LA PRIMA SIGNORIA
Le lotte interne tra le fazioni guelfe e ghibelline
avevano finito con l'indebolire i Comuni e stancare il popolo. Della cosa
approfittarono i podestà ed i capitani del popolo, molti dei quali, chi con
l'astuzia chi con la forza e chi con un saggio governo, misero le mani sul
potere, conquistando stabilmente il governo delle città e rendendolo ereditario
nella loro famiglia. Le popolazioni, che, come si è detto, erano stanche di
guerre e di lotte fratricide, finirono per adattarsi a vivere sotto i nuovi
capi. Questi furono detti Signori e Signoria era chiamato il loro governo.
Benché
nella maggior parte questi Signori fossero violenti e prepotenti, dimostravano
quasi sempre di avere a cuore gli interessi delle città; amministravano
saggiamente la giustizia, davano impulso alle attività economiche ed artistiche,
mirando anche ad estendere i loro possedimenti, assoldando allo scopo truppe
mercenarie — le cosiddette Compagnie di Ventura — di cui si servivano anche per
consolidare la Signoria, se non per raggiungerla.
Anche a Jesi il Libero Comune dovette subire presto l’ingerenza
e la tracotanza dei Signori. Infatti, non erano trascorsi cinque anni dalla
morte di Manfredi, che dello stato di disordine che regnava in città a causa
delle contese tra guelfi e ghibellini, logorati da odi e rivalità, approfittò
la famiglia Baligani per impadronirsi di Jesi. Il colpo di mano riuscì nel
1271, perché i Baligani, che in effetti miravano ad imporre la loro Signoria,
avevano saputo accattivarsi l'appoggio dei cittadini contrari ai guelfi.
Si chiamavano Niccoluccio, Uguccinello e
Filippuccio, i tre Baligani (Balleani) che riuscirono a prendere le redini del
comando. Ma non durò molto la loro Signoria, perché un'altra potente famiglia,
i Simonetti, diede loro battaglia per la conquista del potere. Anche i
Simonetti erano tre: Mercenario, Rinaldo e Guglielmo. La contesa fra le due
famiglie fu acerrima, con non piccolo travaglio per tutta la città. Alla
fine ebbero la meglio i Simonetti, che, cacciati i Baligani, li sostituirono
nella Signoria di Jesi.
Nel
1280 comparve sulla scena jesina uno dei Signorotti che, se non fu tra i
principali della ribalta italiana, non fu neppure dei minori. Ne parla il
Grizio quando accenna ad alcuni Jesini che in quell'anno «avevano indegnamente
favorito il conte Guido da Montefeltro, ribelle alla Chiesa e fautore dei Forlivesi,
medesimamente ribelli». Guido da Montefeltro, capo dei ghibellini della
Romagna, in effetti compì delle incursioni vandaliche a danno delle nostre
popolazioni (poi si pentì e si fece frate: morirà in un convento di francescani
nel 1298).
Nel
1287 si stabiliva a Jesi un'altra famiglia, quella dei Franciolini, che diverrà
famosa e farà parlare di se per almeno cinque secoli.
SI ALLARGA
IL CONTADO
Abbiamo visto che il Contado jesino si era formato tra
la fine del XII secolo e gli inizi del XIII secolo, con le annessioni di una
decina fra ville, castelli ed abbazie. Ma era destinato ad allargare i suoi
confini.
Nel 1248 si erano «collegate» con la
nostra città le genti di Serra de' Conti, Corinaldo, Mergo e Tessenaria. Tré
anni dopo era stata raggiunta un'intesa con Staffolo e Storaco, mentre
rientravano nel Contado i castelli di Accola e Ripe, i cui Signori,
rispettivamente Corraduccio e Cozzone, nella circostanza facevano ai nostri molte
promesse di denari, uomini e altre cose. Era stata poi la
volta di Montenuovo e quindi di Montalboddo. Nel 1257 si annetteva anche
Barbara.
Nella seconda metà del XIII secolo
alcune ville, come quelle di Talliano (Maiolati). di S. Benedetto de'
Frondigliosi (Castelplanio) e di S. Mustiola erano ancora sotto la signoria del
vescovo di Jesi. Da questi dipendevano anche la Tessenaria, Poggio San
Marcello e Montecarotto. In seguito anche queste terre entrarono a far parte
del Contado Jesino, ma prima che ciò accadesse, proprio in conseguenza della
politica annessionistica del nostro Comune, erano sorti fra il Comune stesso
ed il vescovo dissapori, litigi e scandali, con danno di ambedue e degli
abitanti di quei castelli. C'era stato anzi un periodo in cui Giovanni II,
vescovo jesino — il ventiduesimo della serie — non vi poteva mandare i suoi
vicari e nunzi senza che corressero pericolo di vita.
I rapporti
fra autorità civile e religiosa erano così tesi che Giovanni II, per
tornare in pace col Comune di Jesi e per togliere tanti scandali e danni,
aveva indirizzato al pontefice Nicolò IV una supplica. Vi si faceva presente
che alcuni vassalli del suo vescovato della villa di Poggio S. Marcello e
del castello dì Montecarotto (i quali erano i più ricchi ed i più potenti
vassalli di essa sede vescovile) dispreggiavano la signoria del vescovo e
temerariamente sottraendo se stessi dalla detta giurisdizione sottraevano
dalla medesima i vassalli inferiori; cosicché il vescovo non poteva avere
pacificamente dai medesimi i dovuti servigi ed essi gli erano più di peso che
di onore.
Stando così le
cose, il vescovo Giovanni II supplicava il pontefice che gli fosse
permesso di sciogliere ed affrancare un cinquanta di vassalli dei più ricchi e
potenti e ripigliare da essi la metà dei beni mobili ed immobili, e convertirli
in utilità della sede vescovile. Il papa ne scrisse per informazione al
Vescovo di Ancona; non si sa cosa questi rispondesse; sta di fatto che la
richiesta del vescovo Giovanni II cadde nel vuoto. Poiché la situazione non
accennava a migliorare, analoga richiesta, venne rivolta qualche tempo dopo da
un altro vescovo jesino, Leonardo da Patrasso, a papa Bonifacio VIII.
Leonardo era giunto a Jesi da Alatri nel 1295 dopo che
il vescovo Giovanni II era stato trasferito, nello stesso anno, alla sede di
Osimo. L'istanza di Leonardo, che impetrava dal papa l'autorizzazione a vendere
al nostro Comune per tremila lire ravennati ed anconitani, la sua
giurisdizione su quelle ville e castelli e ad acquistare col ricavato altri
beni, venne accolta. Cosicché, tra il 1301 ed il 1302, anche Poggio San
Marcello. Montecarotto, Castelplanio e le ville di S. Mustiola e di Tessenaria
passarono al Comune di Jesi (le ville di S. Mustiola e di Tessenaria furono poi
comprese nei territori di Poggio S. Marcello e di Rosora).
Così il Comune di Jesi spingeva il suo Contado verso l'occidente e lo
arrotondava per ogni parte. L'ultimo acquisto lo portò a contatto con
Roccacontrada, oggi Arcevia, colla quale ebbe pure qualche lite rispetto ai confini.
Naturalmente tanto più era vasto il territorio del
Contado e tanto maggiori erano le preoccupazioni di chi doveva governarlo,
stanti le continue divergenze con questo o quel centro del Contado per
questioni di confine o per i tributi da versare all'erario jesino. Così il
castello di Ripe, ad esempio — tra i più irrequieti ed insofferenti —, col
quale liti e rotture erano si può dire all'ordine del giorno. Nel 1299 i
ripesi, dopo molte discordie e saccheggi, venivano ad un'ennesima
composizione con i Nostri. Risulta che all'atto di riappacificazione
intervennero quella volta anche i sindaci di Ancona e Polverigi.
Non
è da credere, tuttavia, che gli Jesini fossero necessariamente despoti e
profittatori nei confronti delle popolazioni del Contado. Non furono tali,
almeno, con i monaci di Chiaravalle allorché questi fecero l'ultima cessione al
nostro Comune; una cessione senza alcuna riserva. In quella occasione
gli Jesini «non furono ingrati — nota Giovanni Annibaldi — perché il 4 ottobre
1308 diedero licenza all'abbate, ai monaci, ai famigliari e grancieri di S.
Maria di Chiaravalle in Castagnola di stare entro il distretto di Jesi; di
andare, di ritornare e di pascolare sopra i loro beni e possessioni poste nel
territorio di Jesi con i loro animali e le loro bestie».
Il
Contado comportava poi per gli Jesini contestazioni e vertenze con i Comuni
limitrofi, che contendevano al Nostro la giurisdizione su talune località di
confine. Ed in questi casi contestazioni e vertenze non di rado finivano, come
vedremo, davanti ai tribunali della S. Sede.
All'inizio
del XIV secolo, comunque, il Contado jesino aveva una estensione considerevole.
Praticamente abbracciava tutta l'attuale Vallesina. Delle ville e dei castelli
sorti nel 1200, alcuni, come quelli di Moie, Castelmontano, Boccaleone, Montereturri,
Maccarata e Rovegliano, oggi non esistono più. Di taluni, anzi, si ignora
addirittura l'ubicazione precisa. «Questa distruzione — scrive l'Annibaldi —
avvenne per parecchie cause, quali la pestilenza, le guerre, il desiderio di
vivere uniti e più sicuri entro le città. Ma la principale fu che i nostri
antichi, alle famiglie ed ai popoli che si assoggettavano a Jesi, imponevano
sia di accrescere la città e sia, per non essere costretti a perdere o a
difendere punti non difendibili, di recarsi ad abitare entro le mura cittadine
o dentro i castelli più strategici ed elevati, specialmente verso la periferia
del Contado». E conclude: «Con questa politica, come il mondo divenne romano,
così la valle tra il Musone e il Misa, fra l'Appennino e il mare, divenne
jesina: fecit ex omnibus unum».
ORGANIZZAZIONE
DEL CONTADO
A questo punto i reggenti della repubblica jesina
ritennero che era tempo di disciplinare l'amministrazione del Contado ed
organizzarne la difesa. Nel 1294 compilarono il catasto di tutti i possedimenti
contenuti entro il territorio di Jesi, sia degli Jesini che dei contadisti e
dei forestieri, escluse le proprietà ecclesiastiche (i proprietari erano classificati
per parrocchie). Il catasto era in pergamena ed in bei caratteri.
Per
potenziare le proprie finanze, il Comune tra il gennaio del 1295 ed il giugno
del 1297 acquistò dai privati, lungo il corso dell'Esino, più di trenta ruolini
e canali nel territorio superiore della città verso la sorgente del fiume; nei
primi spese ottomila e quaranta lire ravennati ed anconitane, nei secondi ne
spese mille e quattrocentonove e sette soldi. In realtà, si trattò di un
investimento eccellente, perché da quei molini il Comune traeva la rendita
maggiore e quindi le tasse erano nulle o leggerissime.
Per
incrementare gli scambi ed il commercio, nel 1304 il Comune istituiva la fiera
di San Settimio, la cui durata era ben maggiore di quella che si tiene
oggigiorno; allora cominciava il 22 settembre e terminava il 15 ottobre. La
fiera di San Settimio era la più importante (così come lo è ancora oggi, pur
essendo limitata attualmente a soli tre giorni). Altre fiere famose furono
quella di San Floriano, che iniziava il 30 aprile e si concludeva l’8 maggio,
e quella di S. Maria, che si teneva nel mese di marzo.
La
difesa della città e del Contado era però sempre al centro dell'attenzione
degli Jesini, ai quali non sfuggivano i vantaggi politici ed economici
derivanti dal mantenimento di una radicata influenza sul territorio
giurisdizionale. E perché tale difesa fosse possibile era necessario in primo
luogo che in città regnassero pace ed armonia. Per raggiungere questo
obiettivo, gli Jesini vennero ad una generosa risoluzione.
Una cinquantina
di capi delle principali famiglie nel giugno del 1302 giurarono in forma
solenne sul Vangelo non solo di non turbare lo stato pacifico della città e di
non consentire a chi volesse turbarlo, ma anche di opporsi «a tutta possa» contro chiunque ardisse di turbarlo. E vollero non solo
espressamente sottostare, in caso contrario, a tutte le pene contenute negli
statuti del Comune, ma anche pregarono il vescovo Leonardo a metter la
scomunica contro chiunque di loro rompesse la fatta promessa. E il vescovo
nello stesso giorno «il
fece paghi».
L'anno
dopo il Comune, che aveva acquistato una fascia di terra lunga dodici metri, vi
fece scavare un canale per opera di un certo maestro Francesco di S. Anatolia, derivandovi
l'acqua dell'Esino e conducendolo fin sotto le mura della città; di quelle
mura che nel frattempo erano state ampliate per racchiudere entro le stesse
anche la borgata di San Pietro. L'ampliamento delle mura di cinta era stato
deciso sia perché il borgo di San Pietro aveva assunto un notevole sviluppo
demografico ed edilizio e sia perché il territorio esterno al pomerio era
allora battuto da soldataglie che tenevano in costante apprensione gli
abitanti di quella grossa borgata. Del resto in tutta la città l'edilizia aveva
fatto considerevoli passi in avanti. Si andavano sostituendo via via le antiche
costruzioni ormai in rovina con nuovi edifici; la città stessa, durante le
guerre municipali, era stata cinta di mura simili a quelle romane; ed
attorno a quelle mura appunto venne scavato l'ampio fossato a difesa (il
vallato, n.d.A.).
Tra le iniziative più rimarchevoli a difesa del
Contado, va ricordato un quadrilatero di rocche agguerrite e situate in posizioni
strategiche. La prima, detta Follonica, era situata su un colle sulla destra
del torrente Cesola, ai confini con Staffolo. Gli Jesini «nel 1303, ai 21 di
maggio, la davano in custodia e in governo a Rinalduccio di Bufo da Jesi —
scrive Giovanni Annibaldi, che osserva: “Da molto tempo non è che un mucchio
di rovine, ove i miseri e i creduli spesso vanno a cercare un tesoro, che non
trovano mai...”».
A fianco di quella torre, sulla collina opposta, alla
sinistra del Cesola, sorgeva la rocca di Rovegliano («sull'area di questa rocca
— osserva ancora l'Annibaldi — la famiglia Ghislieri costruirà una casa di
campagna che sempre si chiamerà la torre dei Ghislieri»). Le altre due
rocche, entro il castello di Massaccio l'una ed in quello d'Accola l'altra,
sorgeranno rispettivamente nel 1365 e nel 1387.
IL PALIO DI SAN FLORIANO
L'atto ufficiale e solenne di «sudditanza» delle
popolazioni del Contado verso il nostro Comune era il Palio di San Floriano. Si
celebrava il 4 maggio di ogni anno, giorno della festa del santo, e vi si
annetteva tanta importanza da considerare quest'atto come la sanzione più
inconcussa dei diritti e delle prerogative del Comune di Jesi. La festa di
San Floriano è antichissima. Si teneva già nel XII secolo (il conte Trasmondo
di Morro, uno dei primi a sottomettersi al Comune di Jesi, nel 1194 si era
impegnato a pagare ogni anno anche tre libbre di cera in occasione della festa
di S. Floriano).
Cos'era il «palio»? Qualcosa come uno stendardo. Era
di seta, per lo più rossa, dal colore dello stemma jesino, e probabilmente vi
campeggiava nel mezzo il leone d'argento, rampante e coronato, che è
appunto lo stemma del nostro Comune. Anticamente lo presentavano anche i
feudatari dei dintorni pur non soggetti a Jesi, per testimonianza di
rispetto e di devozione. L'obbligo, invece, vigeva per ogni Comune o
castello o villa sottoposti alla giurisdizione del Comune jesino, ed ognuno di
essi doveva presentare il suo pallio. A presentarlo era incaricato un
sindaco o, per esso, un procuratore od un nunzio; questi veniva eletto ogni
anno nel corso di un'assemblea generale degli uomini dei rispettivi castelli o
ville; la nomina dell'incaricato ad intervenire al Palio di Jesi era
puntualmente registrata da un notaio, il quale stendeva un atto regolare;
l'originale di questo atto o una copia dello stesso veniva portato a mano
dall'eletto al Palio di S. Floriano e serviva come documento comprovante
l'autorità conferitagli dalla popolazione che egli rappresentava.
I palii dei castelli soggetti dovevano essere
presentati al gonfaloniere ed ai priori nobili, cioè ai soli priori cittadini.
Si tenga presente che la magistratura della «magnifica e regia città di Jesi»
era composta da sei persone: un magistrato e cinque priori; il magistrato
doveva essere sempre uno jesino; dei cinque priori, due erano jesini e tre
appartenevano al Contado. Inizialmente la presentazione del palio avveniva
nella chiesa di S. Floriano; poi la cerimonia venne trasferita nelle sale del
palazzo dei Priori. L’unico «pallio»
giunto fino ai giorni nostri sarebbe quello di Belvedere, usato da quel «castello»
l’ultima volta nel 1807. Al centro del drappo, di colore verde, in sete
finissima, di fondo azzurro, con strisce tutto attorno, è l’immagine di San
Floriano.
I rappresentanti del Contado dovevano giurare
obbedienza alla S. Romana Chiesa, al Sommo Pontefice ed all'inclita e
magnifica Comunità jesina. Dovevano altresì promettere di conservare il
buono, pacifico e tranquillo stato della Comunità e di cooperare alla
distruzione di chiunque avesse attentato alla pace della Comunità stessa ;
ed a questo scopo tutti gli uomini di ciascun castello, se stessi ed i
propri beni dovevano sentirsi in obbligo con l'autorità jesina.
Più anticamente al palio si accompagnava, come abbiamo
visto, un'offerta di cera. In seguito questa offerta non sarà più richiesta. In
ogni caso, insieme al palio,, si doveva consegnare un certo tributo, che per i
castelli soggetti era determinato dal nostro Comune a seconda della maggiore o
minore importanza loro dedotta dal numero dei « fumanti », ossia delle
famiglie. Dopo la cerimonia ufficiale vera e propria, la festa di S.
Floriano continuava con suoni, canti, gare, ecc. Era consuetudine, ad esempio,
il canto di stornelli popolareschi che quelli del Contado indirizzavano al
nostro Comune. Così, tra il 1251 e il 1265, gli Staffolani avevano cantato: «Ecco
lo palio rosatu — per amor de lo Esinatu — Questo ene lo palio facto a fiore —
per lo Esinatu cor de Leone...».
Ma c'era anche chi, del Contado, rifiutava di
partecipare alla festa di San Floriano e non mandava ne palio ne ambasciatore.
Contro questi « infedeli » il Comune di Jesi adottava provvedimenti di diversa
natura. E' del 10 luglio 1356 un decreto con cui si proibiva alle popolazioni
soggette di recarsi a vendere biade ed altre derrate nelle terre che avevano
mancato al debito di portare il palio al dì di S. Floriano.
CORSA ALL'ANELLO
Col passare degli anni, la festa di S. Floriano assunse sempre maggiore fastosità e si arricchì di iniziative. Il Gianandrea ricorda quattro consuetudini. Al primo posto pone Formata prò festo Sancii Floriani. E precisa: «Per armata intendevasi un certo numero di cittadini e comitativi chiamati a prestar servizio a tutela dell'ordine e decoro della festa. La città aveva in quei tempi (e il privilegio glien'è durato sino al finire del XVIII secolo) una milizia propria, divisa in quattro compagnie». Questa milizia era comandata da un capitano (anticamente era detto «conestabile»), che era un nobile e retribuito, per tale ufficio, semplicemente d'onore.
Altra
consuetudine della festa: l'intervento di pifferi, trombettieri e tamburini. E
con essi altri suonatori di ciaramelle, di liuto, d'arpa, di cetra e di
ribichini: tutta gente che giungeva appositamente da fuori Contado e che il
Comune di Jesi invitava annualmente per allietare i festeggiamenti.
V'era
poi la corsa all'anello, la più importante e popolare di tali consuetudini.
Si trattava di una gara di destrezza. L'anello, d'argento o di rame
inargentato, era sospeso ad una funicella in piazza San Floriano (oggi Federico
II) e doveva essere infilato, in corsa, dai concorrenti. Alla gara prendevano
parte tanto i cittadini che i comitativi. E sovente v'erano ammessi anche i
forestieri. Il vincitore riceveva in premio l'anello, ma non se lo portava a
casa, perché il Comune lo riscattava onde potersene servire nella gara
dell'anno sucessivo o in altre manifestazioni. La corsa all'anello, allora, era
molto in voga (quanto a popolarità, potremmo paragonarla all'attuale gioco del
calcio) e si disputava, ad esempio, anche nella celebre solennità annuale
per la riconferma di dominio sulla badia di Chiaravalle.
Consuetudine
immancabile era infine quella dell'illuminazione della piazza e, riteniamo,
anche delle strade principali del nucleo storico della città. Per la luminaria
pubblica nella festa di San Floriano il Comune di Jesi impiegava annualmente
venticinque libbre di cera.
La storia di Jesi - leggi l'e-book
La storia di Jesi - leggi l'e-book
Nessun commento:
Posta un commento