martedì 8 marzo 2011

FEDERICO II





IL CONTADO JESINO

La costituzione dei Comuni, se portò ad una nuova organizzazione politico-amministrativa delle città, non significò però la fine di ogni conflitto. Fu l'inizio, anzi, di una nuova serie di lunghe lotte, perché i Comuni più grandi tendevano ad espandersi a danno dei Comuni più piccoli. E siccome i primi cercavano aiuto nell'Imperatore tedesco ed i secondi nel Papa, nacquero i due grossi «partiti» dell'epoca: quello dei guelfi, che si appoggiava all'autorità ecclesiastica, e quello dei ghibellini, che parteggiava per l'impero.
I Comuni, per la verità, erano sempre soggetti o al Sacro Romano Impero di Germania o allo Stato della Chiesa, ma si adattavano malvolentieri a tale sudditanza; si erano dati leggi proprie, eleggevano in piena autonomia i propri magistrati e se dovevano farsi guerra non andavano a chiedere il permesso di nessuno. Inutile dire che né il pontefice né l'imperatore vedevano di buon occhio le smanie indipendentistiche dei Comuni e consideravano ogni loro atto non preventivamente autorizzato come un gesto di aperta ribellione.
IL BARBAROSSA
In Germania, soprattutto, la cosa non era tollerata, tanto che un grande imperatore della casa Sveva, Federico I detto il Barbarossa, discese alla fine in Italia con un forte esercito deciso a far rispettare la propria autorità. Varcò le Alpi, assalì e distrusse le città ribelli, ponendo poi a capo di ogni Comune a lui soggetto un podestà tedesco dal pugno di ferro. Federico Barbarossa non si limitò a far valere la sua autorità sulle regioni italiane del Sacro Romano Impero ma, com'era nelle abitudini di tutti gli invasori, entrò più volte nelle province della Chiesa. Si spinse anche dalle nostre parti, quindi, e fu nel 1155, nel 1158, nel 1167 e nel 1173; nelle due ultime «calate» il suo esercito fu sotto le mura di Ancona; nell'ultimo assedio ci fu l'olocausto dell'eroina anconitana Stamira. Durante il combattimento un difensore della città getto una botte piena di resina e pece davanti agli steccati, ma essendo finita in mezzo alle forze nemiche, nessuno si azzardava ad incendiarla. Fu allora che una donna vedova, di nome Stamira, sprezzante del pericolo, impugnata una scure spezzò la botte e vi appiccò il fuoco. L'incendio così appiccato si propagò lungo tutto il fronte nemico distruggendo macchine da guerra e ripari sotto gli occhi attoniti dei nemici. Pur se il combattimento provocò perdite numerosissime da entrambe le parti, gli anconetani stremati dalla fame, grazie a quell'episodio, poterono rifornirsi di viveri, riuscendo ad importare dentro la città molti cavalli sì vivi come morti, dei quali nemmeno le intestina gettarono via (Buncompagno da Signa). Una lapide all'ingresso del Lazzaretto vanvitelliano è stata posta in ricordo dell'eroico gesto così come un quadro dell'anconetano Podesti ritrae l'evento ammirabile nella Pinacoteca civica di Ancona.
Ma soprattutto nel Nord, non tutti i Comuni accettarono passivamente il pugno di ferro del Barbarossa: trentasei Comuni si coalizzarono firmando a Pontida quella Lega Lombarda i cui uomini, sotto la protezione di papa Alessandro III, nel 1176 affrontarono e sconfissero le truppe tedesche a Legnano, in una memorabile battaglia. Fu un serio colpo per il Barbarossa, che si vide costretto a riappacificarsi col papa e coi Comuni. La pace fu firmata a Costanza, in Germania; fra l'altro, l'imperatore si impegnava a restituire al Papa tutti i suoi possedimenti romani; quanto a Spoleto, alla Marca d'Ancona e alla Romagna, pur non escludendosi l'amministrazione pon¬tificia, si conveniva che erano terre appartenenti all'impero. Tutto questo è molto dubbio; vero o no, comunque, sta di fatto che il nostro territorio rimase per lungo tempo oggetto di conte¬stazioni fra l'una e l'altra parte.
Federico Barbarossa, sconfitto nel Nord Italia, si riparò nel Sud, impossessandosi del regno di Sicilia con un'abile mossa diplomatica: infatti fece sposare il figlio Enrico VI con Costanza d'Altavilla, ultima erede di quel regno. Il matrimonio fra Enrico VI e Costanza fu celebrato nel 1186; otto anni dopo, dalla loro unione, nasceva a Jesi Federico II.
NASCE FEDERICO II
Costanza aveva avuto un'infanzia ed una giovinezza difficili. Evidentemente l'oroscopo non le era stato favorevole se i «luminari della corte di Buggero II, padre di Costanza, erano convinti che la giovanetta dovesse rappresentare la rovina del regno; ed infatti erano riusciti a convincere il sovrano a chiuderla in un convento. Era già sulla trentina quando Costanza, per ragioni di Stato, venne tolta dal chiostro e mandata in sposa ad Enrico VI, di undici anni più giovane di lei.
I rapporti fra i due coniugi non erano stati propriamente idilliaci. A noi basti sapere che nel dicembre del 1194 Costanza, in viaggio attraverso la Marca d'Ancona per raggiungere il marito in Sicilia, fece sosta a Jesi. Non era la prima volta che i reali di Sicilia si trovavano nella nostra città: già nel 1186 Jesi aveva ospitato Enrico VI che da qui aveva spedito diplomi a favore dei monasteri di Porto Nuovo, vicino ad Ancona, e di San Michele in Quadrigaria presso Cupramontana.
A quel tempo Jesi era già un notevole centro di attività commerciali ed artigianali; e molte erano le chiese, che costituivano i nuclei fondamentali della vita sociale dell'epoca. Il numero delle chiese e delle parrocchie era tanto copioso che sarebbe incredibile se non ci fosse attestato da irrepugnabili documenti contemporanei: ben tredici erano le chiese parrocchiali entro le mura castellane ed almeno una ventina quelle nel restante territorio del Comune. L'Annibaldi le elenca: entro il pomerio, la cattedrale, San Pietro, San Paolo, San Bartolo, Sant'Eutizio, Santa Croce, San Martino, San Benedetto, San Giorgio (poi San Floriano), Sant'Antonio, San Luca, San Clemente ed una chiesa della Posterma; fuori del pomerio, Santa Maria del Piano, San Savino, San Marco, Santa Croce presso Tabano, San Procolo, San Nicolò, San Giovanni della Valle, San Giovanni in Terravecchia, San Donato della Valle, Sant'Andrea della Valle, Santa Maria di Lacco, Santo Stefano della Buzzaia, Sant'Andrea di Mussizzano, San Martino della Granita, San Tommaso, SS. Filippo e Giacomo, Sant'Agostino (poi San Pietro Martire), San Cristoforo e San Claro, che però non è certo fosse nelle circostanze di Jesi.
Lo stesso Annibaldi arguisce che nell'intera Vallesina esistessero a quel tempo «un seicento chiese», vale a dire «una chiesa per ogni chilometro quadrato». Non vi erano, naturalmente, solo chiese. Esistevano già, come si è detto, anche le scuole e le «fraternite» delle arti. Ed anche ospedali. Ve ne erano tre: di Santa Lucia, di Sant'Antonio e di San Giovanni in Terravecchia; quest'ultimo (ubicato ov'è l'attuale palazzo delle poste) si vuole istituito nel 1084.
Una città che si andava sviluppando, dunque, era Jesi allorché nel 1194 vi giunse Costanza d'Altavilla; la quale il 26 dicembre di quell'anno dava alla luce, nell'allora piazza San Giorgio (oggi Federico II), colui che diventerà il più grande personaggio della Casa Sveva.
Oggi nessuno più osa mettere in dubbio che Federico II sia nato a Jesi. Ma in passato ci furono delle contestazioni. Alcuni sostenevano che fosse nato a Palermo, altri a Messina, altri ancora ad Assisi. Si fece anche nome di Jelsi, nelle Puglie. Ma già tre scrittori dell'epoca avevano dato la giusta versione: Riccardo da San Germano, un anonimo cassinese e Fra Salimbene da Parma. E a fugare ogni dubbio, poi, penserà lo stesso Federico II con una lettera indirizzata agli Jesini, di cui diremo in seguito.

SULLA PUBBLICA PIAZZA
Anche sulla nascita del grande Svevo furono dette e scritte molte cose a sproposito. «II livore dei suoi nemici si sbizzarì in mille modi contro di lui e contro l'augusta donna che gli fu madre — scrive il Gianandrea —. Si disse che il parto di Costanza fosse supposto, che fosse finta la sua gravidanza, che non poteva aver figlioli perché ormai vecchia. S'inventò che innanzi di andare a marito fosse monaca, che la prosciogliesse dai voti l'arcivescovo di Palermo. Un cronista ce la dipinge perfino zoppa e guercia. E tra le invenzioni ci fu anche questa, che Federico II era figliuolo di un beccaio di Jesi».
La diceria sull'età di Costanza è ripresa anche dai nostri storici più remoti. Per il Grizio, ad esempio, ella era donna di cinquant'anni; per Tommaso Baldassini era una donna attempata e passava i cinquant'anni. Ma il Gianandrea ha pronta la replica: coloro i quali «divulgarono la sciocca fiaba non si diedero pensiero di riscontrare le date, e le date sono queste: Costanza fi-gliuola postuma di Ruggero II normanno re delle Due Sicilie, nacque nel 1154 ed andò sposa ad Enrico VI figliuolo di Federico Barbarossa nel 1186. Aveva allora dunque trentadue anni, laddove il marito ne aveva ventuno. Quando partorì Federico II era sui quaranta, età ancora ragionevole per aver figliuoli».
«Una leggenda che ha relazione con quel parto supposto — conclude il Gianadrea — narra che lo sgravarsi di Costanza avvenne quasi pubblicamente, per togliere ogni sospetto d'inganno, sotto un padiglione innalzato sulla piazza maggiore, anzi l'unica allora di Jesi. Al parto furono presenti, come narrano parecchi storici, molti baroni e gentildonne, il Legato apostolico e, secondo Alberto abate stadense, quindici prelati tra vescovi e cardinali...». Pare che in un primo momento al neonato venisse dato il nome di Costantino; ma anche questa è una delle tante voci sulla avventurata e avventurosa nascita del grande Svevo.
Poiché Costanza aveva fretta di raggiungere il marito in Sicilia, il piccolo Federico II fu lasciato a Jesi, affidato alle cure dei conti Pietro di Celano e Berardo di Loreto. Fu poi accompagnato a Foligno, dove passò sotto la custodia della duchessa di Spoleto.
Nel 1197, a soli 32 anni, improvvisamente Enrico VI moriva. Costanza incaricò alcuni conti d'Apulia di prelevare il regio infante a Foligno per portarlo a Palermo, dove l'anno dopo, nel giorno di Pentecoste, con una fastissima cerimonia di rito bizantino, Federico II veniva incoronato re. Re di Sicilia, soltanto, secondo il desiderio della madre, la quale odiava i tedeschi e non voleva che il piccolo re diventasse imperatore di Germania. Ma anche Costanza aveva i giorni contati. Nel 1198, infatti, anch'essa moriva, non senza però aver prima nominato amministratore del Regno e tutore del figlio il Papa.

mercoledì 2 marzo 2011

IL PRIMO SINDACO





PADRONI DELLA VALLESINA

Col tempo le abbazie benedettine arrivarono a disporre di possedimenti sempre più vasti. Verso il Mille o poco più, ad esempio, i monaci di Sant'Elena avevano 112 ettari di terra, quelli di Chiaravalle 146, quelli di Sant'Apollinare 160, quelli di San Savino 88, di Santa Maria in Serra 225 e quelli di Moje addirittura 430 ettari. Si può dire che in pratica tutta la Vallesina era proprietà dei monaci. La qual cosa era dovuta ai lasciti di coloro che abbandonavano la vita mondana per il saio o a donazioni di principi. Alcuni monasteri jesini avevano possedimenti anche fuori del territorio della Vallesina: si veda il caso dell'abbazia di Chiaravalle che aveva molti possedimenti anche nei territori di Ancona e Senigallia, o dell'abbazia di San Giovanni in Antignano che aveva alcune proprietà nell'Osimano; o del monastero di Sant'Elena, i cui possedimenti erano anche in quel di Camerino e di Senigallia.
E' evidente che i monaci, per quanto numerosi ed attivi, non avrebbero potuto, da soli, badare ai campi, alle opere edilizie, alle attività artigianali. Pertanto furono costretti ad assumere alle loro dipendenze intere famiglie di agricoltori prelevate dalla popolazione locale; popolazione che, se nelle passate aggressioni barbariche si era estremamente assottigliata, ora andava aumentando ed era in cerca di lavoro per vivere.
Gli individui di ciascuna famiglia divennero servi e vassalli dei monaci e furono stanziati più o meno lontani dai monasteri secondo che richiedeva la maggiore o minore lontananza dei fondi. Da questo fatto sorse un gran numero di «ville»: tra le prime, nel territorio jesino, quelle di San Marcello, Tabano, Moje, Cannuccia, Mazzangrugno, ecc. In un secondo tempo, vuoi perché la popolazione era in continuo aumento e vuoi perché si era reso necessario difendere i possedimenti monacali dagli assalitori interni ed esterni in quelle continue lotte tra i fondatori, e tra la Chiesa e l'Impero, presso queste ville, nei luoghi più elevati ed atti alla difesa, sorsero castelli più o meno grandi e ben muniti di mura, di torri, di ballatoi, di merli e di bertesche.
Gli stessi benedettini, a quanto si ritiene — e l'ipotesi appare molto attendibile, dato che i monaci a quei tempi erano padroni non solo della Vallesina ma anche della stessa città di Jesi — provvidero a rinforzare le mura cittadine, dopo che la popolazione della zona di Terravecchia era tornata ad insediarsi nell'antica città.
La Vallesina dunque era in potere dei benedettini, che esercitavano sulla popolazione la doppia giurisdizione spirituale e civile, quando nella seconda metà dell'XI secolo un nuovo e più violento conflitto vedeva di fronte la Chiesa e l'impero a causa dell'ingerenza di questo nelle cose di quella.
I benedettini avevano condotto un'aperta campagna contro la simonia e con successo, perché la Chiesa dapprima condannò la simonia stessa, poi tolse all'Imperatore il diritto di nominare il Papa ed infine fece assoluto divieto ai laici, imperatore compreso, di distribuire cariche ecclesiastiche. Un imperatore, Enrico IV, si ribellò a tale riordinamento e si ebbe da Gregorio VII la scomunica (1076). Scoppiò allora in tutta l'Italia la «lotta delle investiture», che doveva protrarsi per quasi cinquant'anni. Ci fu, per la verità, un momento in cui si credette in una rapida soluzione del conflitto e fu allorquando Enrico IV, per riconciliarsi col Papa, venne in Italia e si umiliò nel castello di Canossa davanti a Gregorio VII; ma fu solo una breve parentesi, perché l'imperatore riprese a combattere contro il pontefice, il quale poté sfuggire l'assedio in Roma solo per l'intervento dei Normanni.

ARRIVANO I NORMANNI
I Normanni, uomini del Nord (erano originari della Scandinavia), avevano raggiunto l'Italia meridionale provenendo dalla Francia (Normandia), dove erano diventati cristiani e civili. Una parte di essi, guidata da Roberto il Guiscardo, aveva cacciato i Bizantini; un'altra parte, agli ordini di Buggero, fratello di Roberto, aveva tolto la Sicilia agli Arabi. Quando Enrico IV strinse d'assedio Gregorio VII, i Normanni, che stavano risalendo la penisola, erano giunti fin verso la Vallesina, ma avevano dovuto però abbandonarla — così almeno ritengono alcuni — per correre in aiuto del Papa.
Nel 1122 finalmente, con il concordato di Worms stipulato fra papa Callisto II e l'Imperatore Enrico V, anche la guerra delle investiture ebbe termine. Otto anni dopo nell'Italia meridionale nasceva il regno di Sicilia e di Puglia per opera di Ruggero II, il quale aveva riunito tutti i domini dei Normanni nelle sue mani e se ne era proclamato re.
LIBERO COMUNE
Nel frattempo, nonostante le lotte, Goffredo di Buglione aveva guidato la prima crociata (1096-1099) per liberare la Palestina e Gerusalemme dai Turchi; ed a quella erano seguite altre crociate, le quali, pur non arrecando in definitiva alcun risultato politico, avevano comunque portato all'Europa e in special modo all'Italia grossi vantaggi economici, avendo aperto i mercati del levante. Nel contempo la lunga lotta delle investiture aveva indebolito la forza e l'autorità sia del Papa che dell'imperatore. Tutto ciò favorì il verificarsi di nuovi ordinamenti: i Comuni. Nelle città, infatti, con la riattivazione delle industrie e dei commerci, si era venuta formando una classe di uomini nuovi: la borghesia. Erano artigiani e mercanti, desiderosi di libertà, lavoro e guadagni; questi uomini diedero forza e potenza alle città di fronte ai feudatari della campagna e, insieme ai nobili, si erano accordati per governare le città stesse: nacquero così i Comuni.
Nella prima metà del XII secolo anche a Jesi si formò il libero Comune. Ma a Jesi, come abbiamo visto, tutto e tutti erano praticamente in mano ai benedettini e quindi non poteva essersi formata quella borghesia che in tante città del Nord e del Centro Italia s'era ribellata al feudalesimo, abbattendolo. Qui, pertanto, si arrivò al Comune per altra strada: l'affrancamento della popolazione dall'autorità civile dei monaci.
Secondo l'Annibaldi, nello Jesino il primo e più grande passo verso la libertà e l'affrancamento fu la cessione «in enfiteusi» dei fondi rustici e urbani a chi li lavorava e vi abitava, cioè a dire una specie di cessione in affitto dietro versamento di un canone annuo (da qui l'origine della «decima» che ancora era in uso nelle nostre campagne fino a qualche decennio fa, anche se il «pagamento» della quota, in tempi recenti, era volontario e limitato a piccole offerte). Altro passo attraverso il quale si arrivò da noi al libero Comune fu la costituzione delle associazioni, dette anche aggregazioni o fraternite, delle arti e dei mestieri. Queste associazioni in Jesi allora dovevano essere numerose, specialmente dei maestri e degli artigiani più necessari ai bisogni di tutti, come i muratori, i fabbri ferrai, i fabbri legnai, i mugnai, i calzolai ed i sartori.
Ma né l'enfiteusi né le associazioni delle arti sarebbero state valevoli da sole a rendere affrancati totalmente gli Jesini e in maniera da costituirsi in reggimento comunale. Ci deve essere stato un avvenimento o un episodio grande e comune a tutti.
«Io penso — scrive l'Annibaldi — che gli Jesini abbiano avuto a combattere contro esterni nemici in difesa di se stessi, del vescovo e dei monaci, e che in tale difesa spiegassero tanto senno e valore che per una parte essi furon fatti consci a se stessi di quanto potevano, e per l'altra il vescovo ed i monaci furon fatti accorti che i loro vassalli erano maturi per la libertà e degni dell'affrancamento, come in premio e gratitudine dei rilevanti servigi che avevano prestato ai loro padroni e dominatori».
Il motto che campeggiava sullo stemma dell'antico Comune di Jesi diceva: «Respublica Aesina Libertas Ecclesiastica» che, nell'interpretazione dell'Annibaldi, non starebbe a significare il grido di gioia degli Jesini nel ritrovarsi finalmente liberi dalla signoria degli ecclesiastici, ma confermerebbe che «l'affrancazione effettuata dai monaci e dal vescovo fu spontanea e non punto violenta» e che gli Jesini volessero anzi fissare in quel motto la loro espressione di gratitudine perenne «verso gli ecclesiastici che li affrancarono».
I Comuni di allora, così come erano costituiti e retti, non assomigliavano affatto ai Comuni moderni, che hanno (o dovrebbero avere) piena autonomia amministrativa. I Comuni medioevali puntavano invece ad una completa autonomia politica; volevano essere, cioè, tante piccole repubbliche. Li governavano capi detti «consoli», i quali comandavano l'esercito ed amministravano la giustizia. Poi c'era il parlamento, che era l'assemblea di tutti i cittadini, i quali, in quella sede, facevano le leggi e nominavano i magistrati, i consoli in carica potevano essere anche più di uno, ma in ogni caso mantenevano l'incarico soltanto un anno e dovevano rendere conto del loro operato.
IL PRIMO SINDACO
Per quanto riguardava Jesi, i rappresentanti del nostro Comune dapprincipio erano tutti artigiani aggregati a diverse scuole o confraternite. Il Comune jesino ebbe inizio con gli artigiani perché le arti furono uno dei primi fattori dell'affrancamento. Ivi non si mostrava punto la nobiltà, la ricchezza. Gli Jesini non avevano ne l'una ne l'altra, perché già servi e vassalli dei monaci e del vescovo. La loro ricchezza era il possesso e l'esercizio dell'arte, la loro nobiltà era il valore della medesima.
Il primo consiglio comunale di Jesi si chiamò «adunanza degli uomini delle arti della città di Jesi»; si teneva o nella chiesa cattedrale o nel palazzo vescovile (il che da, ragione alla tesi dell'Annibaldi a proposito dell'affrancamento) ed i «consiglieri» erano convocati al suono delle campane (l'uso è rimasto fino ad oggi, anche se ora è il campanone del palazzo della Signoria a «convocare» il consiglio). Il primo sindaco di Jesi di cui si conosca il nome — più precisamente era detto «sindaco generale delle arti» — fu Buonacosa Diotaiuti: un plauso ed un augurio insieme, come si vede.


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