IN GUERRA CONTRO
ANCONA
Oltre al Palio di San Floriano, nel mese di maggio era
tradizionale un'altra manifestazione, ma di tutt'altro genere, che si
ricollegava alla festa del Palio, ma che voleva essere una prova di forza, per
suggellare, con lo spiegamento delle armi, la potenza degli Jesini e la
validità dei loro diritti sul Contado. Più esplicitamente, era un monito degli
Jesini agli Anconetani, con i quali non correvano evidentemente rapporti di
buon vicinato. Le prime scaramucce con i dorici si
erano verificate non appena le ultime cessioni dei monaci di Chiaravalle al
nostro Comune avevano portato gli Jesini a confinare con gli Anconetani.
Confine naturale, per la verità, doveva essere il fiume Esino; sennonché, in
occasione di una grossa inondazione, al fiume era venuto il capriccio di
cangiar letto nei pressi di Chiaravalle, la qual cosa aveva generato una
vivace disputa tra Jesini ed Anconetani per la giurisdizione su certi terreni
che erano appartenuti all'abbazia.
L'ARMATA DI CHIARAVALLE
Tra gli uni e gli altri si accesero così fiere e lunghe ire e contese e per quasi due secoli e mezzo, cioè dal 1309 al 1521, furono sempre in guerra, spesso combattuta con le armi sul campo di battaglia dove gli Anconitani avranno sempre la peggio (ma gli Anconetani ricorreranno sempre e puntualmente ai tribunali della S. Sede e qui saranno sempre o quasi gli Jesini ad avere la peggio).
Oltre al Palio, quindi, in maggio
e precisamente nella seconda domenica del mese, gli Jesini mettevano in
campo quella che veniva comunemente detta l’«armata di Chiaravalle». Gli
Jesini adunavano il loro esercito composto della città e del contado; parte
eran pedoni e parte cavalieri: sotto la scorta di un capitano, che sempre era
jesino, a bandiere spiegate, ove campeggiava il leon bianco con corona di oro
in campo rosso, preceduti da tamburi, da trombe, da corni e da altri guerrieri
istrumenti, colla baldanza e il tripudio di un popolo che sente la sua gioventù
e gagliardia, muovevano alla badia di Chiaravalle.
Giunti al castellare di S.
Lorenzo, facevan alt per prendere qualche ristoro; poscia riprendevan la marcia
e, giunti a Chiaravalle, facevano un'offerta di cera a S. Maria in Castagnola.
Quindi i deputati all'uopo andavano in tutti i versi per riconoscere i confini
e riconfermare coll'atto della presenza il possesso di quel territorio.
Questa «marcia», anche se fu soggetta a qualche interruzione, si ripeté tutti
gli anni fino al XVI secolo: praticamente finché durarono le lotte con gli
Anconetani.
CONTRO I FABRIANESI
Agli inizi del XIV secolo, prima che cominciassero le
secolari guerre con gli Anconetani, gli Jesini avevano avuto una lunga disputa
sul fronte opposto, contro i Fabrianesi. Ed anche in quella contesa avevano
dovuto far ricorso alle armi. Si sa che alle origini di quella guerra fu
l'occupazione, dai Nostri ritenuta abusiva, dei castelli di Rovellone,
Avoltore e Precicchio da parte dei Fabrianesi. In effetti, i tre castelli erano
stati per un certo tempo sotto la giurisdizione dei Nostri. Ma un bei giorno i
Fabrianesi se li erano aggregati con un colpo di mano. Gli Jesini reagirono e, messo in campo
un esercito di cinquemila fanti, riconquistarono i tre castelli con la forza
delle armi. I Fabrianesi ricorsero allora all'autorità ecclesiastica. Oddone
da Cortona (giudice e vicario di
Antonio, vescovo fiesolano, rettore della Marca), corrotto dal denaro, condannò
gli Jesini alla restituzione di quei castelli. Gli Jesini si appellarono
innanzi al camerlengo pontificio, Giovanni di Spoleto; questi, con dispaccio
dato da Perugia il 22 giugno del 1304, commetteva la revisione della sentenza a
D. Francesco monaco di S. Savino, a Manenzio cappellano di S. Niccolò e a
Mercato rettore di S. Benedetto della Valle. «Singolare ed onorevole è
questo dispaccio — annota Giovanni Annibaldi — poiché nella causa di Jesi
contro Fabriano stanziava a revisori della sentenza tre monaci jesini o almeno
abitanti in Jesi».
Le cose, comunque, presero ad andare per le lunghe,
col risultato che nel frattempo si avevano scorrerie dall'una e dall'altra
parte, e quindi devastazioni di castelli e nuove sofferenze per le popolazioni
contese. Nel 1305 fu tentata anche la mediazione dei Permani, ma con esito
negativo. Si andò avanti così, dunque, per cinque anni, finché, dopo una lunga
serie di proposte e trattative di tregua e di pace, il 1° settembre 1308 si
pervenne ad una composizione definitiva. Alla quale si giunse soltanto perché
gli Jesini, ad un certo momento, avevano deciso di lasciar perdere e di
rinunciare, almeno per il momento, alla giurisdizione sui tre castelli.
La rinuncia dei Nostri era stata decisa anche e
soprattutto perché nel frattempo nuovi avvenimenti erano maturati sul fronte
opposto, verso l'Adriatico : non ancora in direzione di Ancona, ma più a Nord,
sulla direttrice Senigallia-Fano-Pesaro.
Non è di troppo
ricordare, a questo punto, che nel 1305 era stato eletto papa il francese
Bertrand de Got, il quale aveva mandato in Italia un gran numero di Francesi
per assumere l'incarico di governatori e di legati nelle varie province della
Chiesa, per
occupare le più laute sedi vescovili e per estorcere denaro con nuove
imposizioni e gabelle. Nella Marca era venuto il nipote di Clemente V,
Bertrando, suscitando gravi proteste e ingrossando le file del partito
ghibellino. Ancona, pur guelfa per tradizione, si mise a capo di una coalizione
di città, di cui facevano parte Senigallia, Ascoli, Umana, Ripatransone ed
altri Comuni minori, mentre Osimo e Jesi, contrariamente al loro abituale
contegno, si mostrarono fedeli alla Chiesa, combattendo sotto le insegne di
Federico di Montefeltro, che, malgrado le sue tendenze ghibelline, era ora alla
testa delle milizie ecclesiastiche.
In questa nuova contesa, le truppe jesine, dopo aver
concorso alla riconquista di Pesaro e Fano operata dall'esercito pontificio,
ebbero un ruolo determinante nella occupazione di Senigallia.
LA CONQUISTA DI SENIGALLIA
A Senigallia, in potere dei ghibellini, c'erano i
Malatesta; o meglio, c'era uno jesino, Tano Baligani, che comandava quella
piazzaforte per conto dei Malatesta. E con il Baligani c'erano altri nobili
jesini di parte ghibellina che s'erano ribellati alla autorità guelfa della
nostra città.
Tano era figlio di Filippuccio, uno dei tre fratelli
Baligani che, giunti a Jesi nel 1262, vi avevano instaurata la prima Signoria
della città nel 1271. I Baligani, come si è visto nel capitolo precedente,
erano stati poi cacciati dai Simonetti; erano tornati a Jesi nel 1302 per
aderire al patto — sottoscritto nel giugno di quell'anno dai capi delle
maggiori famiglie jesine — di non
turbare più la quiete cittadina. Ma quel giuramento era stato presto tradito,
tanto che a distanza di appena quattro anni Tano Baligani e gli altri
ghibellini si trovavano, in armi, nella fortezza di Senigallia, contro le
truppe concittadine che erano allora in difesa delle insegne guelfe.
Nel 1306, dunque, le truppe jesine erano schierate
sotto le mura di Senigallia. L'esercito guelfo era comandato da Gerardo De
Tastis, maresciallo della Chiesa e vicario di Bertrando. I nostri avevano
schierato in campo diecimila fanti e settecento cavalieri (e spenderanno per
questa campagna cinquantamila lire). Il De Tastis decise di assaltare
Senigallia su due lati, lasciando agli Jesini il compito di affrontare quello
più agguerrito. Aperta in questo modo ai nostri la strada di acquistare
gloria ed onore militare, salirono tanto animosamente su per scale appoggiate già
alle mura che in breve spazio di tempo, ammazzati i difensori, ne scacciarono, con
l'aiuto del restante delle genti del pontefice, tutto il presidio del Malatesta
e insieme Tano Baligani, capitano delle sue genti.
Lo stesso Baligani cadde prigioniero degli Jesini. I quali però. con gesto di clemenza concittadina, evitarono di consegnarlo al De Tastis. Infatti alcuni dei nostri, per non parere di aver fatto prigioniero un loro cittadino, gli mostrarono il modo di fuggire. Il legato pontificio subodorò la cosa e si irritò: tuttavia, dal momento che gli Jesini si erano dimostrati dei valorosi e si doveva ad essi la vittoria, non ne fece altra dimostrazione. Anzi, lodando l'animosità dei nostri, concesse a questa magnifica ed illustre Comunità molti privilegi e donolle tutti i beni che Tano Baligani possedeva nel nostro territorio, unitamente a quelli dei complici del Baligani.
Lo stesso Baligani cadde prigioniero degli Jesini. I quali però. con gesto di clemenza concittadina, evitarono di consegnarlo al De Tastis. Infatti alcuni dei nostri, per non parere di aver fatto prigioniero un loro cittadino, gli mostrarono il modo di fuggire. Il legato pontificio subodorò la cosa e si irritò: tuttavia, dal momento che gli Jesini si erano dimostrati dei valorosi e si doveva ad essi la vittoria, non ne fece altra dimostrazione. Anzi, lodando l'animosità dei nostri, concesse a questa magnifica ed illustre Comunità molti privilegi e donolle tutti i beni che Tano Baligani possedeva nel nostro territorio, unitamente a quelli dei complici del Baligani.
LA BATTAGLIA DI CAMERATA
Dopo quella vittoria, il Comune di Jesi poté annettere
al proprio Contado i castelli di Montemarciano, Cassiano, Alberici, Vaccarile e
Casalta, oltre ai castelli di Morro senigalliese, Montesanvito ed Albarello,
che erano dei Senigalliesi.
La caduta di Senigallia non aveva
fiaccato le velleità dei ghibellini. Nel 1308 gli Anconetani accesero la miccia
per una nuova e più sanguinosa battaglia. Insieme ai Senigalliesi, essi
compirono una terribile scorreria nel nostro territorio, assaltando e
distruggendo i castelli di S. Lorenzo in Maccarata e delle Ripe, e commettendo altri
eccessi ed enormi delitti. Gli Jesini interpretarono la cosa come una
provocazione bell'e buona, e prepararono la replica, allestendo immediatamente
un nuovo esercito. A Jesini e Osimani si unirono i Sanseverinati. In campo
avverso, gli Anconetani disponevano di una gran moltitudine di uomini e di
cavalli, gente tutta bene armata. Un cronista di Cesena riferisce che
l'esercito dei ghibellini contava centoundicimila uomini, ma la cifra appare
evidentemente esagerata. Gli Anconetani, per invogliare i Nostri a combattere,
cavarono con una gran prestezza fuor dei ripari le loro genti ed invitarono
per più grandezza col terribile suono delle trombe e dei tamburi al combattere
i nostri.
Quando l'esercito jesino fu in vista
della moltitudine avversaria ebbe un attimo di esitazione, non a torto
preoccupato della stragrande superiorità numerica dei nemici. Il Grizio mette in
bocca ad uno dei capitani jesini questo discorso, fatto nell'imminenza della
battaglia:
«Se io non pensassi, o valorosi soldati
ed ottimi cittadini, che tutti voi, nel sentire il suono dei tamburi e delle
trombe nemiche, vi foste allegrati per il desiderio di venire prestamente con
loro alle mani, certo che io cercherei di infiammarvi ed accendervi al
combattere, col mostrare la felicità della vittoria, l'onore che ne
conseguirete e la ricchezza della preda. Ma, poiché so che nessuno non vi è
che allegramente non si sia vestito delle sue armi per andare con la solita
bravura ad affrontare il nemico, non voglio altrimenti con gli sproni delle mie
parole incitarvi al correre. Ma solamente — perché potrebbe essere che ciascuno
di voi temesse del fino di questa battaglia, spaventato dal gran numero delle
genti nemiche — ricorderò che animosamente, non riguardando ciò, vi portiate;
perché le vittorie consistono più nei forti e valorosi soldati che nella moltitudine;
la quale, generando confusione, suole apportare il più delle volte perdita e
danno, come potrei con gli esempi delle passate guerre e con i miserabili
successi di molte zuffe avvenute ai tempi nostri mostrare. Ora dunque, soldati
e compagni nostri valorosi, sprezzate il numero delle genti nemiche; mostratevi
degni di quell'onore che poco avanti avete raggiunto, col liberare Senigallia,
alla vostra gloria; ed abbiate a cuore la dignità. la conservazione della
Patria ed il nome Esino: non istimando, nel seguir noi vostri compagni della
guerra, nessun pericolo e fortuna della battaglia. Perciocché, oltre l'onore
che ne conseguirete, conserverete voi stessi alle vostre care mogli e dolci
figlioli, che di già, con animo incerto del fine, debbono aspettare d'udire,
con desiderio di rivedervi sani, il successo della cosa».
Lo scontro fra i
due eserciti avvenne a Camerata, castello di Ancona, il 7 giugno 1309, giorno
di domenica. E fu la
battaglia più sanguinosa di quante nei tempi degli scellerati nomi dei guelfi
e dei ghibellini si facessero in questi dì/ritorni. Federico da Montefeltro,
che comandava l'esercito pontifico, ebbe il sopravvento, malgrado la
superiorità delle truppe confederate, ed inflisse agli Anconitani una dura
sconfitta. Ancona perdette, oltre al fiore dei suoi uomini, in gran parte
uccisi sul campo, il carroccio ed i suoi vessilli. Il castello di Camerata,
durante lo svolgersi dei combattimenti, andò completamente distrutto.
Dice il Grizio che degli Anconetani
furono « tagliati a pezzi quattromila uomini, con tanto altro spargimento di
sangue dei feriti che la campagna corse quel giorno tutta sangue. Onde in
testimonio di ciò — aggiunge il Grizio — intesi già dire che per un tempo
l'erbe che vi nascevano furono amare ». In quella battaglia si distinse in
particolare il giovane jesino Galvano Galvani, il quale fu il primo a piantare
la bandiera vittoriosa sulle mura di Camerata.
Seguiamo ancora il Grizio : « Gli
Anconitani perdettero in quella famosa battaglia molto della loro reputazione.
I Nostri fecero prigionieri mille Anconitani, i quale poi (essendo, insieme
col loro carroccio, bagagli, armi e stendardi, condotti con grandissima pompa
dall'esercito vittorioso in trionfo nella nostra città) dettero gratissimo
spettacolo ai cittadini e ai soldati, essendo menati avanti ai nostri tutti i
prigionieri anconitani legati. Altri, ro vociate l'aste, trascinavano gli
stendardi e le insegne loro per la città, ed altri, avendo posto in cima delle
lance le teste dei corpi morti, davano ai valorosi e coraggiosi grandissimo
animo di atterrare la parte ghibellina, e alle Davide donnicciole apportavano
per l'orrore dei morti grandissimo spavento con un so che di misericordia che
naturalmente quel sesso suole avere ai morti ».
In compenso dell'aiuto ricevuto, gli Jesini diedero
agli Osimani gli atterrati stendardi degli Anconitani; stendardi che,
negli anni che seguirono e nell'anniversario della battaglia, i ragazzi di quel
centro, in vituperio dei vinti, ne facevano scempio, trascinandoli per
le più fangose e sporche strade di Osimo. Non tutti gli stendardi,
ovviamente, vennero dati agli alleati. «II principale almeno - sottolinea il
Gianandrea - rimase trofeo di quella battaglia in Jesi e se ne conserva l'asta
lunga ben otto metri in questo pubblico archivio».
LA TORRE DELLA GUARDIA
Per gli Anconetani si trattò
effettivamente di una umiliante batosta, che avrebbero cercato senza dubbio di
vendicare quanto prima. Per questo, negli anni che seguirono, i governanti
jesini si preoccuparono di adottare tutte le misure necessarie per prevenire
qualsiasi attacco che dovesse giungere dal mare o da qualsiasi altra parte.
La torre d'ella Guardia fu una di queste misure (Tommaso Baldassini la fa
risalire al 1342, Giovanni Annibaldi al 1350).
Edificata sulla collina ad
oriente della città, sulle rovine del castello di Montereturri, la torre era
quadrilatera massiccia, severa,
paurosa, divisa in tre piani, incoronata a sommo di merli e sormontata da un
cucuzzolo vuoto, dal quale si usciva nel ballatoio, che aveva parecchi piombatoi. La torre era alta 46 metri e
mezzo ed ogni lato misurava circa nove
metri di larghezza. Quivi gli Jesini tenevano
un torriere con alcuni uomini ed
armi(ve li tennero fino al 1650 circa). Il torriere doveva spinger lo sguardo
sui confini del contado, che tutto si scopriva, e sull'onde del sottoposto
Adriatico per osservare ravvicinarsi ed il muoversi delle truppe e delle navi
nemiche, specialmente delle fuste turcheste. E dovea darne avviso alle scolte o
guardie, che dalla torre della cattedrale o del palazzo dei priori di giorno e
di notte drizzavano il guardo a quella torre. I segni convenzionali per
ravviso erano di giorno il fumo, di notte la fiamma. E se la nebbia
serpeggiante per la valle dell'Esine avesse impedito la vista dell'uno o
dell'altra, una campana a colpi concertati portava sull'aure le scoperte e gli
avvisi del terriere. Anticamente questa torre era conosciuta come la torre di
Montereturri, poi venne detta Torrione, successivamente Torretta ed infine
Guardia di Jesi.
Oltre alla torre, gli Jesini fecero scavare attorno alla città, ad una
distanza di un chilometro e mezzo circa, dei fossati con porte a mò di rocche,
dette dai Nostri «portoni)); questi fossati dovevano servire, in caso di
attacco nemico, ai contadini, i quali entro di quelli far la ritirata del
bestiame e, in caso di necessità, sostenere un buon assalto finché i cittadini
ed i terrieri uscissero ad incontrare la parte contraria.
Poiché tali fossati erano
fatti a regola d'arte, tanto che un portone guardava l'altro, potevano quelli
della guardia del portone assaltato facilmente dare il cenno o con lampi di
fuoco o con altro a quelli che guardavano l'altre porte, e i contadini
difendere la calata e la salita delle fosse con «ispiedi», lande, «accie»,
balestre ed altre sorti d'arme ai nemici che ardissero approssimarsi per
predare il bestiame, che non avessero fatto in tempo a mettere al sicuro.
Perché le bestie, quando sentivano dare la campana all'armi, fuggivano e, come
avessero parte d'intelletto umano, correvano senza guida dì guardiani entro le
dette fosse; ed i bovi coi muggiti pareva che invitassero le altre bestie a
fuggire.
IL POPOLO SI RIBELLA
Tano Baligani oggigiorno è poco più di una lapide a
capo di una via, per non dire che è un illustre sconosciuto. Ma nei primi
decenni del XIV secolo fu uno dei protagonisti della storia jesina ed ebbe un
ruolo notevole non solo nella Marca d'Ancona, ma anche in Toscana. Non fu un
personaggio coerente, ma un valoroso si, anche se sfortunato e destinato ad
una brutta fine.
Già
lo abbiamo visto a capo d'elle milizie ghibelline nella roccaforte di
Senigallia espugnata dalle truppe guelfe, tra le quali quelle jesine che gli
risparmiarono la prigionia. Qualche tempo dopo la sanguinosa battaglia di
Camerata, in una Jesi di nuovo travagliata dalle discordie fra i due partiti
dell'epoca, Tano Baligani, con
perverso e cattivo animo, sollevò la plebe contro i nobili: una specie
di rivoluzione del popolo che si dichiarava stanco di pagare le tasse e
pertanto non voleva più saperne di obbedire all'autorità del magistrato.
Il
gonfaloniere ed i priori sulle prime cercarono di rabbonire i rivoltosi con dolci parole e buone promesse;
intervenne anche il vescovo, che a quel tempo era il perugino Francesco
Aitano, parente di Bartolo da Sassoferrato, ma tutto fu inutile. La
popolazione, armata, occupò la piazza di S. Luca (oggi intitolata ad Angelo
Colocci). I nobili, vista la mala parata, si rinchiusero entro il palazzo dei
Priori (oggi della Signoria).
Angelo
e Filippo Simonetti — figli di Simonetto di Raniero e fratelli di Mercenario,
Rinaldo e Guglielmo dei quali abbiamo già avuto occasione di parlare — avevano
in mente di liberarsi dall'assedio con una sortita notturna per cogliere di
sorpresa i ribelli, che si erano acquartierati nella piazza, e metterli in
fuga. Ma poi ci ripensarono, perché se la sorpresa non fosse riuscita
avrebbero potuto anche avere la peggio. Pertanto non ebbero altra scelta che
quella di accettare la pace, che venne sanzionata in questi termini: i popolani
chiedevano perdono al magistrato ed i nobili esentavano i popolani da ogni
imposta per un anno.
TANO CON I GUELFI
Nel 1311 scendeva in Italia Enrico VII di
Lussemburgo. Il suo arrivo fu accolto con evidente soddisfazione dai ghibellini,
che riacquistarono nuovo vigore. Ancona,
schierata tra le forse di parte guelfa, inviò le sue milizie in soccorso dei
fiorentini; altre città, tra cui Jesi, Osimo e Recanati, formarono la Lega
degli Amici della Marca e tornarono a parteggiare contro la Chiesa sotto la
guida di Federico da Montefeltro, resistendo tenacemente ai rappresentanti
pontifici. Valendosi della protezione del Montefeltro, essi fondarono anche una
setta ereticale, che professava dottrine empie e praticava riti osceni,
facendosi ludibrio della Chiesa e dei suoi ministri, Tutte le località della
provincia aderenti al pontefice furono sottoposte ad un crudele salasso; i
campi e le case devastati e distrutti, le popolazioni spogliate e trucidate.
I guelfi tuttavia non rimasero a lungo inattivi; la
loro reazione, seppure tardiva, fu energica. Ed ebbe successo, si può dire, nel
momento stesso in cui Federico da Montefeltro, precipitatesi ad Urbino per
arruolare nuove milizie, veniva ucciso (1321). La morte del loro capo significò
per i ghibellini una perdita grave, tanto che entro breve tempo anche Jesi
tornò in mano dei guelfi. Ad impadronirsi della nostra città, guarda caso, fu
proprio quel Tano Baligani che — un tempo acceso ed irriducibile ghibellino —
ora era uno dei capi più in vista dei guelfi.
Quali che fossero i motivi che avevano indotto il
Baligani a passare in campo avverso — forse per rientrare nelle grazie del
pontefice, suppone il Grizio — sta di fatto che il nostro, uomo d'ingegno perspicace e assai prode
nell'armi, aveva saputo meritarsi tanta stima da parte dei guelfi che in
poco tempo ne era diventato l'anima. Fra i capi dell'esercito guelfo di Toscana
contro i ghibellini di Arezzo, ora era addirittura il condottiero dei guelfi di
tutta la Marca di Ancona.
Il
Baligani, che per la conquista di Jesi si era servito delle milizie di Ancona,
diede la possibilità ai dorici di rifarsi delle umiliazioni patite ad opera
degli Jesini; infatti gli Anconetani ricevettero da Tano, a titolo di compenso,
il possesso di alcuni castelli, tra cui la rocca di Fiumesino. Negli anni che
seguirono il Baligani rafforzò ulteriormente la sua fama di valente guerriero, intervenendo con
le armi a protezione di questa o di quella località del Contado minacciata dai
ghibellini.
Nel 1326 era alla testa dell'esercito della Chiesa e
sconfisse il 18 giugno nel territorio di Rocca Contrada (Arcevìa) Lomo di
Rinaldo Simonetti; e liberò, nell'entrante di luglio, Morrò, castello di Jesi,
da un assalto di quei di Fabriano e altri ghibellini della Marca. L'anno dopo ottenne un nuovo successo militare,
ancora contro i Fabrianesi: nei pressi del Castello di Fomoli, affrontò in
campo aperto un contingente di ribelli
della Chiesa forte di quattrocento cavalieri e duemila fanti: li
sbaragliò, costringendoli a lasciare sul campo di battaglia trecento morti e
quattrocento prigionieri.
Se il Baligani aveva coronato il suo antico sogno di
comandare su Jesi, non è da dire che i ghibellini si fossero rassegnati a
lasciargli la signoria della città. Tentarono, anzi, senza dargli tregua, di
ricacciare l’usurpatore. A capo
dei ghibellini di Jesi v'era Nicolo Bisaccioni conte di Boscareto, il quale,
non disponendo di sufficenti uomini e mezzi, chiese ed ottenne l'aiuto dei
Fermani, con i quali, dopo alcune scaramucce, assediò la città da ogni parte.
Ma in quella occasione la conquista di Jesi non gli riuscì: o perché la città
era troppo ben difesa, o perché i Permani ad un certo punto si sarebbero
rifiutati di combattere contro gli Jesini, dei quali sempre erano stati fautori della dignità e grandezza, o magari
perché non volevano incorrere nei fulmini della Santa Sede.
Tuttavia
il Boscareto non si diede per vinto. Nel 1328 stringeva un'altra alleanza,
anche questa a Fermo, ma con più vaste e quotate adesioni. Vi aderirono molti
caporioni del partito ghibellino, fra i quali i celebri Lippaccio ed Andrea Guzzolini da Osìmo, i fratelli Boorto,
Lomo e Guglielmo Simonetti, Matteo di Monalduccio, Tomassuccio Salsi e Lamo del
signore Antonio da Troia, Liverotto da Mogliano, Bartolomeno da Sanseverino,
Aioletto di Cruciano e Bernardo da Recanati, Tomassino con Bertuccio e Magio
suoi figliuoli da Fabriano, Francesco da Matetica ed Ottomano da Brunforte.
Uno dei capitani confederati, l'esimano Lippateo, assalì Jesi con un energico
attacco ; fracassò con picconi le mura
e con scale salì fino ad esse, ma Tano Baligani lo respinse.
Finché,
ad ingrossare le file delle truppe asservite ai progetti del Boscareto,
vennero gli uomini del Bavaro. Il Bavaro: cosi veniva chiamato Luigi o Ludovico
di Baviera, che, sceso in Italia nel febbraio del 1327, a Milano si era fatto
incoronare re dei Romani; lo stesso aveva fatto l'anno dopo a Roma. Non
soddisfatto, il Bavaro aveva poi dichiarato deposto papa Giovanni XII e fatto
eleggere al suo posto un nuovo pontefice, Nicolò V. Il
Bavaro non venne mai dalle nostre parti. Vi mandò suoi emissari o fece eleggere
gente del posto scelta fra elementi capaci di garantire piena devozione; alla
sua persona ed assoluta fedeltà alla sua politica. Il Boscareto, evidentemente,
fu uno di questi, poiché ottenne l'aiuto dei soldati bavaresi. Erano
comandati, questi ultimi, da Giovanni di Chiermonte, conte di Mohac, nominato
vicario della Marca dall'antipapa Nicolo V. Comandante supremo di tutte le
forze confederate contro Jesi era invece l'osimano Lippaccio Guzzolini.
L'esercito ghibellino mosse contro la nostra città ai primi di marzo del 1328.
Si combatté per tre giorni, furiosamente, e per tré giorni gli assediati
respinsero energicamente ogni attacco. Poi, con crudele e diabolico tradimento, i confederati riuscirono a
penetrare in città e a dilagare nei borghi. Per gli eroici difensori fu la
fine. Lo stesso Baligani cadde prigioniero.
A proposito della cattura del capitano guelfo, il
Gianandrea scrive: «Si racconta che Tano, allo stremo d'ogni difesa, sortì con
pochi e fidati amici dalla rocca, affrontando valorosamente gli assalitori e
sul principio sgominandoli. Sennonché, riuniti questi dalla ferma voce di
Lippaccio, tornarono alla pugna e, già erano per piegare un'altra volta, quando
Tano, spintosi troppo lungi dai suoi, fu fatto da Lippaccio medesimo
prigioniero».
Tre giorni durò la prigionia. Poi, 1'8 marzo di
quell'anno, su sentenza del Chiaramente, Tano Baligani, insieme ad altri Jesini
di parte guelfa, venne decapitato in piazza San Giorgio (oggi Federico II). Il
capo d'accusa per cui il Baligani perse la testa è diversamente illustrato
dagli storici. Alcuni dei quali vogliono che Tano, reo confesso, venisse
giudicato per aver macchinato ai danni di Firenze ghibellina (invitato a Firenze
come capitano, egli si sarebbe detto propenso a recarvisi ma col segreto
intendimento di instaurare in quella città la sua dittatura). Il Gianandrea è
del parere che fu mandato a morte, più verosimilmente, in quanto nemico e ribelle dell'impero.