La leggenda di Re Esio
La storia di Jesi ha inizio in un lontano giorno di tremila anni fa. Un inizio senza spettatori. Una piccola folla di gente risale il corso del nostro fiume, incolonnata lungo la sponda sinistra. Avanza lentamente, aprendosi la strada tra la fitta sterpaglia e gli alti pioppi che si specchiano nelle acque del fiume.
E' gente strana, dal nome strano — «pelasgi» li dicono dalle loro parti —, i volti abbronzati, segnati dalla stanchezza di un viaggio lungo e avventuroso. Hanno indumenti logori; alcuni vestono pelli di animali che sanno di selvatico. I volti degli uomini sono incorniciati da capigliature e barbe folte che interminabili giornate di sole hanno reso aride, stoppacciose.
Sono i superstiti di una flottiglia di piccoli e veloci legni che hanno vinto la battaglia contro le tempeste dell'Adriatico. Sono sbarcati da pochi giorni verso la foce di quel fiume che ora sbriciola in mille luccichii i raggi del sole. Emigrati dalla loro terra — che è stata la patria dei loro vecchi, degli eroi cantati da un poeta cieco per i villaggi della lontana Grecia — sono alla ricerca di una nuova terra, di una nuova patria.
Ed eccoli giunti, dopo una marcia estenuante, ai piedi di un'altura cresciuta come d'incanto nel cuore della vallata che li aveva accolti giù, alla foce del fiume. Tutt'attorno, boschi a perdita d'occhio, arrampicati sulle colline circostanti. E il silenzio di una natura addormentata da millenni. Da sempre.
Un uomo, dall'aspetto venerando e regale, con l'insegna del comando indica quel promontorio che par quasi un isolotto emerso a bella posta, nel mezzo della valle, per raccogliere dei naufraghi. E si incammina in quella direzione. Gli altri lo seguono, tenendo il suo passo, senza parlare. Sulla parte più alta del colle, il vegliardo re spinge lo sguardo lontano, scoprendo un paesaggio meraviglioso, disegnato dalle cento tonalità di un verde immenso, tagliato appena dalla sinuosa traccia del fiume che si perde giù, verso il mare.
Il vecchio re, volto allora ai suoi, fa un cenno di assenso e tutti depongono a terra le loro povere cose. Dunque hanno trovato finalmente la terra promessa, sono giunti alla meta del lungo peregrinare per mari e terre. Questa terra d'ora in avanti sarà la loro nuova patria.
E così fu che re Esio fondò la città di Jesi.
Quella che vi ho raccontato è la storia della fondazione di Jesi. Una storia che sa troppo di leggenda per essere vera. Ed infatti vera non è.
Eppure fino a meno di due secoli fa gli storici — non solo di casa nostra — la accettavano per buona, certo in buona fede, e puntualmente la ripetevano (magari senza quella patina di colore che ho cercato di dargli io), affinché i posteri non dimenticassero l'origine regale della loro città e la figura di quel vegliardo re che fu, se visse, il primo cittadino di Jesi.
Gli Jesini hanno sempre creduto nella storia di re Esio, o meglio hanno finto di crederci. Probabilmente perché, anche se non ci piace darlo a vedere, in fondo siamo dei romantici; poi perché siamo dei tenaci custodi delle nostre abitudini (ed anche il credere in una favola può diventare un'abitudine); ma più probabilmente per una questione di prestigio: non capitava tutti i giorni che una città venisse fondata da un re. E porre sul biglietto da visita di una città una corona regale non dispiace neppure oggi al popolo jesino, anche se vanta preferenze repubblicane e se rinnega, dopo settecento anni, il titolo di regia conferito alla sua città da un grande imperatore.
La storia di re Esio è dunque una leggenda. O lo è almeno al novanta per cento, perché non si può respingere definitivamente per insufficienza di prove ciò che non è accertabile.
Io, ad ogni buon conto, la breve storia di re Esio ve l'ho raccontata, così come mi hanno aiutato ad immaginarla fin da ragazzo. E ve l'ho raccontata soprattutto perché una storia di Jesi che iniziasse senza la storia di re Esio non parrebbe vera. Anche se si tratta di un re vegliardo e magari simpatico, ma maledettamente leggendario.
La Storia di Jesi
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