IL CONTADO JESINO
I Comuni, per la verità, erano sempre soggetti o al Sacro Romano Impero di Germania o allo Stato della Chiesa, ma si adattavano malvolentieri a tale sudditanza; si erano dati leggi proprie, eleggevano in piena autonomia i propri magistrati e se dovevano farsi guerra non andavano a chiedere il permesso di nessuno. Inutile dire che né il pontefice né l'imperatore vedevano di buon occhio le smanie indipendentistiche dei Comuni e consideravano ogni loro atto non preventivamente autorizzato come un gesto di aperta ribellione.
IL BARBAROSSA
In Germania, soprattutto, la cosa non era tollerata, tanto che un grande imperatore della casa Sveva, Federico I detto il Barbarossa, discese alla fine in Italia con un forte esercito deciso a far rispettare la propria autorità. Varcò le Alpi, assalì e distrusse le città ribelli, ponendo poi a capo di ogni Comune a lui soggetto un podestà tedesco dal pugno di ferro. Federico Barbarossa non si limitò a far valere la sua autorità sulle regioni italiane del Sacro Romano Impero ma, com'era nelle abitudini di tutti gli invasori, entrò più volte nelle province della Chiesa. Si spinse anche dalle nostre parti, quindi, e fu nel 1155, nel 1158, nel 1167 e nel 1173; nelle due ultime «calate» il suo esercito fu sotto le mura di Ancona; nell'ultimo assedio ci fu l'olocausto dell'eroina anconitana Stamira. Durante il combattimento un difensore della città getto una botte piena di resina e pece davanti agli steccati, ma essendo finita in mezzo alle forze nemiche, nessuno si azzardava ad incendiarla. Fu allora che una donna vedova, di nome Stamira, sprezzante del pericolo, impugnata una scure spezzò la botte e vi appiccò il fuoco. L'incendio così appiccato si propagò lungo tutto il fronte nemico distruggendo macchine da guerra e ripari sotto gli occhi attoniti dei nemici. Pur se il combattimento provocò perdite numerosissime da entrambe le parti, gli anconetani stremati dalla fame, grazie a quell'episodio, poterono rifornirsi di viveri, riuscendo ad importare dentro la città molti cavalli sì vivi come morti, dei quali nemmeno le intestina gettarono via (Buncompagno da Signa). Una lapide all'ingresso del Lazzaretto vanvitelliano è stata posta in ricordo dell'eroico gesto così come un quadro dell'anconetano Podesti ritrae l'evento ammirabile nella Pinacoteca civica di Ancona.
Ma soprattutto nel Nord, non tutti i Comuni accettarono passivamente il pugno di ferro del Barbarossa: trentasei Comuni si coalizzarono firmando a Pontida quella Lega Lombarda i cui uomini, sotto la protezione di papa Alessandro III, nel 1176 affrontarono e sconfissero le truppe tedesche a Legnano, in una memorabile battaglia. Fu un serio colpo per il Barbarossa, che si vide costretto a riappacificarsi col papa e coi Comuni. La pace fu firmata a Costanza, in Germania; fra l'altro, l'imperatore si impegnava a restituire al Papa tutti i suoi possedimenti romani; quanto a Spoleto, alla Marca d'Ancona e alla Romagna, pur non escludendosi l'amministrazione pon¬tificia, si conveniva che erano terre appartenenti all'impero. Tutto questo è molto dubbio; vero o no, comunque, sta di fatto che il nostro territorio rimase per lungo tempo oggetto di conte¬stazioni fra l'una e l'altra parte.
Federico Barbarossa, sconfitto nel Nord Italia, si riparò nel Sud, impossessandosi del regno di Sicilia con un'abile mossa diplomatica: infatti fece sposare il figlio Enrico VI con Costanza d'Altavilla, ultima erede di quel regno. Il matrimonio fra Enrico VI e Costanza fu celebrato nel 1186; otto anni dopo, dalla loro unione, nasceva a Jesi Federico II.
In Germania, soprattutto, la cosa non era tollerata, tanto che un grande imperatore della casa Sveva, Federico I detto il Barbarossa, discese alla fine in Italia con un forte esercito deciso a far rispettare la propria autorità. Varcò le Alpi, assalì e distrusse le città ribelli, ponendo poi a capo di ogni Comune a lui soggetto un podestà tedesco dal pugno di ferro. Federico Barbarossa non si limitò a far valere la sua autorità sulle regioni italiane del Sacro Romano Impero ma, com'era nelle abitudini di tutti gli invasori, entrò più volte nelle province della Chiesa. Si spinse anche dalle nostre parti, quindi, e fu nel 1155, nel 1158, nel 1167 e nel 1173; nelle due ultime «calate» il suo esercito fu sotto le mura di Ancona; nell'ultimo assedio ci fu l'olocausto dell'eroina anconitana Stamira. Durante il combattimento un difensore della città getto una botte piena di resina e pece davanti agli steccati, ma essendo finita in mezzo alle forze nemiche, nessuno si azzardava ad incendiarla. Fu allora che una donna vedova, di nome Stamira, sprezzante del pericolo, impugnata una scure spezzò la botte e vi appiccò il fuoco. L'incendio così appiccato si propagò lungo tutto il fronte nemico distruggendo macchine da guerra e ripari sotto gli occhi attoniti dei nemici. Pur se il combattimento provocò perdite numerosissime da entrambe le parti, gli anconetani stremati dalla fame, grazie a quell'episodio, poterono rifornirsi di viveri, riuscendo ad importare dentro la città molti cavalli sì vivi come morti, dei quali nemmeno le intestina gettarono via (Buncompagno da Signa). Una lapide all'ingresso del Lazzaretto vanvitelliano è stata posta in ricordo dell'eroico gesto così come un quadro dell'anconetano Podesti ritrae l'evento ammirabile nella Pinacoteca civica di Ancona.
Ma soprattutto nel Nord, non tutti i Comuni accettarono passivamente il pugno di ferro del Barbarossa: trentasei Comuni si coalizzarono firmando a Pontida quella Lega Lombarda i cui uomini, sotto la protezione di papa Alessandro III, nel 1176 affrontarono e sconfissero le truppe tedesche a Legnano, in una memorabile battaglia. Fu un serio colpo per il Barbarossa, che si vide costretto a riappacificarsi col papa e coi Comuni. La pace fu firmata a Costanza, in Germania; fra l'altro, l'imperatore si impegnava a restituire al Papa tutti i suoi possedimenti romani; quanto a Spoleto, alla Marca d'Ancona e alla Romagna, pur non escludendosi l'amministrazione pon¬tificia, si conveniva che erano terre appartenenti all'impero. Tutto questo è molto dubbio; vero o no, comunque, sta di fatto che il nostro territorio rimase per lungo tempo oggetto di conte¬stazioni fra l'una e l'altra parte.
Federico Barbarossa, sconfitto nel Nord Italia, si riparò nel Sud, impossessandosi del regno di Sicilia con un'abile mossa diplomatica: infatti fece sposare il figlio Enrico VI con Costanza d'Altavilla, ultima erede di quel regno. Il matrimonio fra Enrico VI e Costanza fu celebrato nel 1186; otto anni dopo, dalla loro unione, nasceva a Jesi Federico II.
NASCE FEDERICO II
Costanza aveva avuto un'infanzia ed una giovinezza difficili. Evidentemente l'oroscopo non le era stato favorevole se i «luminari della corte di Buggero II, padre di Costanza, erano convinti che la giovanetta dovesse rappresentare la rovina del regno; ed infatti erano riusciti a convincere il sovrano a chiuderla in un convento. Era già sulla trentina quando Costanza, per ragioni di Stato, venne tolta dal chiostro e mandata in sposa ad Enrico VI, di undici anni più giovane di lei.
I rapporti fra i due coniugi non erano stati propriamente idilliaci. A noi basti sapere che nel dicembre del 1194 Costanza, in viaggio attraverso la Marca d'Ancona per raggiungere il marito in Sicilia, fece sosta a Jesi. Non era la prima volta che i reali di Sicilia si trovavano nella nostra città: già nel 1186 Jesi aveva ospitato Enrico VI che da qui aveva spedito diplomi a favore dei monasteri di Porto Nuovo, vicino ad Ancona, e di San Michele in Quadrigaria presso Cupramontana.
A quel tempo Jesi era già un notevole centro di attività commerciali ed artigianali; e molte erano le chiese, che costituivano i nuclei fondamentali della vita sociale dell'epoca. Il numero delle chiese e delle parrocchie era tanto copioso che sarebbe incredibile se non ci fosse attestato da irrepugnabili documenti contemporanei: ben tredici erano le chiese parrocchiali entro le mura castellane ed almeno una ventina quelle nel restante territorio del Comune. L'Annibaldi le elenca: entro il pomerio, la cattedrale, San Pietro, San Paolo, San Bartolo, Sant'Eutizio, Santa Croce, San Martino, San Benedetto, San Giorgio (poi San Floriano), Sant'Antonio, San Luca, San Clemente ed una chiesa della Posterma; fuori del pomerio, Santa Maria del Piano, San Savino, San Marco, Santa Croce presso Tabano, San Procolo, San Nicolò, San Giovanni della Valle, San Giovanni in Terravecchia, San Donato della Valle, Sant'Andrea della Valle, Santa Maria di Lacco, Santo Stefano della Buzzaia, Sant'Andrea di Mussizzano, San Martino della Granita, San Tommaso, SS. Filippo e Giacomo, Sant'Agostino (poi San Pietro Martire), San Cristoforo e San Claro, che però non è certo fosse nelle circostanze di Jesi.
Lo stesso Annibaldi arguisce che nell'intera Vallesina esistessero a quel tempo «un seicento chiese», vale a dire «una chiesa per ogni chilometro quadrato». Non vi erano, naturalmente, solo chiese. Esistevano già, come si è detto, anche le scuole e le «fraternite» delle arti. Ed anche ospedali. Ve ne erano tre: di Santa Lucia, di Sant'Antonio e di San Giovanni in Terravecchia; quest'ultimo (ubicato ov'è l'attuale palazzo delle poste) si vuole istituito nel 1084.
Una città che si andava sviluppando, dunque, era Jesi allorché nel 1194 vi giunse Costanza d'Altavilla; la quale il 26 dicembre di quell'anno dava alla luce, nell'allora piazza San Giorgio (oggi Federico II), colui che diventerà il più grande personaggio della Casa Sveva.
Oggi nessuno più osa mettere in dubbio che Federico II sia nato a Jesi. Ma in passato ci furono delle contestazioni. Alcuni sostenevano che fosse nato a Palermo, altri a Messina, altri ancora ad Assisi. Si fece anche nome di Jelsi, nelle Puglie. Ma già tre scrittori dell'epoca avevano dato la giusta versione: Riccardo da San Germano, un anonimo cassinese e Fra Salimbene da Parma. E a fugare ogni dubbio, poi, penserà lo stesso Federico II con una lettera indirizzata agli Jesini, di cui diremo in seguito.
SULLA PUBBLICA PIAZZA
Anche sulla nascita del grande Svevo furono dette e scritte molte cose a sproposito. «II livore dei suoi nemici si sbizzarì in mille modi contro di lui e contro l'augusta donna che gli fu madre — scrive il Gianandrea —. Si disse che il parto di Costanza fosse supposto, che fosse finta la sua gravidanza, che non poteva aver figlioli perché ormai vecchia. S'inventò che innanzi di andare a marito fosse monaca, che la prosciogliesse dai voti l'arcivescovo di Palermo. Un cronista ce la dipinge perfino zoppa e guercia. E tra le invenzioni ci fu anche questa, che Federico II era figliuolo di un beccaio di Jesi».
La diceria sull'età di Costanza è ripresa anche dai nostri storici più remoti. Per il Grizio, ad esempio, ella era donna di cinquant'anni; per Tommaso Baldassini era una donna attempata e passava i cinquant'anni. Ma il Gianandrea ha pronta la replica: coloro i quali «divulgarono la sciocca fiaba non si diedero pensiero di riscontrare le date, e le date sono queste: Costanza fi-gliuola postuma di Ruggero II normanno re delle Due Sicilie, nacque nel 1154 ed andò sposa ad Enrico VI figliuolo di Federico Barbarossa nel 1186. Aveva allora dunque trentadue anni, laddove il marito ne aveva ventuno. Quando partorì Federico II era sui quaranta, età ancora ragionevole per aver figliuoli».
«Una leggenda che ha relazione con quel parto supposto — conclude il Gianadrea — narra che lo sgravarsi di Costanza avvenne quasi pubblicamente, per togliere ogni sospetto d'inganno, sotto un padiglione innalzato sulla piazza maggiore, anzi l'unica allora di Jesi. Al parto furono presenti, come narrano parecchi storici, molti baroni e gentildonne, il Legato apostolico e, secondo Alberto abate stadense, quindici prelati tra vescovi e cardinali...». Pare che in un primo momento al neonato venisse dato il nome di Costantino; ma anche questa è una delle tante voci sulla avventurata e avventurosa nascita del grande Svevo.
Poiché Costanza aveva fretta di raggiungere il marito in Sicilia, il piccolo Federico II fu lasciato a Jesi, affidato alle cure dei conti Pietro di Celano e Berardo di Loreto. Fu poi accompagnato a Foligno, dove passò sotto la custodia della duchessa di Spoleto.
Nel 1197, a soli 32 anni, improvvisamente Enrico VI moriva. Costanza incaricò alcuni conti d'Apulia di prelevare il regio infante a Foligno per portarlo a Palermo, dove l'anno dopo, nel giorno di Pentecoste, con una fastissima cerimonia di rito bizantino, Federico II veniva incoronato re. Re di Sicilia, soltanto, secondo il desiderio della madre, la quale odiava i tedeschi e non voleva che il piccolo re diventasse imperatore di Germania. Ma anche Costanza aveva i giorni contati. Nel 1198, infatti, anch'essa moriva, non senza però aver prima nominato amministratore del Regno e tutore del figlio il Papa.
Costanza aveva avuto un'infanzia ed una giovinezza difficili. Evidentemente l'oroscopo non le era stato favorevole se i «luminari della corte di Buggero II, padre di Costanza, erano convinti che la giovanetta dovesse rappresentare la rovina del regno; ed infatti erano riusciti a convincere il sovrano a chiuderla in un convento. Era già sulla trentina quando Costanza, per ragioni di Stato, venne tolta dal chiostro e mandata in sposa ad Enrico VI, di undici anni più giovane di lei.
I rapporti fra i due coniugi non erano stati propriamente idilliaci. A noi basti sapere che nel dicembre del 1194 Costanza, in viaggio attraverso la Marca d'Ancona per raggiungere il marito in Sicilia, fece sosta a Jesi. Non era la prima volta che i reali di Sicilia si trovavano nella nostra città: già nel 1186 Jesi aveva ospitato Enrico VI che da qui aveva spedito diplomi a favore dei monasteri di Porto Nuovo, vicino ad Ancona, e di San Michele in Quadrigaria presso Cupramontana.
A quel tempo Jesi era già un notevole centro di attività commerciali ed artigianali; e molte erano le chiese, che costituivano i nuclei fondamentali della vita sociale dell'epoca. Il numero delle chiese e delle parrocchie era tanto copioso che sarebbe incredibile se non ci fosse attestato da irrepugnabili documenti contemporanei: ben tredici erano le chiese parrocchiali entro le mura castellane ed almeno una ventina quelle nel restante territorio del Comune. L'Annibaldi le elenca: entro il pomerio, la cattedrale, San Pietro, San Paolo, San Bartolo, Sant'Eutizio, Santa Croce, San Martino, San Benedetto, San Giorgio (poi San Floriano), Sant'Antonio, San Luca, San Clemente ed una chiesa della Posterma; fuori del pomerio, Santa Maria del Piano, San Savino, San Marco, Santa Croce presso Tabano, San Procolo, San Nicolò, San Giovanni della Valle, San Giovanni in Terravecchia, San Donato della Valle, Sant'Andrea della Valle, Santa Maria di Lacco, Santo Stefano della Buzzaia, Sant'Andrea di Mussizzano, San Martino della Granita, San Tommaso, SS. Filippo e Giacomo, Sant'Agostino (poi San Pietro Martire), San Cristoforo e San Claro, che però non è certo fosse nelle circostanze di Jesi.
Lo stesso Annibaldi arguisce che nell'intera Vallesina esistessero a quel tempo «un seicento chiese», vale a dire «una chiesa per ogni chilometro quadrato». Non vi erano, naturalmente, solo chiese. Esistevano già, come si è detto, anche le scuole e le «fraternite» delle arti. Ed anche ospedali. Ve ne erano tre: di Santa Lucia, di Sant'Antonio e di San Giovanni in Terravecchia; quest'ultimo (ubicato ov'è l'attuale palazzo delle poste) si vuole istituito nel 1084.
Una città che si andava sviluppando, dunque, era Jesi allorché nel 1194 vi giunse Costanza d'Altavilla; la quale il 26 dicembre di quell'anno dava alla luce, nell'allora piazza San Giorgio (oggi Federico II), colui che diventerà il più grande personaggio della Casa Sveva.
Oggi nessuno più osa mettere in dubbio che Federico II sia nato a Jesi. Ma in passato ci furono delle contestazioni. Alcuni sostenevano che fosse nato a Palermo, altri a Messina, altri ancora ad Assisi. Si fece anche nome di Jelsi, nelle Puglie. Ma già tre scrittori dell'epoca avevano dato la giusta versione: Riccardo da San Germano, un anonimo cassinese e Fra Salimbene da Parma. E a fugare ogni dubbio, poi, penserà lo stesso Federico II con una lettera indirizzata agli Jesini, di cui diremo in seguito.
SULLA PUBBLICA PIAZZA
Anche sulla nascita del grande Svevo furono dette e scritte molte cose a sproposito. «II livore dei suoi nemici si sbizzarì in mille modi contro di lui e contro l'augusta donna che gli fu madre — scrive il Gianandrea —. Si disse che il parto di Costanza fosse supposto, che fosse finta la sua gravidanza, che non poteva aver figlioli perché ormai vecchia. S'inventò che innanzi di andare a marito fosse monaca, che la prosciogliesse dai voti l'arcivescovo di Palermo. Un cronista ce la dipinge perfino zoppa e guercia. E tra le invenzioni ci fu anche questa, che Federico II era figliuolo di un beccaio di Jesi».
La diceria sull'età di Costanza è ripresa anche dai nostri storici più remoti. Per il Grizio, ad esempio, ella era donna di cinquant'anni; per Tommaso Baldassini era una donna attempata e passava i cinquant'anni. Ma il Gianandrea ha pronta la replica: coloro i quali «divulgarono la sciocca fiaba non si diedero pensiero di riscontrare le date, e le date sono queste: Costanza fi-gliuola postuma di Ruggero II normanno re delle Due Sicilie, nacque nel 1154 ed andò sposa ad Enrico VI figliuolo di Federico Barbarossa nel 1186. Aveva allora dunque trentadue anni, laddove il marito ne aveva ventuno. Quando partorì Federico II era sui quaranta, età ancora ragionevole per aver figliuoli».
«Una leggenda che ha relazione con quel parto supposto — conclude il Gianadrea — narra che lo sgravarsi di Costanza avvenne quasi pubblicamente, per togliere ogni sospetto d'inganno, sotto un padiglione innalzato sulla piazza maggiore, anzi l'unica allora di Jesi. Al parto furono presenti, come narrano parecchi storici, molti baroni e gentildonne, il Legato apostolico e, secondo Alberto abate stadense, quindici prelati tra vescovi e cardinali...». Pare che in un primo momento al neonato venisse dato il nome di Costantino; ma anche questa è una delle tante voci sulla avventurata e avventurosa nascita del grande Svevo.
Poiché Costanza aveva fretta di raggiungere il marito in Sicilia, il piccolo Federico II fu lasciato a Jesi, affidato alle cure dei conti Pietro di Celano e Berardo di Loreto. Fu poi accompagnato a Foligno, dove passò sotto la custodia della duchessa di Spoleto.
Nel 1197, a soli 32 anni, improvvisamente Enrico VI moriva. Costanza incaricò alcuni conti d'Apulia di prelevare il regio infante a Foligno per portarlo a Palermo, dove l'anno dopo, nel giorno di Pentecoste, con una fastissima cerimonia di rito bizantino, Federico II veniva incoronato re. Re di Sicilia, soltanto, secondo il desiderio della madre, la quale odiava i tedeschi e non voleva che il piccolo re diventasse imperatore di Germania. Ma anche Costanza aveva i giorni contati. Nel 1198, infatti, anch'essa moriva, non senza però aver prima nominato amministratore del Regno e tutore del figlio il Papa.