LA BATTAGLIA DEL SENTINO
Intanto si stava affermando la potenza di Roma. I Romani, dopo essersi assicurati l'egemonia nel Lazio, anda¬vano sottoponendo al proprio dominio tutti i popoli vicini. Agli inizi del III secolo avanti Cristo si trovarono a dover s¬stenere dure e lunghe lotte, oltre che con i tradizionali nemici, anche con i Galli Senoni. A questo periodo risalgono i primi contatti dei Piceni con i Romani, con i quali strinsero un patto di alleanza nel 299. Roma aveva bisogno di amici per fronteggiare i tanti nemici che premevano ai suoi confini: a Sud era minacciata dai Sanniti e a Nord dagli Etruschi ed ora anche dai Galli, che, ad un certo punto, si erano tutti coalizzati tra loro sotto la guida dell’Etrusco Gellio Ignazio. Dal canto suo il Piceno aveva bisogno di forti alleati, essendo minacciato a sua volta a Nord dai Galli e a Sud dai Petruzii.
La guerra fra le opposte parti, nello scacchiere Nord, interessò anche la nostra provincia, dove, nel 295 avanti Cristo, fu combattuta una sanguinosa battaglia. Lo scontro avvenne nei pressi di Sassoferrato, sul Sentino. Gli avversari dei Romani erano superiori come numero, ma i vari generali che comandavano i vari contingenti, invece di collaborare tra loro, tiravano ognuno a far ciccia per conto proprio. E naturalmente furono battuti. In quel periodo la città di Jesi era passata sotto il governo dei Romani, i quali evidentemente, dopo i primi scontri con i Galli Senoni, l'avevano occupata per assicurarsi il controllo di una delle principali vie di accesso al territorio di Roma.
Sulla battaglia del Sentino si sa che i Romani affrontarono l'esercito nemico con quattro legioni (rafforzate da mi¬lizie ausiliarie) agli ordini di due consoli, Quinto Fabio Rulliano e Publio Decio Mure. Il Cecon suppone che uno dei due consoli (Decio Mure) avanzasse verso il Sentino e l'altro (Fabio Rulliano) andasse a rafforzare la munita città di Jesi, alleata di Roma fin dal 299 a.C.; questo perché l'esercito nemico aveva due sole vie per raggiungere l'Italia centrale: o risalire la valle del Misa e quindi penetrare nella Gola del Sentino, oppure seguire la via più comoda, per Jesi.
Secondo il Cecon, i nemici di Roma, giunti al Misa, temendo la forte difesa di Jesi, preferirono dirigersi verso le valli del Sentino, trattandosi di zona che, a differenza della Vallesina, conoscevano molto bene. Il console Rulliano, informato che l'esercito nemico aveva preso la via del Sentino, lo seguì col suo esercito, lo attaccò alle spalle ed il suo tempestivo intervento decise le sorti della battaglia. Lo scontro fra i due eserciti dovette essere particolarmente violento, se è vero che le file dei Galli e dei loro alleati furono falcidiate al punto da lasciare sul terreno ben centomila morti (ma si tratta di una cifra indubbiamente esagerata). I superstiti furono inseguiti da Rulliano fino al Rubicone. Contemporaneamente gli altri avversari di Roma battevano in ritirata: le reliquie dell'esercito sannita si ritirarono nel Sannio e gli Etruschi non ebbero altra scelta che quella di accettare l'alleanza romana. I Galli, costretti alla pace, perdettero una parte del loro territorio in cui poco di poi fu fondata la colonia di Sena gallica (Senigallia).
Seppure duramente battuti, i Galli non si rassegnarono alla confisca delle loro terre da parte dei Romani. Non tardò molto che, levatisi di nuovo in armi, mossero alla volta di Roma, questa volta passando per l'Etruria, la quale, covando propositi di rivincita, si schierò a fianco dei Senoni. L'urto con le legioni romane fu rovinoso per queste ultime, che perdettero sul campo di battaglia anche il loro condottiero, Lucio Cecilio Metello. I Romani tuttavia si rifecero presto ed in una successiva battaglia sgominarono lo schieramento nemico. I Galli, inseguiti fino al Rubicone ed annientati, persero tutto il loro territorio, che fu incorporato allo stato romano. Aveva così termine il capitolo dei Senoni.
PRESIDIO DI ROMA
I Romani, giunti nella nostra regione come alleati dei Piceni, in effetti si erano comportati da padroni. La loro autorità finì con l'indisporre i padroni di casa, suscitando in loro propositi di ribellione. Romani e Piceni, cosicché, da alleati divennero nemici. Ad inasprire maggiormente i rapporti avrebbe contribuito, forse in misura decisiva, l'alleanza che i Piceni avevano stretto con i Tarentini, probabilmente per poter disporre di una buona carta nella disputa con i troppo inva¬denti amici di Roma.
Sta di fatto che la situazione era divenuta insostenibile al punto che i Piceni, raccolte tutte le loro forze, affrontarono le legioni romane in campo aperto. Due anni durò la guerra (269-268 avanti Cristo) e la battaglia che doveva concluderla fu combattuta nell'ascolano. I Piceni ne uscirono totalmente disfatti. Si racconta — ma la cosa sa molto di leggenda — che nel bel mezzo della battaglia, la terra fu scossa da un terremoto; i soldati dell'uno e dell'altro esercito smisero di combattere in preda allo sgomento. Il console Publio Sempronio, che comandava i Romani, fu il più sollecito a riaversi ed a sospingere i suoi contro il nemico, il quale, colto alla sprovvista, subì di conseguenza una clamorosa disfatta.
Trecentomila furono i Piceni che si sottomisero ai Romani. Parte del paese fu incorporato al territorio romano, dandosi agli abitanti il diritto di cittadinanza senza suffragio; l'altra parte fu confinata, deportandone la popolazione in quella regione tra la Campania e la Lucania che prese poi il nome di agro picentino.
LA MONETA JESINA
Anticamente la gente pagava la merce barattandola con altra merce. Ma quando il baratto risultò inadeguato al sempre crescente volume di affari e alla sempre più larga varietà dei prodotti commerciati, ovunque si rese necessario l'uso della moneta. Quale fu la prima moneta in uso presso gli Jesini? Fu moneta propria o moneta di altri paesi?
Secondo alcuni storici locali, Jesi nel III secolo avanti Cristo avrebbe battuto moneta propria. La prima affermazio¬ne in tal senso ci viene dal Bernardi, il quale lasciò scritto nella sua cronaca jesina del XIV secolo «di averne avute diverse e di diverso metallo e valevano dieci assi». Abbiamo però visto nel capitolo precedente che non sempre il Bernardi è da prendere sul serio. Il Grizio, due secoli dopo, affermò che «questa città era la città reale ed in essa si batteva, in suo nome (cioè in nome del re Esio) la moneta, come si può considerare da alcune medaglie antichissime che si trovano nel nostro territorio, sulle quali da una banda vi sono queste lettere: Rex Aesis e dall'altra un Iano». Infine Tommaso Baldassini riferì che si trovavano, ai suoi tempi (1700), «di quando in quando nel nostro territorio alcune monete, in una parte delle quali si leggono queste parole Rex Aesis e dall'altra parte figura la faccia del dio Pan». «Ed io — dichiarò lo stesso Baldassini — cinquant'anni or sono ne vidi una coi miei propri occhi».
Quest'ultima testimonianza parrebbe escludere ogni incertezza in proposito. Senonché il Gianandrea accusò il Baldassini «di aver ripetuto con tutta ingenuità la stessa storia» del Grizio. E qui storia sta per favola. Da allora, nessun altro storico ha più osato far cenno della moneta jesina.
Soltanto l'ing. Cecon, una ventina di anni fa, riprese a parlarne, con l'evidente speranza di dimostrare l'esistenza di quella moneta jesina. «II fatto che di queste monete non si sia più parlato e che nessuno più ne abbia veduto esemplare» non parve al Cecon «ragione sufficiente per negarne l'esistenza». Cosicché condusse per proprio conto delle ricerche; si rivolse anche ai conservatori di numerosi gabinetti numismatici italiani per sapere se nelle loro raccolte si trovasse la moneta di Jesi del II o del I secolo avanti Cristo, ma ebbe sempre risposta negativa.
Tuttavia il Cecon restò nella convinzione che Jesi abbia battuto anticamente una moneta propria: due grandi ricercatori d'antichità classiche, il Mommsen ed il Berclay, sono concordi nell'ammettere che verso il 270 a.C. le città picene di Ancona, di Fermo e di Ascoli hanno coniato moneta di vario metallo (di cui si conservano rarissimi esemplari), per cui anche Jesi, che allora aveva commerci fiorentissimi sia con le popolazioni vicine che con le popolazioni d'oltre Adriatico, compresa la Magna Grecia, deve aver usato una moneta propria. E, pur condividendo il parere che a Jesi non potesse esistere a quel tempo una zecca, date le condizioni politiche ed economiche della regione picena, così concludeva: «Ho ragione di ritenere che Jesi, città non seconda a Fermo e ad Ascoli, può aver fatto coniare la sua moneta in qualche città greca o della Magna Grecia, molto più progredite delle nostre nelle arti e nelle industrie».
MARIO E SILLA
Alla sconfitta dei Piceni avvenuta in Ascoli nel 268 avanti Cristo ed al loro definitivo assoggettamento alla crescente potenza di Roma non seguirono anni tranquilli per la nostra gente. Roma, presto impegnata nelle lunghe e sanguinose guerre puniche, aveva bisogno di uomini e di mezzi per fronteggiare gli eserciti nemici. Particolarmente prezioso per i Romani fu il contributo che le città picene gli diedero durante la seconda di tali guerre (219-201 a.C.).
Annibale, sceso in Italia attraverso le Alpi e battuti i Romani al Ticino, al Trebbia e al Trasimeno, invase il Piceno facendo strage degli uomini atti alle armi e compiendo orribili saccheggi; poi si trasferì nel meridione portando con se una stragrande quantità di bottino. A Canne, Romani e Cartaginesi si scontrarono di nuovo e per i primi l'esito della battaglia fu disastroso. Silvio Italico riferisce che, in quella battaglia, accanto ai Romani e ai loro alleati, combatterono anche truppe inviate da varie città del Piceno; cita Ancona e Numana, ma è assai probabile che fossero in campo anche soldati jesini. Così come truppe jesine parteciparono quasi certamente, insieme a milizie dei territori gallico e piceno, alla battaglia combattuta e vinta dai Romani contro Asdrubale nel 207 avanti Cristo sul fiume Metauro, a nord di Senigallia.
Jesi, nel frattempo, era diventata colonia romana. Tali erano considerate le città situate in luoghi stategici, a cavallo delle grandi vie di comunicazione. Vi erano stanziati gruppi di cittadini romani (per lo più veterani) e potevano ritenersi centri d'irradiazione della civiltà romana. Ma a quel tempo le cose, sotto il profilo economico, non andavano ancora bene. Le lunghe guerre, se avevano fatto di Roma e dell'Italia il centro di un grande impero, avevano aumentato lo squilibrio economico fra le classi sociali: i patrizi si arricchivano sempre di più per l'occupazione delle terre che lo Stato aveva confiscato ai vinti; i plebei, pieni di debiti e costretti ad abbandonare i loro poderi, vivevano ormai nella più squallida miseria. La legge agraria del 133 avanti Cristo (nessuno poteva possedere più di cinquecento jugeri di agro pubblico, pari a circa 125 ettari; chi ne aveva di più doveva renderli allo Stato che avrebbe pensato a distribuirli ai plebei), legge varata dal tribuno Tiberio Gracco che ci rimise la vita, incontrò l'accanita resistenza dei patrizi ed ebbe scarsa esecuzione. Fu quella legge ad originare la guerra civile fra Mario e Siila — l'uno difensore del popolo e l'altro capo del partito aristocratico — terminata con la, dittatura di Silla.
Sulle rive del fiume Esino si ebbe uno dei sanguinosi scontri fra gli eserciti dell'una e dall'altra parte. La battaglia avvenne nella primavera dell'anno 72 a.C. tra Orazio. Metello, generale di Siila, e il pretore Carina o Cannate agli ordini dei consoli Papirio Carbone e Mario il Giovane. Carina vi ebbe una terribile sconfitta, la quale, unita alle altre ricevute similmente nell'Umbria e nel Piceno da Carbone, costrinsero questo a ripararsi in Etruria, lasciando le nostre contrade in balia dei Sillani.
Altre lotte intestine dovevano poi travagliare la repubblica romana, come la guerra fratricida fra Cesare e Pompeo. In questo tumultuoso periodo di lotte civili, il Piceno fu una inesauribile miniera di soldati che offrirono il loro braccio e il loro sangue all'uno e all'altro dei contendenti. Finalmente Ottaviano Augusto poté dedicarsi all'organizzazione di quella che fu la più vasta monarchia dell'antichità, ristabilendo la pace interna, migliorando i costumi e diffondendo l'amore per la famiglia. Per ricompensare i tanti legionari che si erano battuti per lui, Ottaviano fece loro una grande distribuzione di terre anche nella nostra zona, ove pertanto vennero a stabilirsi parecchi «veterani» di Filippi e di Azio.
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