martedì 8 febbraio 2011

LE INVASIONI BARBARICHE

LA CALATA DEI BARBARI

Nonostante le riforme di Diocleziano e Costantino, l'impero, come un grande organismo stanco, continuò ad indebolirsi. All'interno le condizioni economiche e sociali si facevano sempre più difficili per l'immissione, sempre più poderosa, di genti di origine barbara nell'esercito e nell'amministrazione dello stato; dall'esterno la pressione degli eserciti barbarici si faceva ogni giorno più insostenibile.
Nel 380 Teodosio, l'ultimo grande imperatore romano, richiamandosi all'editto di Costantino, ordinava che unica religione ufficiale dell'impero fosse quella cristiana e che tutti i templi degli dei fossero chiusi e abbandonati. Tale sorte toccò, quindi, anche ai templi pagani che Jesi romana aveva innalzato alla dea Bona, a Giove, alla dea dei Numi, a Cibele, a Giunone, ecc. Teodosio proibì però che fossero distrutti e non volle neppure che fossero trasformati in chiese cristiane, perché tanto gli edifici pagani che le statue degli dei dovevano essere considerati monumenti d'arte e dovevano altresì essere conservati quale ricordo degli antenati. La vecchia religione politeistica sopravvisse ancora per qualche tempo ma soltanto nelle campagne e finirà con lo scomparire definitivamente fra il V ed il VI secolo.
Morendo, Teodosio, per accontentare i suoi due figli, adottò l'infelice soluzione di dividere l'impero in due tronchi: quello d'occidente con capitale Ravenna e quello d'oriente con capitale Costantinopoli. Un decennio dopo l'impero d'occidente era già in pieno sfaldamento; cominciava infatti la lunga successione delle invasioni barbariche. Nel 410 i Visigoti di Alarico, scesi per la via Flaminia, irrompevano in Roma, depredandola e devastandola, mentre altre popolazioni barbare di stirpe germanica si andavano insediando negli altri territori dell'impero: i Franchi ed i Burgundi nella Gallia, i Visigoti in Spagna, i Vandali in Africa, gli Angli ed i Sassoni nella Bretannia.
Dopo i Visigoti, l'Italia tremò per la minaccia degli Unni di Aitila (451), il sanguinario e terribile flagello di Dio, che, con le sue orde, per tanti anni terrorizzò le popolazioni dell'impero. Scampato il pericolo Attila grazie all'intervento di papa Leone I, dilagarono in Italia i Vandali di Genserico, che nel 455 sottoposero Roma ad un secondo saccheggio. A Ravenna, capitale del maltrattato impero d'occidente, si susseguirono poi vari imperatori, creati e deposti dai generali barbari. Finché Odoacre, generale barbaro anche lui, nel 476 assumeva il governo in nome dell'imperatore d'oriente: da quel momento l'Italia diventava una semplice provincia dell'Impero Romano d'Oriente. Era, dopo cinque secoli d'esistenza, l'ingloriosa fine dell'Impero Romano d'Occidente.

ERULI E OSTROGOTI

In quel doloroso periodo della nostra storia — che si protrarrà, purtroppo, ancora per molti secoli — tutta l'Italia ebbe a soffrire delle devastazioni barbariche. Anche Jesi fu inevitabilmente esposta ad aggressioni, rapine, stragi. E, come in tutta la penisola, anche a Jesi la situazione economica, già difficile, si andò facendo sempre più critica.
La plebe, immiserita e oppressa, si rifiuta di prestare la sua opera nelle varie arti e mestieri; i coloni, costretti a rinunciare al loro compiccilo, abbandonano l'aratro; la borghesia, spremuta e impoverita, trascura le industrie e i commerci. Mentre la crisi economica delle classi inferiori si inasprisce sempre più, sorge la nuova aristocrazia, quella dei latifondisti arricchitisi nell'esercizio delle più alte magistrature. Alla reazione delle masse si pone un freno colla coazione al lavoro obbligatorio, per mezzo delle corpora¬zioni dell'artigianato e del colonato forzato. Ma il rimedio non riesce ad impedire più gravi dissesti e molto meno di risolvere il grave problema economico. Anche la Vallesina, feconda di terre e di vini, languisce nel più completo abbandono. E si diffonde, anche nel Piceno, la piaga del brigantaggio. «A tutta questa congerie di mali — osserva il Natalucci — si devono aggiungere ripetute epidemie, terremoti e carestie che hanno contribuito a spopolare non solo i campi e le officine, ma le stesse città».
Per la verità Odoacre, che era giunto in Italia al comando degli Eruli, governò abbastanza bene. Secondo una norma diffusa tra i barbari, egli aveva distribuito ai suoi soldati il terzo delle terre conquistate e sperava in tal modo di contribuire a sollevare l'economia delle popolazioni locali. Tali assegnazioni interessarono anche il Piceno, ove il latifondismo era molto diffuso, ma non diede i frutti sperati perché i barbari che avevano avuto in assegnazione quelle terre, anziché lavorarle direttamente, si limitarono ad esigere dai vecchi coloni, costretti a lavorare i campi per conto degli invasori, un terzo dei prodotti.
D'altra parte gli Eruli non ebbero molto tempo a loro disposizione, perché di lì a poco l'Italia venne invasa dagli Ostrogoti. Correva l'anno 488. Guidati da Teodorico, sciamarono in Italia dalla Balcania: trecentomila persone tra guerrieri, donne, vecchi e bambini. Teodorico si scontrò con Odoacre, lo batté, gli tolse il regno e la vita. Gli Ostrogoti si spinsero nella Tuschia, nel Sannio e nel Piceno; qui essi si stanziarono in gran numero, sostituendosi agli Eruli e fortificandosi nelle città più sicure. Osimo nel Piceno divenne la loro principale roccaforte. I barbari di Teodorico, come gli altri popoli calati dalla Germania nel V secolo, non sapevano lavorare, né leggere, né scrivere; amavano solo le armi e professavano la religione ariana. Impadronitisi dell'Italia, uccisero e spogliarono dei loro beni i più ricchi proprietari ed oppressero duramente le popolazioni.
Tuttavia Teodorico si dimostrò il migliore ed il più potente dei re barbari di quel tempo. Con una politica intelligente ed accorta, nei trenta anni del suo regno risollevò le popolazioni dallo stato di miseria in cui vivevano; nelle città tornarono ad aprirsi le botteghe degli artigiani e la campagna conobbe un nuovo periodo di prosperi raccolti. Vi fu un certo risveglio anche nel commercio, nelle arti e nelle lettere. Purtroppo negli ultimi anni del suo regno, Teodorico, divenuto irascibile e sospettoso, prese a perseguitare gli Italiani. Le relazioni fra questi ultimi e gli Ostrogoti, alla morte di Teodorico, peggiorarono notevolmente, finché Giustiniano, imperatore romano d'Oriente, non decise di intervenire mandando un esercito a liberare l'Italia dagli Ostrogoti.
La «guerra di liberazione» durò ben diciotto anni (dal 535 al 553) e fu vittoriosamente conclusa dalle truppe bizantine comandate da due valenti generali: Belisario e Narsete. Durante questa guerra, nell'estate del 538 — una delle più funeste per la storia d'Italia — a peggiorare le cose giunsero dalla Gallia i Burgundi ed i Franchi. Cosicché, fra tutti, il nostro disgraziato paese sperimentò a proprie spese ogni sorta di rapina e di affronto. In molte regioni per due anni la coltivazione dei campi venne trascurata completamente; il poco e cattivo grano che spuntava veniva lasciato imputridire. Gli abitanti della Toscana si erano ritirati sui monti, dove si cibavano di ghiande; quelli dell'Emilia si trasferivano nel Piceno, colla speranza di trovare di che sfamarsi. Ma qui la desolazione era tanta che si parlava di cinquantamila contadini morti d'inedia.
Burgundi e Franchi, dopo un paio di robuste scorribande, vennero rispediti oltre le Alpi. E infine, nei pressi di Gualdo Tadino, i Bizantini annientavano per sempre gli Ostrogoti, ricongiungendo l'Italia, come si è detto, all'Impero Romano d'Oriente.

LA PENTAPOLI

Sotto l'autorità di Giustiniano, l'Italia poté godere finalmente di un periodo di vera pace, non molto lungo: una quindicina d'anni, che tuttavia diedero modo alle popolazioni della penisola di riorganizzarsi, di ripopolare le città, di riattivare le industrie, il commercio, le arti.
Come in altri territori, anche nella Vallesina tornò in auge il latifondismo ed ebbero incremento, sviluppandosi, le organizzazioni agricole delle villae e delle curtes.
L'Italia, divenuta provincia dell'Impero Romano d'Oriente, in quei quindici anni fu governata da una Esarca, cioè da un emissario di Giustiniano. L'esarca risiedeva a Ravenna ed aveva poteri civili e militari; dall'esarca dipendevano i duchi, asserviti ai Bizantini, e a quel tempo la maggiore preoccupazione dei duchi era quella di spogliare l'Italia e gli Italiani — con provvedimenti fiscali oltremodo onerosi — delle ricchezze che era ancora possibile sottrarre. Ciò doveva essere causa di nuovi lutti e rovine per gli Italiani. Infatti, quando nella primavera del 568 una nuova e più violenta ondata di barbari si riversò sulla penisola, i Bizantini, che erano praticamente senza esercito, non tentarono neppure di resistere, preferendo chiudersi nelle città fortificate. Non si opposero i Bizantini e meno ancora si opposero gli Italiani; i quali, condannati ormai all'inerzia, non reagirono neppure sotto la minaccia di rapine e violenze.
I nuovi arrivati, i Longobardi, pur non essendo molto numerosi, ebbero così facile gioco nell'assoggettare una parte considerevole della penisola. I Longobardi, così detti dalla lunga barba, erano popoli germanici che gli antichi Romani già conoscevano per la loro ferocia, una ferocia eccezionale, quale nessun invasore aveva mai dimostrato. Completamente incivili, di aspetto terrificante, avevano solo sete di sangue e di ricchezze. Sotto il comando di re Alboino, entrarono in Italia saccheggiando e uccidendo. Man mano che avanzavano, distruggevano castelli, incendiavano chiese, radevano al suolo conventi; le città si spopolavano e i campi, abbandonati, restavano incolti. Nonostante ciò, i Bizantini riuscirono a mantenere il possesso di molte zone d'Italia.
Occupata dai Bizantini e soggiogata dai Longobardi (che a loro volta dividevano il loro territorio in trentasei ducati), l'Italia veniva a trovarsi ora divisa in due parti. Quella dom¬nata dai Longobardi comprendeva il Veneto, la Lombardia, il Piemonte, una parte dell'Emilia, la Toscana ed i vasti ducati di Spoleto e Benevento. Tutto il resto era in mano ai Bizantini.
Jesi, che era rimasta nei possedimenti di questi ultimi, faceva parte dell'Esarcato di Ravenna e più precisamente della dodicesima provincia bizantina, detta Pentapoli annonaria o mediterranea, che comprendeva Urbino, Fossombrone, Jesi, Cagli e Gubbio (c'era anche una Pentapoli marittima, di cui facevano parte Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia e Ancona). Nelle città dell'Esarcato la scarsità e la debolezza dei presidii bizantini resero necessario lo sviluppo delle milizie locali; si formarono così le «scholae» o corporazioni della milizia, costituite di uomini avviati all'uso delle armi, che sapevano combattere «pro aris set focis».

PAROLE LONGOBARDE

Jesi, seppure rimasta sotto la giurisdizione di Ravenna, non poté sottrarsi alla ferocia dei Longobardi. Le prime e più sanguinose incursioni di questi barbari avvennero, nella Vallesina, tra il 575 e il 584, cioè a dire nel periodo tristemente famoso dell'interregno. Nel 573 Alboino era stato ucciso in una congiura; analoga sorte era toccata, un anno e mezzo dopo, al suo successore Clefi e per un decennio i Longobardi non erano stati capaci di darsi un re. Cosicché i loro duchi, che inizialmente erano semplici comandanti militari, approfittando dell'anarchia che si era venuta a creare, si atteggiavano a veri padroni dei rispettivi ducati. E le loro soldataglie, assecondando le bramosie dei duchi, scorazzavano e occupavano qualsiasi territorio non adeguatamente difeso. Uno di questi, evidentemente, era quello della Vallesina che, occupato e depre¬dato da bande di Longobardi, passò di fatto sotto il ducato di Spoleto.
A conferma di questa lunga presenza longobarda nello Jesino, il Grizio nota che molte parole del nostro dialetto sono di chiara derivazione longobarda. Gli fa eco, come al solito, il Gianandrea: «Parecchie parole di origine evidentemente germanica si riscontrano infatti nel nostro vernacolo; es. sbregare o sbrego da brechen (rompere) e slmilmente forse breccia (la ghiaia), steppa (manrovescio) da schiappe; maghetti (ventrigli di pollo), magò (peso sullo stomaco) da magen (stomaco), begare (piegare, inchinare) da biegen; luta (favilla) dal gotico liuhtian; sornacchiare (russare) da schnarchen; e così sghescia (fame eccessiva), sguattero (servo di cucina), ecc. Ma non saprei invero — conclude il Gianandrea — come ciò possa parere al Grizio argomento inconvincibile per dimostrare che tali popoli barbari ruinarono Jesi ».

La storia di Jesi

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