sabato 11 gennaio 2014

In guerra contro Ancona

IN GUERRA CONTRO ANCONA
Oltre al Palio di San Floriano, nel mese di maggio era tradizionale un'altra manifestazione, ma di tutt'altro genere, che si ricollegava alla festa del Palio, ma che voleva essere una prova di forza, per suggellare, con lo spiegamento delle armi, la potenza degli Jesini e la validità dei loro diritti sul Contado. Più esplicitamente, era un monito degli Jesini agli Anconetani, con i quali non correvano evidentemente rapporti di buon vi­cinato. Le prime scaramucce con i dorici si erano verificate non appena le ultime cessioni dei monaci di Chiaravalle al nostro Comune avevano portato gli Jesini a confinare con gli Ancone­tani. Confine naturale, per la verità, doveva essere il fiume Esino; sennonché, in occasione di una grossa inondazione, al fiume era venuto il capriccio di cangiar letto nei pressi di Chiaravalle, la qual cosa aveva generato una vivace disputa tra Jesini ed Anconetani per la giurisdizione su certi terreni che erano appartenuti all'abbazia.

L'ARMATA DI CHIARAVALLE

Tra gli uni e gli altri si accesero così fiere e lunghe ire e contese e per quasi due secoli e mezzo, cioè dal 1309 al 1521, furono sempre in guerra, spesso combattuta con le armi sul campo di battaglia dove gli Anconitani avranno sempre la peggio (ma gli Anconetani ricorreranno sempre e puntualmente ai tribunali della S. Sede e qui saranno sempre o quasi gli Jesini ad avere la peggio).
Oltre al Palio, quindi, in maggio e precisamente nella seconda domenica del mese, gli Jesini mettevano in campo quella che veniva comunemente detta l’«armata di Chiaravalle». Gli Jesini adunavano il loro esercito composto della città e del contado; parte eran pedoni e parte cavalieri: sotto la scorta di un capitano, che sempre era jesino, a bandiere spiegate, ove campeggiava il leon bianco con corona di oro in campo rosso, preceduti da tamburi, da trombe, da corni e da altri guerrieri istrumenti, colla baldanza e il tripudio di un popolo che sente la sua gioventù e gagliardia, muovevano alla badia di Chiara­valle.
Giunti al castellare di S. Lorenzo, facevan alt per prendere qualche ristoro; poscia riprendevan la marcia e, giunti a Chiaravalle, facevano un'offerta di cera a S. Maria in Castagnola. Quindi i deputati all'uopo andavano in tutti i versi per ricono­scere i confini e riconfermare coll'atto della presenza il pos­sesso di quel territorio. Questa «marcia», anche se fu soggetta a qualche interruzione, si ripeté tutti gli anni fino al XVI secolo: praticamente finché durarono le lotte con gli Anconetani.
CONTRO I FABRIANESI
Agli inizi del XIV secolo, prima che cominciassero le seco­lari guerre con gli Anconetani, gli Jesini avevano avuto una lunga disputa sul fronte opposto, contro i Fabrianesi. Ed anche in quella contesa avevano dovuto far ricorso alle armi. Si sa che alle origini di quella guerra fu l'occupazione, dai Nostri ri­tenuta abusiva, dei castelli di Rovellone, Avoltore e Precicchio da parte dei Fabrianesi. In effetti, i tre castelli erano stati per un certo tempo sotto la giurisdizione dei Nostri. Ma un bei giorno i Fabrianesi se li erano aggregati con un colpo di mano. Gli Jesini reagirono e, messo in campo un esercito di cinquemila fanti, riconquistarono i tre castelli con la forza delle armi. I Fabrianesi ricorsero allora all'autorità ecclesia­stica. Oddone da Cortona  (giudice e vicario di Antonio, vesco­vo fiesolano, rettore della Marca), corrotto dal denaro, con­dannò gli Jesini alla restituzione di quei castelli. Gli Jesini si appellarono innanzi al camerlengo pontificio, Giovanni di Spoleto; questi, con dispaccio dato da Perugia il 22 giugno del 1304, commetteva la revisione della sentenza a D. Francesco monaco di S. Savino, a Manenzio cappellano di S. Niccolò e a Mercato rettore di S. Benedetto della Valle. «Singolare ed onorevole è questo dispaccio — annota Giovanni Annibaldi — poiché nella causa di Jesi contro Fabriano stanziava a revisori della sentenza tre monaci jesini o almeno abitanti in Jesi».
Le cose, comunque, presero ad andare per le lunghe, col risultato che nel frattempo si avevano scorrerie dall'una e dall'altra parte, e quindi devastazioni di castelli e nuove sofferenze per le popolazioni contese. Nel 1305 fu tentata anche la mediazione dei Permani, ma con esito negativo. Si andò avanti così, dunque, per cinque anni, finché, dopo una lunga serie di proposte e trattative di tregua e di pace, il 1° settembre 1308 si pervenne ad una composizione definitiva. Alla quale si giunse soltanto perché gli Jesini, ad un certo momento, aveva­no deciso di lasciar perdere e di rinunciare, almeno per il momento, alla giurisdizione sui tre castelli.
La rinuncia dei Nostri era stata decisa anche e soprattutto perché nel frattempo nuovi avvenimenti erano maturati sul fronte opposto, verso l'Adriatico : non ancora in direzione di Ancona, ma più a Nord, sulla direttrice Senigallia-Fano-Pesaro.
Non è di troppo ricordare, a questo punto, che nel 1305 era stato eletto papa il francese Bertrand de Got, il quale aveva mandato in Italia un gran numero di Francesi per assumere l'incarico di governatori e di legati nelle varie province della Chiesa, per occupare le più laute sedi vescovili e per estorcere denaro con nuove imposizioni e gabelle. Nella Marca era venuto il nipote di Clemente V, Bertrando, suscitan­do gravi proteste e ingrossando le file del partito ghibellino. Ancona, pur guelfa per tradizione, si mise a capo di una coalizione di città, di cui facevano parte Senigallia, Ascoli, Umana, Ripatransone ed altri Comuni minori, mentre Osimo e Jesi, contrariamente al loro abituale contegno, si mostrarono fedeli alla Chiesa, combattendo sotto le insegne di Federico di Montefeltro, che, malgrado le sue tendenze ghibelline, era ora alla testa delle milizie ecclesiastiche.
In questa nuova contesa, le truppe jesine, dopo aver concorso alla riconquista di Pesaro e Fano operata dall'eser­cito pontificio, ebbero un ruolo determinante nella occupazio­ne di Senigallia.
LA CONQUISTA DI SENIGALLIA
A Senigallia, in potere dei ghibellini, c'erano i Malatesta; o meglio, c'era uno jesino, Tano Baligani, che comandava quella piazzaforte per conto dei Malatesta. E con il Baligani c'erano altri nobili jesini di parte ghibellina che s'erano ribellati alla autorità guelfa della nostra città.
Tano era figlio di Filippuccio, uno dei tre fratelli Baligani che, giunti a Jesi nel 1262, vi avevano instaurata la prima Si­gnoria della città nel 1271. I Baligani, come si è visto nel capitolo precedente, erano stati poi cacciati dai Simonetti; erano tornati a Jesi nel 1302 per aderire al patto — sotto­scritto nel giugno di quell'anno dai capi delle maggiori fami­glie jesine — di non turbare più la quiete cittadina. Ma quel giuramento era stato presto tradito, tanto che a distanza di appena quattro anni Tano Baligani e gli altri ghibellini si trovavano, in armi, nella fortezza di Senigallia, contro le truppe concittadine che erano allora in difesa delle insegne guelfe.
Nel 1306, dunque, le truppe jesine erano schierate sotto le mura di Senigallia. L'esercito guelfo era comandato da Gerardo De Tastis, maresciallo della Chiesa e vicario di Bertrando. I nostri avevano schierato in campo diecimila fanti e settecen­to cavalieri (e spenderanno per questa campagna cinquanta­mila lire). Il De Tastis decise di assaltare Senigallia su due lati, lasciando agli Jesini il compito di affrontare quello più agguer­rito. Aperta in questo modo ai nostri la strada di acquistare gloria ed onore militare, salirono tanto animosamente su per scale appoggiate già alle mura che in breve spazio di tempo, ammazzati i difensori, ne scacciarono, con l'aiuto del restante delle genti del pontefice, tutto il presidio del Malatesta e insieme Tano Baligani, capitano delle sue genti. 
Lo stesso Baligani cadde prigioniero degli Jesini. I quali però. con gesto di clemenza concittadina, evitarono di con­segnarlo al De Tastis. Infatti alcuni dei nostri, per non parere di aver fatto prigioniero un loro cittadino, gli mostrarono il modo di fuggire. Il legato pontificio subodorò la cosa e si irritò: tuttavia, dal momento che gli Jesini si erano dimostrati dei valorosi e si doveva ad essi la vittoria, non ne fece altra dimostrazione. Anzi, lodando l'animosità dei nostri, concesse a questa magnifica ed illustre Comunità molti privilegi e donolle tutti i beni che Tano Baligani possedeva nel nostro territorio, unitamente a quelli dei complici del Baligani.
LA BATTAGLIA DI CAMERATA
Dopo quella vittoria, il Comune di Jesi poté annettere al proprio Contado i castelli di Montemarciano, Cassiano, Alberici, Vaccarile e Casalta, oltre ai castelli di Morro senigalliese, Montesanvito ed Albarello, che erano dei Senigalliesi.
La caduta di Senigallia non aveva fiaccato le velleità dei ghibellini. Nel 1308 gli Anconetani accesero la miccia per una nuova e più sanguinosa battaglia. Insieme ai Senigalliesi, essi compirono una terribile scorreria nel nostro territorio, assal­tando e distruggendo i castelli di S. Lorenzo in Maccarata e delle Ripe, e commettendo altri eccessi ed enormi delitti. Gli Jesini interpretarono la cosa come una provocazione bell'e buona, e prepararono la replica, allestendo immediatamente un nuovo esercito. A Jesini e Osimani si unirono i Sanseverinati. In campo avverso, gli Anconetani disponevano di una gran moltitudine di uomini e di cavalli, gente tutta bene arma­ta. Un cronista di Cesena riferisce che l'esercito dei ghibellini contava centoundicimila uomini, ma la cifra appare evidente­mente esagerata. Gli Anconetani, per invogliare i Nostri a com­battere, cavarono con una gran prestezza fuor dei ripari le loro genti ed invitarono per più grandezza col terribile suono delle trombe e dei tamburi al combattere i nostri.
Quando l'esercito jesino fu in vista della moltitudine av­versaria ebbe un attimo di esitazione, non a torto preoccupato della stragrande superiorità numerica dei nemici. Il Grizio mette in bocca ad uno dei capitani jesini questo discorso, fatto nell'imminenza della battaglia:
«Se io non pensassi, o valorosi soldati ed ottimi cittadini, che tutti voi, nel sentire il suono dei tamburi e delle trombe nemiche, vi foste allegrati per il desiderio di venire prestamente con loro alle mani, certo che io cercherei di infiammarvi ed accendervi al combattere, col mostrare la felicità della vittoria, l'onore che ne conseguirete e la ricchezza della preda. Ma, poi­ché so che nessuno non vi è che allegramente non si sia vestito delle sue armi per andare con la solita bravura ad affrontare il nemico, non voglio altrimenti con gli sproni delle mie parole incitarvi al correre. Ma solamente — perché potrebbe essere che ciascuno di voi temesse del fino di questa battaglia, spa­ventato dal gran numero delle genti nemiche — ricorderò che animosamente, non riguardando ciò, vi portiate; perché le vit­torie consistono più nei forti e valorosi soldati che nella molti­tudine; la quale, generando confusione, suole apportare il più delle volte perdita e danno, come potrei con gli esempi delle passate guerre e con i miserabili successi di molte zuffe avvenu­te ai tempi nostri mostrare. Ora dunque, soldati e compagni nostri valorosi, sprezzate il numero delle genti nemiche; mo­stratevi degni di quell'onore che poco avanti avete raggiunto, col liberare Senigallia, alla vostra gloria; ed abbiate a cuore la di­gnità. la conservazione della Patria ed il nome Esino: non istimando, nel seguir noi vostri compagni della guerra, nessun pericolo e fortuna della battaglia. Perciocché, oltre l'onore che ne conseguirete, conserverete voi stessi alle vostre care mogli e dol­ci figlioli, che di già, con animo incerto del fine, debbono aspet­tare d'udire, con desiderio di rivedervi sani, il successo della cosa».
Lo scontro fra i due eserciti avvenne a Camerata, castello di Ancona, il 7 giugno 1309, giorno di domenica. E fu la batta­glia più sanguinosa di quante nei tempi degli scellerati nomi dei guelfi e dei ghibellini si facessero in questi dì/ritorni. Federico da Montefeltro, che comandava l'esercito pontifico, ebbe il sopravvento, malgrado la superiorità delle truppe confede­rate, ed inflisse agli Anconitani una dura sconfitta. Ancona perdette, oltre al fiore dei suoi uomini, in gran parte uccisi sul campo, il carroccio ed i suoi vessilli. Il castello di Camerata, durante lo svolgersi dei combattimenti, andò completamente distrutto.
Dice il Grizio che degli Anconetani furono « tagliati a pezzi quattromila uomini, con tanto altro spargimento di sangue dei feriti che la campagna corse quel giorno tutta sangue. Onde in testimonio di ciò — aggiunge il Grizio — intesi già dire che per un tempo l'erbe che vi nascevano furono amare ». In quella battaglia si distinse in particolare il giovane jesino Galvano Galvani, il quale fu il primo a piantare la bandiera vit­toriosa sulle mura di Camerata.
Seguiamo ancora il Grizio : « Gli Anconitani perdettero in quella famosa battaglia molto della loro reputazione. I Nostri fecero prigionieri mille Anconitani, i quale poi (essendo, insie­me col loro carroccio, bagagli, armi e stendardi, condotti con grandissima pompa dall'esercito vittorioso in trionfo nella nostra città) dettero gratissimo spettacolo ai cittadini e ai soldati, essendo menati avanti ai nostri tutti i prigionieri an­conitani legati. Altri, ro vociate l'aste, trascinavano gli stendardi e le insegne loro per la città, ed altri, avendo posto in cima delle lance le teste dei corpi morti, davano ai valorosi e corag­giosi grandissimo animo di atterrare la parte ghibellina, e alle Davide donnicciole apportavano per l'orrore dei morti grandissimo spavento con un so che di misericordia che natu­ralmente quel sesso suole avere ai morti ».
In compenso dell'aiuto ricevuto, gli Jesini diedero agli Osimani gli atterrati stendardi degli Anconitani; stendardi che, negli anni che seguirono e nell'anniversario della battaglia, i ragazzi di quel centro, in vituperio dei vinti, ne facevano scempio, trascinandoli per le più fangose e sporche strade di Osimo. Non tutti gli stendardi, ovviamente, vennero dati agli alleati. «II principale almeno - sottolinea il Gianandrea - rimase trofeo di quella battaglia in Jesi e se ne conserva l'asta lunga ben otto metri in questo pubblico archivio».

LA TORRE DELLA GUARDIA
Per gli Anconetani si trattò effettivamente di una umi­liante batosta, che avrebbero cercato senza dubbio di vendi­care quanto prima. Per questo, negli anni che seguirono, i governanti jesini si preoccuparono di adottare tutte le misu­re necessarie per pre­venire qualsiasi attac­co che dovesse giunge­re dal mare o da qualsiasi altra parte. La torre d'ella Guar­dia fu una di queste misure (Tommaso Baldassini la fa risali­re al 1342, Giovanni Annibaldi al 1350).
Edificata sul­la collina ad oriente della città, sulle rovine del castello di Montereturri, la torre era quadrilatera   massic­cia, severa, paurosa, divisa in tre piani, incoronata a sommo di merli e sormontata da un cucuzzolo vuoto, dal quale si usciva nel ballatoio, che  aveva parecchi   piombatoi. La torre era alta 46 metri e mezzo ed ogni lato  misurava circa nove metri di larghez­za. Quivi gli Jesini te­nevano  un  torriere con alcuni uomini ed armi(ve li tennero fino al 1650 circa). Il torriere doveva spinger lo sguardo sui confini del con­tado, che tutto si scopriva, e sull'onde del sottoposto Adria­tico per osservare ravvicinarsi ed il muoversi delle truppe e delle navi nemiche, specialmente delle fuste turcheste. E dovea darne avviso alle scolte o guardie, che dalla torre della cattedrale o del palazzo dei priori di giorno e di notte drizzava­no il guardo a quella torre. I segni convenzionali per ravviso erano di giorno il fumo, di notte la fiamma. E se la nebbia serpeggiante per la valle dell'Esine avesse impedito la vista dell'uno o dell'altra, una campana a colpi concertati portava sull'aure le scoperte e gli avvisi del terriere. Anticamente que­sta torre era conosciuta come la torre di Montereturri, poi venne detta Torrione, successivamente Torretta ed infine Guardia di Jesi. 
Oltre alla torre, gli Jesini fecero scavare attorno alla città, ad una distanza di un chilometro e mezzo circa, dei fossati con porte a mò di rocche, dette dai Nostri «portoni)); questi fossati dovevano servire, in caso di attacco nemico, ai conta­dini, i quali entro di quelli far la ritirata del bestiame e, in caso di necessità, sostenere un buon assalto finché i cittadini ed i terrieri uscissero ad incontrare la parte contraria.
Poiché tali fossati erano fatti a regola d'arte, tanto che un portone guardava l'altro, potevano quelli della guardia del portone assaltato facilmente dare il cenno o con lampi di fuoco o con altro a quelli che guardavano l'altre porte, e i contadini difendere la calata e la salita delle fosse con «ispiedi», lande, «accie», balestre ed altre sorti d'arme ai nemici che ardissero approssimarsi per predare il bestiame, che non avessero fatto in tempo a mettere al sicuro. Perché le bestie, quando sentivano dare la campana all'armi, fuggivano e, come avessero parte d'in­telletto umano, correvano senza guida dì guardiani entro le dette fosse; ed i bovi coi muggiti pareva che invitassero le altre bestie a fuggire.
IL POPOLO SI RIBELLA
Tano Baligani oggigiorno è poco più di una lapide a capo di una via, per non dire che è un illustre sconosciuto. Ma nei primi decenni del XIV secolo fu uno dei protagonisti della storia jesina ed ebbe un ruolo notevole non solo nella Marca d'Ancona, ma anche in Toscana. Non fu un personaggio coeren­te, ma un valoroso si, anche se sfortunato e destinato ad una brutta fine.
Già lo abbiamo visto a capo d'elle milizie ghibelline nella roccaforte di Senigallia espugnata dalle truppe guelfe, tra le quali quelle jesine che gli risparmiarono la prigionia. Qualche tempo dopo la sanguinosa battaglia di Camerata, in una Jesi di nuovo travagliata dalle discordie fra i due partiti dell'epoca, Tano Baligani, con perverso e cattivo animo, sollevò la plebe contro i nobili: una specie di rivoluzione del popolo che si dichiarava stanco di pagare le tasse e pertanto non voleva più saperne di obbedire all'autorità del magistrato.
Il gonfaloniere ed i priori sulle prime cercarono di rab­bonire i rivoltosi con dolci parole e buone promesse; interven­ne anche il vescovo, che a quel tempo era il perugino France­sco Aitano, parente di Bartolo da Sassoferrato, ma tutto fu inutile. La popolazione, armata, occupò la piazza di S. Luca (oggi intitolata ad Angelo Colocci). I nobili, vista la mala parata, si rinchiusero entro il palazzo dei Priori (oggi della Signoria).
Angelo e Filippo Simonetti — figli di Simonetto di Raniero e fratelli di Mercenario, Rinaldo e Guglielmo dei quali abbiamo già avuto occasione di parlare — avevano in mente di liberarsi dall'assedio con una sortita notturna per cogliere di sorpresa i ribelli, che si erano acquartierati nella piazza, e metterli in fuga. Ma poi ci ripensarono, perché se la sor­presa non fosse riuscita avrebbero potuto anche avere la peg­gio. Pertanto non ebbero altra scelta che quella di accettare la pace, che venne sanzionata in questi termini: i popolani chiedevano perdono al magistrato ed i nobili esentavano i po­polani da ogni imposta per un anno.
TANO CON I GUELFI
Nel 1311 scendeva in Italia Enrico VII di Lussemburgo. Il suo arrivo fu accolto con evidente soddisfazione dai ghibel­lini, che riacquistarono nuovo vigore. Ancona, schierata tra le forse di parte guelfa, inviò le sue milizie in soccorso dei fiorentini; altre città, tra cui Jesi, Osimo e Recanati, forma­rono la Lega degli Amici della Marca e tornarono a parteggiare contro la Chiesa sotto la guida di Federico da Montefeltro, resistendo tenacemente ai rappresentanti pontifici. Valendosi della protezione del Montefeltro, essi fondarono anche una setta ereticale, che professava dottrine empie e praticava riti osceni, facendosi ludibrio della Chiesa e dei suoi ministri, Tutte le località della provincia aderenti al pontefice furono sottoposte ad un crudele salasso; i campi e le case devastati e distrutti, le popolazioni spogliate e trucidate.
I guelfi tuttavia non rimasero a lungo inattivi; la loro reazione, seppure tardiva, fu energica. Ed ebbe successo, si può dire, nel momento stesso in cui Federico da Montefeltro, precipitatesi ad Urbino per arruolare nuove milizie, veniva ucciso (1321). La morte del loro capo significò per i ghibellini una perdita grave, tanto che entro breve tempo anche Jesi tornò in mano dei guelfi. Ad impadronirsi della nostra città, guarda caso, fu proprio quel Tano Baligani che — un tempo acceso ed irriducibile ghibellino — ora era uno dei capi più in vista dei guelfi.
Quali che fossero i motivi che avevano indotto il Baligani a passare in campo avverso — forse per rientrare nelle grazie del pontefice, suppone il Grizio — sta di fatto che il nostro, uomo d'ingegno perspicace e assai prode nell'armi, aveva saputo meritarsi tanta stima da parte dei guelfi che in poco tempo ne era diventato l'anima. Fra i capi dell'esercito guelfo di Toscana contro i ghibellini di Arezzo, ora era addirittura il condottiero dei guelfi di tutta la Marca di Ancona.
Il Baligani, che per la conquista di Jesi si era servito delle milizie di Ancona, diede la possibilità ai dorici di rifarsi delle umiliazioni patite ad opera degli Jesini; infatti gli Anconetani ricevettero da Tano, a titolo di compenso, il possesso di alcuni castelli, tra cui la rocca di Fiumesino. Negli anni che seguirono il Baligani rafforzò ulteriormente la sua fama di valente guer­riero, intervenendo con le armi a protezione di questa o di quella località del Contado minacciata dai ghibellini.
Nel 1326 era alla testa dell'esercito della Chiesa e scon­fisse il 18 giugno nel territorio di Rocca Contrada (Arcevìa) Lomo di Rinaldo Simonetti; e liberò, nell'entrante di luglio, Morrò, castello di Jesi, da un assalto di quei di Fabriano e altri ghibellini della Marca. L'anno dopo ottenne un nuovo successo militare, ancora contro i Fabrianesi: nei pressi del Castello di Fomoli, affrontò in campo aperto un contingente di ribelli della Chiesa forte di quattrocento cavalieri e duemila fanti: li sbaragliò, costringendoli a lasciare sul campo  di battaglia trecento morti e quattrocento prigionieri.
Se il Baligani aveva coronato il suo antico sogno di coman­dare su Jesi, non è da dire che i ghibellini si fossero rassegnati a lasciargli la signoria della città. Tentarono, anzi, senza dargli tregua, di ricacciare l’usurpatore. A capo dei ghibellini di Jesi v'era Nicolo Bisaccioni conte di Boscareto, il quale, non dispo­nendo di sufficenti uomini e mezzi, chiese ed ottenne l'aiuto dei Fermani, con i quali, dopo alcune scaramucce, assediò la città da ogni parte. Ma in quella occasione la conquista di Jesi non gli riuscì: o perché la città era troppo ben difesa, o perché i Permani ad un certo punto si sarebbero rifiutati di combattere contro gli Jesini, dei quali sempre erano stati fautori della dignità e gran­dezza, o magari perché non volevano incorrere nei fulmini della Santa Sede.
Tuttavia il Boscareto non si diede per vinto. Nel 1328 stringeva un'altra alleanza, anche questa a Fermo, ma con più vaste e quotate adesioni. Vi aderirono molti caporioni del par­tito ghibellino, fra i quali i celebri Lippaccio ed Andrea Guzzolini da Osìmo, i fratelli Boorto, Lomo e Guglielmo Simonetti, Matteo di Monalduccio, Tomassuccio Salsi e Lamo del signo­re Antonio da Troia, Liverotto da Mogliano, Bartolomeno da Sanseverino, Aioletto di Cruciano e Bernardo da Recanati, Tomassino con Bertuccio e Magio suoi figliuoli da Fabriano, Francesco da Matetica ed Ottomano da Brunforte. Uno dei capi­tani confederati, l'esimano Lippateo, assalì Jesi con un energi­co attacco ; fracassò con picconi le mura e con scale salì fino ad esse, ma Tano Baligani lo respinse.
Finché, ad ingrossare le file delle truppe asservite ai pro­getti del Boscareto, vennero gli uomini del Bavaro. Il Bavaro: cosi veniva chiamato Luigi o Ludovico di Baviera, che, sceso in Italia nel febbraio del 1327, a Milano si era fatto incoronare re dei Romani; lo stesso aveva fatto l'anno dopo a Roma. Non soddisfatto, il Bavaro aveva poi dichiarato depo­sto papa Giovanni XII e fatto eleggere al suo posto un nuovo pontefice, Nicolò V. Il Bavaro non venne mai dalle nostre parti. Vi mandò suoi emissari o fece eleggere gente del posto scelta fra elemen­ti capaci di garantire piena devozione; alla sua persona ed assoluta fedeltà alla sua politica. Il Boscareto, evidentemente, fu uno di questi, poiché ottenne l'aiuto dei soldati bavaresi. Erano comandati, questi ultimi, da Giovanni di Chiermonte, conte di Mohac, nominato vicario della Marca dall'antipa­pa Nicolo V. Comandante supremo di tutte le forze confederate contro Jesi era invece l'osimano Lippaccio Guzzolini. L'eserci­to ghibellino mosse contro la nostra città ai primi di marzo del 1328. Si combatté per tre giorni, furiosamente, e per tré giorni gli assediati respinsero energicamente ogni attacco. Poi, con crudele e diabolico tradimento, i confederati riuscirono a penetrare in città e a dilagare nei borghi. Per gli eroici difen­sori fu la fine. Lo stesso Baligani cadde prigioniero.
A proposito della cattura del capitano guelfo, il Gianandrea scrive: «Si racconta che Tano, allo stremo d'ogni difesa, sortì con pochi e fidati amici dalla rocca, affrontando valoro­samente gli assalitori e sul principio sgominandoli. Sennonché, riuniti questi dalla ferma voce di Lippaccio, tornarono alla pugna e, già erano per piegare un'altra volta, quando Tano, spintosi troppo lungi dai suoi, fu fatto da Lippaccio medesimo prigioniero».
Tre giorni durò la prigionia. Poi, 1'8 marzo di quell'anno, su sentenza del Chiaramente, Tano Baligani, insieme ad altri Jesini di parte guelfa, venne decapitato in piazza San Gior­gio (oggi Federico II). Il capo d'accusa per cui il Baligani perse la testa è diversamente illustrato dagli storici. Alcuni dei quali vogliono che Tano, reo confesso, venisse giudicato per aver macchinato ai danni di Firenze ghibellina (invitato a Firenze come capitano, egli si sarebbe detto propenso a recarvisi ma col segreto intendimento di instaurare in quella città la sua dittatura). Il Gianandrea è del parere che fu mandato a morte, più verosimilmente, in quanto nemico e ribelle dell'impero.