FIORISCE L'ARTIGIANATO
Nonostante la peste, le guerre e le frequenti liti,
l'economia di Jesi non era peggiore, a quei tempi, di quella delle principali
città marchigiane. Oltre all'agricoltura, che costituiva il cardine dell'economia
jesina, un ruolo sempre più notevole andavano assumendo le attività artigianali.
Tradizionale era già, ad esempio, l'opera dei canestrai (lavoravano nel
chiuso delle loro botteghe, seduti su bassi sgabelli, per avere a portata di
mano i vimini e gli strumenti da lavoro collegati sempre sul pavimento); altre
attività, come quella dei cordai, erano iniziate verso la fine del secolo. Ma,
prima fra tutte, famosa ed affermata, era l'arte degli orefici jesini. A Jesi
l'oreficeria aveva già una bella tradizione : fin dall'anno 1225 un certo
Bisaccione, orefice, aveva fatto parlare della sua arte esercitata insieme
ad altri.
Nel
1454 la nostra città contava duemila abitanti (la popolazione del Contado
assommava a tredicimila unità) ed almeno dieci botteghe di orafi di lusso,
tanto da essere considerata l'emporio della oreficeria nelle Marche. Le
donne jesine erano le più convinte e convincenti propagandiste dell'oreficeria
lesina. I signorotti dell'epoca ostentavano anelli infilati nel pollice e
nell'indice; e se si trattava di donne maritate, un altro anche nel mignolo
della mano destra, perché lì «si ponea l'anello nuziale».
Del resto, tutte le matrone di Jesi erano
puntualmente allineate alla moda, sfarzosa ed eccentrica, del tempo. Si ricorda
che. in occasione della venuta a Jesi di Bianca Maria Sforza, le donne
lesine si dettero ad un lusso sfrenato. "Le gentili esponenti
della nobiltà jesina indossavano vesti broccate, a zone troppo piene d'oro,
dai braccialetti di gran valore, di camorre conteste di più dualità di panni e
sparse qui e colà di pietre preziose, oro e argento contesto, o cucito nelle
diverse robe. Quello sfarzo, che appariva — e lo era, indubbiamente — agli
occhi del popolino uno spreco, significava per i privilegiati un marcato
ottimismo che si esprimeva, perché no?, anche nei nomi femminili: non a caso a
quel tempo alle neonate jesine capitava di vedersi imporre nomi di battesimo
come Allegrina, Altobella, Bellafiora, Semidea, Principella, Piacevoluccia....
Se le donne potevano far sfoggio dei loro gioielli,
gli uomini jesini avevano trovato modo di gareggiare fin dal 1453 in un nuovo sport:
il tiro a segno con la balestra. A Jesi questa nobile ed utilissima
istruzione era stata introdotta ufficialmente con regolare atto consiliare
del 28 aprile 1453. Gonfaloniere era Angelo Piersimone Ghislieri e podestà o
pretore era Benedetto di Cinzio da Visso. Il tiro a segno con la balestra entrò
fin da quell'anno a far parte delle cerimonie e dei divertimenti tradizionali
della festa di S. Floriano. I balestrieri più bravi si cimentavano nel bersaglio
e la gara terminava con l'assegnazione della balestra al miglior tiratore.
Ma il XV secolo aveva registrato a Jesi un altro
importante capitolo nelle attività artistico-artigianali, quella dei tipografi,
che doveva dare alla nostra città un rilevante primato nell'arte della stampa:
la prima edizione veramente italiana della «Divina Commedia».
Verso la metà del secolo in Germania Giovanni
Gutemberg, dopo aver inventato i caratteri mobili a stampa, aveva aperto a
Magonza la prima stamperia e, finanziato da due concittadini, aveva pubblicato
il primo libro a stampa, la famosa «Bibbia» latina, detta Mazarina. Qualche
anno dopo, la nuova arte era stata introdotta in Italia da Aldo Manuzio, il
quale aveva aperto a Venezia una tipografia destinata a diventare in breve la
più rinomata d'Europa (stando all'abate Gianfresco Lancellotti, uno studioso
del '700. il Manuzio era nativo di Staffolo). Sull'esempio di Magonza e
Venezia, Jesi era stata una delle prime città italiane ad avere una Tipografia.
Era stata qui aperta, per l'esattezza, nel 1470 ad opera di un veronese, Federico
Conti, secondo alcuni figlio del donzello dì un podestà di Cremona recatosi
a Jesi intorno al 1450, e secondo altri figlio di quel Giovanni Conte di
Verona che era soprastante alle munizioni delle rocche per Francesco Sforza.
Federico Conti da Verona il 18 luglio 1472 finiva di
stampare nella sua tipografia di Jesi l'edizione principe della «Divina Commedia».
Vero è che cento giorni prima anche Foligno e Mantova avevano finito di
stampare il capolavoro di Dante; ma, mentre l'edizione jesina era opera di un
valente tipografo italiano, l'edizione folignate e quella mantovana erano
uscite dalle mani di due tipografi tedeschi, provenienti forse da Magonza.
Le edizioni della «Divina Commedia» stampate in Jesi da Federico e giunte fino
a noi (quelle che si conoscono, almeno) sono cinque: una a Vicenza, una a
Udine, due a Verona e una quinta a Londra (nel British Museum).
Federico Conti stette a Jesi poco più di quattro anni,
durante i quali egli pubblicò, oltre al capolavoro dantesco, due edizioni delle
«Costituzioni Egidiane» (l'una il 4 ottobre 1473 e l'altra nel 1474), le «Letture
di Baldo da Perugia» (1475) e la «Quadrica Spirituale di Niccolò da Osimo» (27
ottobre 1475). Era stato accolto a Jesi nel migliore dei modi; gli era stata
subito conferita la cittadinanza jesina ed aveva ricevuto stabili ed
emolumenti vistosi per dargli agio di campare la vita nella opulenta; ma
poi, per traversie familiari ed altro, finì col dissipare tutto in breve tempo.
Ridotto in miseria, fu messo in prigione, da dove tuttavia riuscì a scappare (o
lo fecero scappare?), spostandosi da un posto all'altro, sempre in piena
miseria. «Lo strazio di quella vita raminga — scrive il Colini —, il dolore di
vedersi separato dai suoi figli, il ricordo dei giorni felici trascorsi
inaridirono quella esistenza che forse ancor fioriva sul verde stelo della
virilità, e sullo scorcio del 1477 scendeva nel sepolcro senza il rimpianto
della moglie, che poco prima aveva perduto, senza l'ultimo bacio dei figli che
aveva lontani e senza il cordoglio degli amici».
ANGELO
GHISLIERI
II XV secolo aveva posto in evidenza alcune figure di
Jesini, particolarmente benemeriti. Di alcuni si è già detto, quale Angelo
Ghislieri, fratello del vescovo Tommaso. Di Angelo Ghislieri il Gianandrea
traccia una rapida biografia, che si trascrive per meglio illustrare il
personaggio: «Deputato (1452) alla fabbricazione delle mura della città;
gonfaloniere all'epoca dell'istituzione del tiro a segno (1453); podestà di S.
Severino (1455), creato conte palatino nello stesso anno e nel 1457 cavaliere
da Francesco Sforza duca di Milano. Podestà di Firenze (1457), di Alcoli e di
Foligno (1458), di Fermo (1459), di Norcia e ancora di S. Severino (1460), di
Siena (1461), di Lucca (1462), di Perugia (1465), di Recanati (1470). Senatore
di Roma (1482), senza dire delle magistrature sostenute in patria, delle
deputazione ed ambascerìe di cui fu incaricato, degli altri titoli e onori
avuti nella sua non breve vita». Morì a Roma nel 1482.
Parlando
dei maggiori Jesini del '400, si è anche fatto cenno a Fiorano Santoni, «il
vecchio», che partecipò al fallito colpo di mano del 1486. Oltre che per
quell'episodio, egli viene ricordato quale uomo insigne per magistratura e
ambascerie sostenute in servigio della patria, per preture esercitate fuori,
per altissimo ingegno e per molta e svariata dottrina. Una citazione
d'obbligo merita anche Antonio Amici, membro di una delle più antiche famiglie
della nostra città. Letterato nelle leggi canoniche e nella teologia, fu di
gran nome e per le sue virtù fu grandemente amato da Filippo duca di Milano, e
fu tanto in grazia di Francesco Sforza che da lui ricevette molti benefici ed
onori. Alla corte di Filippo Maria Visconti (duca di Milano) viveva nel
1430. Ricorderemo infine Pietro di Ercolano: nato a Jesi attorno il 1430 e
morto tra il novembre del 1480 e il luglio del 1481, lavorava di minuteria e
di grosseria; incideva, smaltava e facea figure di rilievo e a perfezione.