giovedì 3 febbraio 2011

SAN SETTIMIO


SAN SETTIMIO
Arriviamo così al 300 dopo Cristo, anno in cui sarebbe giunto a Jesi Settimio, primo messaggero della nuova religione nella Vallesina. L'impero, che negli ultimi decenni ha accusato grossi scricchiolii a causa delle sempre più frequenti scorrerie dei barbari, è ora retto da Diocleziano (284-305). E, questi, un imperatore di origine illirica. Eletto dai soldati, ha afferrato il potere con mano energica; si circonda di una corte sfarzosa, veste alla maniera degli orientali e pretende di essere onorato come un dio. Diocleziano è dunque al potere da una quindicina di anni quando giunge a Jesi Settimio, primo vescovo della nostra diocesi. La vita di questo santo è costruita dalla leggenda e dalla devozione, mancando sul suo conto ogni notizia precisa e documentata; anche noi quindi ci riferiamo, nello scriverne, alla tradizione popolare.
Settimio era nato in Germania nel 250 dopo Cristo da famiglia nobile. Appena quindicenne si era arruolato nell'esercito romano di stanza in Germania e nell'ambiente militare aveva fatto conoscenza con Emidio, dal quale era stato convertito al cristianesimo. Entrambi poi, per meglio dedicarsi alla nuova religione, avevano abbandonato la carriera militare. Dalla Germania erano passati in Francia e quindi in Italia. Dopo essersi fermati per qualche tempo a Milano, si erano portati a Roma.
"Settimio, ivi giunto e visitato con le dovute riverenze il sepolcro dei beatissimi Pietro e Paolo e benignamente ricevuto in casa di un soldato di nome Glaciano, con la virtù di Dio gli liberò una figlia dal flusso del sangue che cinque anni portato l'aveva; onde la famiglia tutta si fece cristiana. Ridiede anche la vista ad un cieco, che pure si convertì."
A Roma, Papa Marcello I aveva consacrato vescovi Settimio ed Emidio, inviandoli nelle Marche, il primo a Jesi ed il secondo ad Ascoli Piceno.
A Jesi, Settimio operò in breve tempo numerose conversioni, il che suscitò la reazione dei più accesi pagani che studiavano il modo per potersi liberare dello straniero. L'occasione venne loro offerta da un decreto dell'imperatore. Infatti, Diocleziano, che aveva trasferito nel frattempo la capitale dell’impero a Nicodemia, nella Bitinia, era diventato sempre più intransigente con i cristiani. Nell'anno 303 emanò il primo di uno dei tanti editti con cui condusse il più grande tentativo fatto dall'impero per estirpare la nuova religione: per la gravita dei danni, il numero delle vittime, l'orrore dei supplizi, quel tentativo passerà alla storia come «la grande persecuzione» o «era dei martiri».
Denunciato dai pagani come «pericoloso nemico dell'impero di Roma», Settimio si trovò così al cospetto di Florenzo, preside romano che governava la colonia di Jesi. Florenzo lo ammonì a non continuare in quella sua attività contraria alla religione di stato, ma il santo intensificò le sue predicazioni, accompagnandole anzi con molti miracoli. Florenzo lo convocò di nuovo e gli intimò di sacrificare agli dei entro cinque giorni, pena la vita. Settimio stimò allora opportuno uscire dalla città per poter continuare con meno rischi l'opera di proselitismo. Si ritirò al di là del fiume, seguito da una folla di convertiti fra i quali la figlia del preside romano, Merenzia, desiderosa di ricevere l'acqua del battesimo di Cristo. Settimio, per praticare il sacramento, avrebbe potuto servirsi delle acque del fiume, ma non osò — dicono gli «storici» — perché sarebbe stato necessario spingersi fin sotto le mura della città, con grave rischio. Fece allora il miracolo di far scaturire dal terreno, in prossimità dell'attuale ponte San Carlo, uno zampillo d'acqua sorgiva.
Allo scadere del quinto giorno si presentò a Florenzo, il quale ordinò che fosse a Settimio percosso il capo con una scure. La sentenza venne eseguita sul luogo stesso ove il santo aveva compiuto il miracolo dell'acqua sorgiva. Prima che la lama del boia gli recidesse il capo, Settimio avrebbe esclamato: «Si bagni pure del mio sangue questo suolo, affinché su di esso nascano non più pagani, ma proseliti alla legge di Dio!».
Secondo il Grizio, la popolazione jesina ebbe un impeto di ribellione contro il prefetto romano: Florenzo fu dal furore dei cittadini irati ammazzato; il popolo gettò a terra il palazzo del detto prefetto, che era posto nella contrada di Fiorenzola, detta dal suo nome in quei tempi Fiorenza, e ne edificò un altro dirimpetto, per la memoria del santo, alla chiesa di San Salvatore (oggi San Nicolò); ma tutto questo è estremamente improbabile. Le ossa del primo vescovo e martire di Jesi, trafugate dai primi cristiani per salvarle dalla profanazione dei pagani, vennero nascoste così bene che per lunghi secoli nessuno seppe più dove erano state riposte: saranno ritrovate soltanto dopo 1.165 anni. San Settimio venne decapitato nel 304. L'anno dopo l'imperatore Diocleziano, stanco e deluso da una politica fallimentare, abdicava. L'abdicazione di Diocleziano significò per l'impero romano nuove guerre civili alimentate dagli immancabili pretendenti alla successione. A mettere fine a quel convulso bailamme ci pensò Costantino, il quale fece piazza pulita di tutto e di tutti, insediandosi quale unico imperatore.
Costantino (il solo fra i successori di Augusto che sia stato capace di rimanere sul trono per più di trent'anni) lasciò di sé una traccia molto importante: non tanto per aver diviso il potere civile da quello militare e neppure per aver trasferito la capitale dell'impero a Bisanzio, ma per il famoso «editto di Milano» del febbraio del 313, grazie al quale finalmente i cristiani potevano professare in piena libertà la loro fede senza essere in alcuna maniera molestati. Anche a Jesi i numerosi convertiti da San Settimio non ebbero più bisogno di tenersi nascosti e le file dei cristiani andarono rapidamente infoltendosi in ogni ordine sociale.

LA PRIMA CATTEDRALE

Primo pensiero dei fedeli jesini fu di erigere una chiesa dedicata a San Settimio. E fu, quella, la prima cattedrale di Jesi. Ma non si sa con precisione quando e dove sorgesse. Alcuni dei nostri storici affermano che venne costruita sul punto più elevato della città, ove si ergeva in precedenza il tempio di Giove, ove cioè è l'attuale chiesa cattedrale; altri indicano come ubicazione più probabile il luogo dov'è oggi la chiesa dissacrata di San Nicolò. Entrambe le ipotesi, però, fanno a pugni con la storia e la logica. Vediamo. La prima ipotesi viene a cadere quando si sa che, come vedremo, ancora nei decenni che seguirono l'editto di Milano era proibito abbattere o adattare i templi pagani; non è da credere che i cristiani di allora attendessero l'abrogazione di quella legge per innalzare una chiesa intitolata al loro patrono. L'altra ipotesi, ben più fragile, non regge perché è scontato che a quei tempi la città era tutta raccolta nel vecchio nucleo storico e non si vede perché mai la cattedrale avrebbe dovuto essere edificata in zona scampagnata, seppure non molto lontana. E' senz'altro da ritenere, quindi, che la prima chiesa jesina sorgesse nell'acropoli, ma su un'area diversa da quella della cattedrale di oggi.
Di quella chiesa si è poi perduta ogni traccia, o perché ebbe a subire nel tempo radicali trasformazioni che ne fecero dimenticare l'originaria struttura e destinazione, o perché rovinò con gli anni. Non a caso il Cecon osserva che venne costruita «in un periodo di deficienza, se non di mancanza, di alcuni materiali, ma soprattutto di carenza di tecnici, per cui l'opera non poté allora essere riuscita con quel criterio estetico e con quella stabilità che sarebbero stati desiderabili».

Storia di Jesi

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