come capitano Giacomo di Cecco degli Ottoni da Norcia; ottennero contingenti di
uomini da Fermo (200 fanti circa), da Cingoli (150 fanti), da Jesi (75
cavalieri), da Montalboddo (2 uomini a cavallo e 25 a piedi), da Osimo (50
fanti), da Roccacontrada (27 fanti). Aiuti di fanti e cavalieri vennero anche
da Off agno e Sasso ferrato. Galeotto Malatesta inviò il figliolo Mammolino con
150 cavalieri, 50 fanti e 50 lavoratori, muniti di zappe, vanghe ed altri
arnesi da scavo. Intervenne anche Sforza, figlio di Nicola da Boscareto, che
era stato prigioniero in quella rocca, con buon nerbo di truppe.
Dopo un assedio, aspramente combattuto e protrattosi
per ben tré mesi, finalmente la rocca di S. Cataldo venne riconquistata. Ma molti
valorosi cittadini e soldati delle truppe alleate erano caduti sotto la
pioggia di pietre e di altri micidiali arnesi lanciati loro contro dagli
assediati.
GUELFI E
GHIBELLINI
L'ultimo scorcio del XIV secolo registrò ancora
qualche scaramuccia tra guelfi e ghibellini, i quali, nonostante le delusioni
patite ed il sangue versato, non sembravano del tutto rassegnati a rinunciare
alle velleità di riscossa, gli uni e gli altri vagheggiando ancora di poter
affermare definitivamente il trionfo dell'idea propugnata. E poiché i guelfi
stavano facendosi in quattro per mettere in piedi un grosso esercito da
inviare contro i ghibellini, questi ultimi, per far fronte alla minaccia, nel
1390 si confederarono coi maggiori potentati d'Italia e con le città ed
i castelli vicini che seguivano la parte ghibellina.
Ma
non ci fu guerra, questa volta, stando almeno alle notizie che abbiamo su
quegli anni. Il mancato conflitto fu dovuto molto probabilmente all'equilibrio
di forze che si era determinato fra le opposte fazioni. Sappiamo per certo, in
ogni caso, che Jesi, tornata nel 1393 all'obbedienza della Chiesa
insieme alle città di Camerino e Fabriano, il 24
giugno dell'anno successivo era presente con i suoi delegati al tavolo della
pace di Castelfidardo. Non sempre è facile, per taluni periodi della nostra
storia, movimentata ed imprevedibile, trovare un senso logico in certi episodi
o in determinate alleanze. Nella pace che i Nostri sottoscrissero in suolo
fidardense troviamo allineati da una parte Jesi, Ancona, Cingoli, Camerino e
qualche altro; dall'altra i Malatesta, Signori di Rimini, ed i loro alleati di
Osimo, Castelfidardo, Fermo, Staffolo, Filottrano, Offagna, Montelupone,
Montefano ed altri ancora.
LA CACCIATA
DEI SIMONETTI
Con doni e vezsi, riuscì ad accattivarsi
rapidamente la simpatia della popolazione, tanto che gli Jesini, come egli
aveva previsto, lo vollero al governo della città. Il Simonetti, grazie al loro
interessamento, riuscì ad ottenere da papa Boni-facio IX non solo il titolo di
vicario di Jesi, ma anche diversi privilegi.
Una volta raggiunto lo scopo, però, il savoir faire
del Simonetti andò a farsi benedire. Il nostro uomo, ritenendosi ormai
inamovibile ed inattaccabile, mutò recisamente politica nei confronti dei suoi
concittadini e dai doni e dai veszi passò al dispotismo e alle
vessazioni. Gli Jesini, superato il primo disorientamento, modificarono a loro
volta atteggiamento verso il nuovo Signore della città. E, rasisi conto che
costui aspirava ambiziosamente all'odioso nome di tiranno, pigliarono Farmi
e lo scacciarono da questa città insieme con tutti quelli della sua famiglia.
La rivolta contro i Simonetti scoppiò nel febbraio del
1408. I Simonetti, che avevano trovato rifugio non molto lontano da Jesi, non
si diedero per vinti e cercarono con ogni mezzo di rientrare in città. Per
farla finita, allora, la popolazione ricorse ad una soluzione più ampia e
drastica: scacciò da Jesi tutti coloro che erano imparentati ai Simonetti.
Soltanto ad uno, della famiglia, fu consentito di rimanere m città, ma a prezzo
di dure condizioni; fra queste, quella di cambiare il proprio cognome. E
difatti il Simonetti superstite da quel giorno prese la denominazione del
castellare detto la Castagna, di quel castello cioè che, in via del tutto
eccezionale, gli era stato lasciato (ma forse non gli era stato tolto perché
già devastato dalle truppe di quel Braccio da Montone di cui parleremo fra
poco).
A
convalida dell'azione degli Jesini, seppure condotta alla maniera forte,
Gregorio XII il 4 maggio del 1408 revocava al Simonetti il titolo di vicario
di Jesi concessogli in precedenza da Bonifacio IX; al tempo stesso condonava
agli Jesini che avevano partecipato alla rivolta tutte le condanne e le pene
nelle quali erano incorsi; infine autorizzava gli stessi Jesini a rientrare in
possesso di quei beni — molini, terre, case e poderi — che il Simonetti aveva
fatti suoi illecitamente. Tutti gli altri beni di proprietà della famiglia
Simonetti vennero confiscati e trasferiti alla Camera Apostolica (la quale li
riterrà fino al 1452, anno in cui Nicolo V, per far fronte agli impegni
della stessa Camera, li venderà alla città di Jesi, insieme a quelli del Boscareto,
pel prezzo di 2.300 fiorini).
BRACCIO DA
MONTONE
Ma evidentemente non v'era tregua per gli Jesini. I
Simonetti erano appena stati cacciati dalla nostra città che, a distanza di
pochi mesi, nello stesso anno, vi giungeva il più terribile e audace
condottiero del tempo, Braccio Fortebraccio detto Braccio da Montone,
condottiero e Signore di Perugia. Braccio era giunto nella Marca d'Ancona
dall'Umbria in soccorso dei castellani di Roccacontrada (Arcevia) per liberarli
dal lungo assedio postovi dalle truppe del rettore della Marca, al quale si
erano ribellati. Ma Fortebraccio, non appena liberata Roccacontrada, anziché
tornare nella sua Perugia, sullo slancio di quella vittoria era dilagato
verso l'Adriatico, conquistando e sottomettendo nuove terre, fermamente deciso
a crearsi anche nella Marca d'Ancona una propria Signoria.
Contro di lui inviò un esercito di
seimila uomini, comandati dal conte di Troia, il re Ladislao di Napoli.
Fortebraccio si preparò a resistergli e, a questo scopo, non trovò trincea migliore
delle mura della nostra città. Gli assalti dei Napoletani risultarono vani e,
dopo un assedio di breve durata, le truppe di Ladislao — non si sa se perché
messe in fuga da una sortita degli uomini di Braccio o se perché rinunciatarie
— abbandonarono il campo, lasciando a Fortebraccio piena libertà dazione
nella nostra zona.
Braccio
da Montone, che ormai si era stabilmente acquartierato nella nostra città, ora
muoveva sempra da qui per le sue nuove battaglie. Nel 1409, con le forse di Jesi,
fu all'assedio di Apiro in aiuto di Giovanni Cima da Cingoli contro Onofrio
Smeducci da S. S everino. In seguito egli lasciò la nostra città,
vendendola o cedendola in pegno a Carlo Malatesta, ripromettendosi però di
tornarvi presto. Ed infatti qualche anno più tardi e precisamente nel 1420 era
di nuovo a Jesi, con tutta la sua autorità e questa volta anche con il consenso
di papa Martino V: un ritorno definitivo; infatti Braccio da Montone rimase
nella nostra città fino alla sua morte, avvenuta nel 1424 (aveva 56 anni).
IL CORPO DI
SAN FLORIANO
Nel periodo in cui Jesi era sotto la
Signoria di Malatesta dei Malatesta (figlio di quel Carlo Malatesta di cui
abbiamo detto poco più sopra), in una ripa del fiume Esino venne ritrovato il
corpo di S. Floriano. Era l'anno 1411. Il ritrovamento fece molto «notizia» e
suscitò grande commozione nella popolazione. Scrive il Grizio: «Fu con gran
pompa e solennità (il corpo) portato dentro la città e posto in una sontuosa
arca di marmo nella chiesa detta allora di S. Giorgio (che si chiamerà poi di
S. Floriano, appunto in onore del Santo). Dicesi che nella solennità che fu
fatta per portare quel corpo alla chiesa vi concorse una grandissima quantità
di gente; e che nel sanare degli infermi e degli stroppi (sic!) si videro
palesemente molti miracoli». Il corpo, aggiunge il Grizio, pur essendo
rimasto sottacqua per più di mille e cento anni, non aveva patito
diminuzione alcuna.
A ricordo di quella solenne traslazione, un artista
dell'epoca dipinse sul frontespizio dell'arca la scena della traslazione
stessa; più tardi, nella chiesa di S. Floriano, venne posta, a memoria del
ritrovamento del corpo, una lapide.
GIACOMO
DELLA MARCA
Intanto Jesini e Anconetani non dimenticavano di
infastidirsi con scorrerie di bande armate dell'una e dell'altra parte. Nel
1419 Agamennone degli Arcipreti di Jesi e Nicolò Piccinino facevano
incursione nel territorio di Bompiano, devastando e depredando.
Si
trattava di scorrerie che non dicevano molto o che, comunque, in quel periodo
dovevano passare in secondo ordine per il rincrudire della lotta, su tutt'altro
fronte, che si protraeva ormai da più di cento anni: la lotta contro la setta
dei cosiddetti « fraticelli ». Pu, quello, uno dei conflitti religiosi più
tristi, iniziato, come abbiamo avuto occasione di accennare, negli anni a
cavallo fra il XII e il XIII secolo. Già da quel tempo, infatti, anche la
quiete dei Castelli jesini era stata turbata dall'opera sovvertitrice dei
«bizzocchi», una delle più eretiche sette dei «fraticelli»; i quali, fanatici
e profittatori, si erano ribellati all'autorità della Chiesa, dandosi una
propria regola ed una propria gerarchia (vengono ricordati un «imperatore»
Guglielmo con sede a Maiolati ed un «papa» Rolando finito poi sul rogo).
Per
combattere le aberrazioni dei «bizzocchi», nell'estate del 1426 giunsero nel
territorio di Massaccio (Cupramontana), vale a dire di uno dei centri più
infestati dagli eretici, due paladini della Chiesa: fra Giacomo da
Monteprandone, detto della Marca, e Giovanni da Capistrano. La loro
efficace predicazione sconfisse gli eretici, demolendo una ad una le loro
false teorie e riportando i seguaci dei «bizzocchi» alla giusta dottrina.
A
nulla servirono le macchinazioni dei «bizzocchi» per liberarsi di così forti
avversari e soprattutto di Giacomo della Marca. Si racconta che cercarono anche
di uccidere quest'ultimo servendogli del veleno mentre celebrava la messa. Ma
Giacomo (divenuto poi santo) sfuggì all'insidia, perché, mentre si accingeva a
bere, scorse, disegnata miracolosamente, sul fondo del calice, la testa di un
serpente; il che lo mise in guardia dal pericolo che lo minacciava. L'episodio,
si assicura, è autentico.
Nella
repressione dei «fraticelli», ai meriti specifici di Giacomo della Marca,
Girolamo Baldassini unisce quelli del card. Astorgio Agnese, vescovo di Ancona
e commissario della Marca, non trascurando il fatto che se il primo combattè
con la preghiera, il secondo combatté gli empi errori con le armi
temporali. Il castello di Maiolati, due anni dopo l'arrivo di Giacomo e
Giovanni, venne demolito a terrore ed esempio perpetuo e molti
«fraticelli» furono morti o discacciati. Solo più tardi venne consentito
agli abitanti di Maiolati di tornare sul loro colle e ricostruire le loro case.
Giacomo
della Marca, per quel che ci riguarda più dappresso, ebbe una parte notevole
nella decisione che le autorità jesine dell'epoca presero circa la compilazione
dei nuovi statuti. Sarebbe stato, infatti, il famoso monaco a sollecitare la
rielaborazione e l'aggiornamento dei vecchi statuti, di cui diremo in seguito.
La storia di Jesi - Leggi l'e-book
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