LA NOSTRA "BETLEM"
Nel 1234, ad
accendere la miccia fu uno dei giovani figli di Federico II, Enrico, che si
trovava in Germania. Enrico, alleatosi con alcuni Comuni dell’Alta Italia, si
ribellò. Il padre lo raggiunse in breve tempo, lo affrontò, lo vinse e lo mandò
prigioniero in Puglia. Quindi sconfisse anche alcuni Comuni dei ribelli,
Vicenza, Padova e Bergamo. Ma altri Comuni, come Milano, non cedettero, anche
grazie all’intervento del Papa, preoccupato dei successi dell’imperatore svevo.
Il pontefice, accusando Federico II di essere venuto meno agli accordi di San
Germano, il 20 Marzo 1239, lo scomunicò per la seconda volta, adducendo ben
sedici motivazioni.
Questa
volta Federico II rispose alla scomunica con le armi. E, tanto per cominciare,
essendo egli impegnato nel nord Italia, incaricò il figlio Enzo, nominato in
precedenza re di Sardegna, di impadronirsi della Marca di Ancona. Il papa mandò
contro il giovane Enzo un esercito guidato dal Cardinale Colonna. Inutile dire
che le città si schierarono chi per l’imperatore, chi per il pontefice.
Nell’agosto
di quell’anno, Federico II indirizzava agli Jesini, tramite il figlio Enzo, una
lettera per incitarli a schierarsi dalla sua parte. «Se il luogo nativo»,
recitava la lettera, «con un certo effetto di naturale volontà è da tutti
indifferentemente amato in modo speciale, se l’amore della patria con la sua
dolcezza tutti stringe, né permette loro di essere immemori di essa, con pari
ragione, secondo che ne detta la natura, siamo attratti e abbracciare con
intimo affetto Jesi, nobile città della Marca, principio insigne dell’origine
nostra, ove noi la diva madre nostra diede alla luce, ove risplendette la
nostra nascita. Questo fa che non possa dipartirsi dalla nostra memoria quel
luogo, e la nostra Betlem e la terra e l’origine di Cesare non rimanga
profondamente radicata nell’animo nostro: onde tu, Betlem, città della Marca
non ultima, sei tra le principali della nostra prosapia. Da te, infatti, uscì
la guida e il capo del Romano Impero, che reggerà il popolo tuo, e non patirà
che tu più oltre soggiaccia ad ostile reggimento. (…) Sorgi, dunque, principia
genitrice, e scuoti l’indebito giogo. Laonde noi misericordiosi alle gravezze vostre
e degli altri nostri fedeli, deliberammo di liberar voi e gli altri fedeli
nostri, sia della Marca sia del Ducato Spoletano, dalla soggezione del nostro
oltraggiatore, il quale avendo per la sua manifesta ingratitudine demeritato di
noi e dell’impero, credemmo di sciogliervi dal giuramento da voi, salvo il
diritto dell’impero stesso, prestato alla Chiesa, mandandovi il nostro diletto
figliuolo.»
Gli
Jesini non tardarono ad accorrere all’appello di Federico II. Sempre nel 1239,
e precisamente nel mese di ottobre, il principe Enzo, che si trovava accampato
presso il fiume Musone, compilava un diploma a favore della nostra città.
Considerando la sincerità della fede e
la molteplicità delle prove di devozione della città di Jesi verso l’imperatore
suo padre, con quell’atto il giovane
principe le concedeva e confermava in
perpetuo l’intero suo contado con i castelli e le ville in esso esistenti e coi
loro abitanti dentro e fuori. E nominatamente le ville delle Ripe e del Monte
delle Torri (situate nelle colline a levante della città), i Castelli di Morro,
Albarello, Monsanvito e tutto ciò che le fu già concesso dal Comune di
Senigallia e la selva di Castagnola e le sue pertinenze, con piena ed intera
giurisdizione e con ogni altro diritto spettante all’Impero nei luoghi
predetti. Accordava inoltre ai cittadini di Jesi sicurezza assoluta nelle
persone e nelle cose, rimettendo loro ogni offesa fatta per qualunque ragione
all’Impero medesimo. Dava facoltà al Comune di Jesi di costituire il proprio
reggimento nella città, e fuori, e nel contado, e nei luoghi predetti e ovunque
abbia suoi cittadini e castellani, con pieno potere di punire ogni delitto, e
piena e mera giurisdizione sopra ogni delinquente in essi luoghi. E in simil
modo, di formare statuti da osservarsi a loro arbitrio e volontà; e che gli
uomini di Jesi e delle sue dipendenze non fossero sottratti dalla giurisdizione
e dalla curia della città, e se chiamati fuori a tal uopo non fossero tenuti
d’obbedire. Li autorizzava a vendere le loro derrate e ogni altra cosa che
volessero e portarle e farle portare in ogni luogo per mere o per terra senza
alcun pedaggio o dazio e senza alcun ostacolo da parte dell’Impero. Infine concedeva alla città di avere un porto
sul mare, «liberum et absolutum», dovunque le fosse piaciuto per tutta la
giurisdizione dell’Impero nella Marca.
L’atto
memorando si chiudeva con le seguenti parole: «Se fosse avvenuto in alcun tempo
un accordo tra l’Impero e la Chiesa, per il quale la Marca avesse dovuto a
questa restituirsi, l’Imperatore non l’avrebbe restituita senza la promessa che
il regio diploma fosse mantenuto in perpetuo alla città di Jesi.» La presa di
posizione a fianco dell’Imperatore comportò per tutti gli jesini la scomunica
papale.
QUATTROMILA MORTI
Nel frattanto il pontefice aveva convocato a Roma il
concilio per decidere sulla contesa. Ma Federico II volle impedirlo. Fece
assalire dai Pisani la flotta genovese che portava a Roma i vescovi francesi,
poi cercò di impadronirsi addirittura della persona del papa: marciò contro
Roma ed era già alle porte della capitale quando Gregorio IX, quasi centenario,
moriva. Gli successe sul trono pontificio, due anni dopo, il cardinale Fieschi,
che prese il nome di Innocenzo IV. Il Fieschi era sempre stato amico di
Federico II, il quale, saputo della nomina, ebbe a dire: «Non si è mai saputo
che un papa sia ghibellino». Ed infatti ghibellino più non era, perché
Innocenzo IV, rispolverando il programma del suo predecessore, si trasferì in
tutta segretezza a Lione e là tenne quel concilio che non si era potuto tenere
a Roma. E fu un processo a Federico II. Correva l'anno 1245.
A
Lione l'imperatore svevo inviò, quali suoi ambasciatori, Pier delle Vigne e
Taddeo da Sessa, i quali, con brillante oratoria, cercarono di far valere le
ragioni del loro rappresentato. Ma senza successo. Federico II, riconosciuto spergiuro,
eretico e ribelle, venne scomunicato per la terza volta ed i suoi sudditi
vennero sciolti dal giuramento di fedeltà.
Ciononostante
gli Jesini rimasero fedeli all'imperatore e continuarono a combattere sotto le
sue insegne agli ordini di Roberto di Castiglione, a fianco di altri
ghibellini della Marca, contro i guelfi comandati da un anconitano, Marcellino
Pete, vescovo di Arezzo. La scomunica che colpì gli Jesini questa volta non
risparmiò neppure il Capitolo della Cattedrale, come risulta da una lettera di
Innocenzo IV del 30 maggio 1247. La diocesi di Jesi, in quel periodo, restò
ovviamente senza vescovo.
La guerra tra pontifici ed imperiali raggiunse
la fase più acuta verso la fine del 1247 e l'inizio del 1248. La grande battaglia,
che si svolse presso Osimo e Civitanova, doveva essere l'estremo colpo per le
truppe pontificie e mirava alla conquista di Ancona, primo sostegno del partito
guelfo e del legato pontificio. L'armata imperiale era formata da saraceni,
truppe di Macerata, Jesi, Senigallia, Matetica ed Osimo. Con le milizie della
Chiesa erano questa volta, oltre agli Anconetani, gli uomini di Camerino e
Recanati. Lo scontro fu terribile e si risolse in una grave sconfitta per le
truppe pontificie: si dice che gli Anconetani abbiano avuto perdite fortissime;
molti di essi furono uccisi o fatti prigionieri. Il Carroccio cadde nelle mani
degli Osimani, che si impadronirono anche della bandiera. Il Gianandrea riferisce che i guelfi
lasciarono sul campo più di quattromila morti. Il vescovo Marcellino, fatto
prigioniero, finì impiccato dopo aver subito ogni sorta di sevizie. Tutte le
città delle Marche erano ora sotto il dominio di Federico II.
MORTE DI FEDERICO II
II 1248 segnò, però, anche il principio della fine
dell'imperatore svevo. Nel Nord Italia i guelfi
espugnarono Parma, roccaforte dei ghibellini. Federico II, deciso a prendersi
la rivincita, strinse d'assedio la città,
ma i guelfi ebbero ancora la meglio: durante una sortita, approfittando del
fatto che Federico II era impegnato in una battuta di caccia al falcone, sconfissero
le sue truppe, costringendole a togliere l'assedio.
Pochi
giorni prima di quella disfatta, Jesi era tornata alla Chiesa. « Da quali cagioni
e da quali fatti fosse determinato questo ritorno noi non sappiamo — scrive il
Gianandrea, che aggiunge : — Ci piace però di notare, a difesa dei nostri
dall'accusa di vile abbandono, che esso avvenne prima, sia pure di pochi
giorni, dalla strepitosa rotta di Parma ».
Jesi ottenne dal vicario del papa, cardinal Raniero,
venuto direttamente a Jesi il 13 febbraio 1248 per ricevere la soggezione dei nostri, ampia conferma
della donazione di re Enzo con altri importanti diritti e privilegi e con l'aggiunta
al suo dominio del castello di Montecarotto.
Dopo
la sconfitta di Federico II a Parma, mentre altre città che gli sembravano
fedeli defezionavano, l'imperatore subiva un altro grave colpo a Fossalta: qui
i Bolognesi battevano Enzo in campo aperto (imprigionatolo, non lo libereranno
più). La stella di Federico II volgeva ormai al tramonto. Lo stesso imperatore,
mentre si trovava nel Castello di Ferentino, presso Luceria in Capitanata, e si
preparava a respingere le armate papali dell'Italia meridionale, veniva colto
da violente febbri. Il 13 dicembre del 1250 moriva. Poco prima il suo
segretario Per delle Vigne, caduto in disgrazia e finito in galera, si era
ucciso. Da Lione il papa annunciò la morte di Federico II con lettere che
rimasero famose.
Nella
« Divina Commedia », composta circa cinquant'anni dopo la morte di Federico II,
Dante, che lo ricorda più volte nel suo poema, lo porrà nell’Inferno tra
gli eresiarchi; tuttavia nel Paradiso, additando la luce della « gran
Costanza », la madre di Federico, accennerà a lui come all’ultima
possanza » dell'impero.
Con
la morte di Federico II e il ritorno del Comune di Jesi sotto l'autorità della
Chiesa, i guelfi ripresero a governare la nostra città. Una delle loro prime
deliberazioni fu quella — varata nel 1250 — di entrare a far parte di una Lega
di Comuni alla quale avevano già aderito Ancona, Cagli, Fano, Fossombrone e
Pesare. Questa Lega doveva servire a serbare così unite più costante la
filiale obbedienza e la fede alla S. Chiesa romana.
Si trattava di una mossa opportunistica per far dimenticare
evidentemente il recente passato della Jesi ghibellina. Il papa, ad ogni modo,
non se ne dimostrò dispiaciuto; infatti nel 1253 scriveva al rettore della
Marca ingiungendogli di mantenere e difendere le ragioni e i diritti della
Comunità jesina e a non imporre e indurre indebite novità. Ma il rettore
della Marca fece orecchie da mercante e privò gli Jesini del Conta do:
essi ricorsero e la loro causa fu commessa da altro rettore della Marca a
Guglielmo da Piacenza e ad Alamanno da Firenze, i quali sentenziarono a favore
degli Jesini e ad essi fu restituito il Contado.
La storia di Jesi - leggi l'e-book
La storia di Jesi - leggi l'e-book
Nessun commento:
Posta un commento