martedì 14 novembre 2017

Il Risorgimento a Jesi e nella Vallesina


Il Risorgimento a Jesi e nella Vallesina: conferenza domenica 19 alla Biblioteca “La Fornace”


Domenica 19 novembre alle ore 18 presso la Biblioteca “La Fornace” di Moie di Maiolati Spontini (AN) si terrà una conferenza di storia voluta e organizzata dalla Associazione Culturale Euterpe di Jesi. La serata sarà relativa a un approfondimento su alcuni personaggi che hanno contraddistinto la storia locale nel periodo del Risorgimento. Il titolo dell’evento è “1848-1870: Ruolo di Jesi e del suo contado nel Risorgimento Italiani”. Da moderatrice sarà la Consigliere dell’Ass. Euterpe, dott.ssa Marinella Cimarelli. Interverranno storici, studiosi e saggisti: lo scrittore di romanzi storici nonché socio fondatore dell’Ass. Euterpe, dott. Stefano Vignaroli, farà un intervento dal titolo “L’unità d’Italia e i patrioti jesini: il Marchese Antonio Colocci e il tenente Giacomo Acqua”. Seguirà il contributo dello scrittore Marco Torcoletti vertente su “La prima guerra d’Indipendenza e la Repubblica Romana. Vicende e personaggi legati alla Vallesina”. Lo storico locale Riccardo Ceccarelli, invece, avrà modo di approfondire il vasto e interessante tema del “Risorgimento in Vallesina” e parlerà, in maniera particolare, del Capitano Bello e di altre figure patriottiche legate al nostro territorio.
Evento aperto al pubblico. La partecipazione è gratuita.
Info:
www.associazioneeuterpe.com
ass.culturale.euterpe@gmail.com
Tel. 327-5914963
Evento FB: https://www.facebook.com/events/1735680060069165/

 



sabato 26 novembre 2016

L'artigianato e le arti nel Rinascimento Jesino



FIORISCE L'ARTIGIANATO
Nonostante la peste, le guerre e le frequenti liti, l'economia di Jesi non era peggiore, a quei tempi, di quella delle principali città marchigiane. Oltre all'agricoltura, che costituiva il cardine dell'economia jesina, un ruolo sempre più notevole andavano assumendo le attività artigianali. Tradizionale era già, ad esempio, l'opera dei canestrai (lavoravano nel chiuso delle loro botteghe, seduti su bassi sgabelli, per avere a portata di mano i vimini e gli strumenti da lavoro collegati sempre sul pavimento); altre attività, come quella dei cordai, erano iniziate verso la fine del secolo. Ma, prima fra tutte, famosa ed affermata, era l'arte degli orefici jesini. A Jesi l'oreficeria aveva già una bella tradizione : fin dall'anno 1225 un certo Bisaccione, orefice, aveva fatto parlare della sua arte esercitata insieme ad altri.
Nel 1454 la nostra città contava duemila abitanti (la popolazione del Contado assommava a tredicimila unità) ed almeno dieci botteghe di orafi di lusso, tanto da essere consi­derata l'emporio della oreficeria nelle Marche. Le donne jesine erano le più convinte e convincenti propagandiste dell'oreficeria lesina. I signorotti dell'epoca ostentavano anelli infilati nel pollice e nell'indice; e se si trattava di donne maritate, un altro anche nel mignolo della mano destra, perché lì «si ponea l'anello nuziale».
Del resto, tutte le matrone di Jesi erano puntualmente allineate alla moda, sfarzosa ed eccentrica, del tempo. Si ricorda che. in occasione della venuta a Jesi di Bianca Maria Sforza, le donne lesine si dettero ad un lusso sfrenato. "Le gentili esponenti della nobiltà jesina indossavano vesti broccate, a zone troppo piene d'oro, dai braccialetti di gran valore, di camorre conteste di più dualità di panni e sparse qui e colà di pietre preziose, oro e argento contesto, o cucito nelle diverse robe. Quello sfarzo, che appariva — e lo era, indubbiamente — agli occhi del popolino uno spreco, significava per i privilegiati un marcato ottimismo che si esprimeva, perché no?, anche nei nomi femminili: non a caso a quel tempo alle neonate jesine capitava di vedersi imporre nomi di battesimo come Allegrina, Altobella, Bellafiora, Semidea, Principella, Piacevoluccia....
Se le donne potevano far sfoggio dei loro gioielli, gli uomini jesini avevano trovato modo di gareggiare fin dal 1453 in un nuovo sport: il tiro a segno con la balestra. A Jesi questa nobile ed utilissima istruzione era stata introdotta ufficialmente con regolare atto consiliare del 28 aprile 1453. Gonfaloniere era Angelo Piersimone Ghislieri e podestà o pretore era Benedetto di Cinzio da Visso. Il tiro a segno con la balestra entrò fin da quell'anno a far parte delle cerimonie e dei divertimenti tradizionali della festa di S. Floriano. I balestrieri più bravi si cimentavano nel bersaglio e la gara terminava con l'assegnazione della balestra al miglior tiratore.
L'ARTE DELLA STAMPA
Ma il XV secolo aveva registrato a Jesi un altro importante capitolo nelle attività artistico-artigianali, quella dei tipografi, che doveva dare alla nostra città un rilevante primato nell'arte della stampa: la prima edizione veramente italiana della «Divina Commedia».
Verso la metà del secolo in Germania Giovanni Gutemberg, dopo aver inventato i caratteri mobili a stampa, aveva aperto a Magonza la prima stamperia e, finanziato da due concittadini, aveva pubblicato il primo libro a stampa, la famosa «Bibbia» latina, detta Mazarina. Qualche anno dopo, la nuova arte era stata introdotta in Italia da Aldo Manuzio, il quale aveva aperto a Venezia una tipografia destinata a diventare in breve la più rinomata d'Europa (stando all'abate Gianfresco Lancellotti, uno studioso del '700. il Manuzio era nativo di Staffolo). Sull'esempio di Magonza e Venezia, Jesi era stata una delle prime città italiane ad avere una Tipografia. Era stata qui aperta, per l'esattezza, nel 1470 ad opera di un veronese, Federico Conti, secondo alcuni figlio del donzello dì un podestà di Cremona recatosi a Jesi intorno al 1450, e secondo altri figlio di quel Giovanni Conte di Verona che era soprastante alle munizioni delle rocche per Francesco Sforza.
Federico Conti da Verona il 18 luglio 1472 finiva di stam­pare nella sua tipografia di Jesi l'edizione principe della «Divina Commedia». Vero è che cento giorni prima anche Foligno e Mantova avevano finito di stampare il capolavoro di Dante; ma, mentre l'edizione jesina era opera di un valente tipografo italiano, l'edizione folignate e quella mantovana erano uscite dalle mani di due tipografi tedeschi, provenienti forse da Magonza. Le edizioni della «Divina Commedia» stampate in Jesi da Federico e giunte fino a noi (quelle che si conoscono, almeno) sono cinque: una a Vicenza, una a Udine, due a Verona e una quinta a Londra (nel British Museum).

Federico Conti stette a Jesi poco più di quattro anni, durante i quali egli pubblicò, oltre al capolavoro dantesco, due edizioni delle «Costituzioni Egidiane» (l'una il 4 ottobre 1473 e l'altra nel 1474), le «Letture di Baldo da Perugia» (1475) e la «Quadrica Spirituale di Niccolò da Osimo» (27 ottobre 1475). Era stato accolto a Jesi nel migliore dei modi; gli era stata subito conferita la cittadinanza jesina ed aveva ricevuto stabili ed emolumenti vistosi per dargli agio di campare la vita nella opulenta; ma poi, per traversie familiari ed altro, finì col dissipare tutto in breve tempo. Ridotto in miseria, fu messo in prigione, da dove tuttavia riuscì a scappare (o lo fecero scappare?), spostandosi da un posto all'altro, sempre in piena miseria. «Lo strazio di quella vita raminga — scrive il Colini —, il dolore di vedersi separato dai suoi figli, il ricordo dei giorni felici trascorsi inaridirono quella esistenza che forse ancor fioriva sul verde stelo della virilità, e sullo scorcio del 1477 scendeva nel sepolcro senza il rimpianto della moglie, che poco prima aveva perduto, senza l'ultimo bacio dei figli che aveva lontani e senza il cordoglio degli amici».
ANGELO GHISLIERI
        II XV secolo aveva posto in evidenza alcune figure di Jesini, particolarmente benemeriti. Di alcuni si è già detto, quale Angelo Ghislieri, fratello del vescovo Tommaso. Di Angelo Ghislieri il Gianandrea traccia una rapida biografia, che si trascrive per meglio illustrare il personaggio: «Deputato (1452) alla fabbricazione delle mura della città; gonfaloniere all'epoca dell'istituzione del tiro a segno (1453); podestà di S. Severino (1455), creato conte palatino nello stesso anno e nel 1457 cavaliere da Francesco Sforza duca di Milano. Podestà di Firenze (1457), di Alcoli e di Foligno (1458), di Fermo (1459), di Norcia e ancora di S. Severino (1460), di Siena (1461), di Lucca (1462), di Perugia (1465), di Recanati (1470). Senatore di Roma (1482), senza dire delle magistrature sostenute in patria, delle deputazione ed ambascerìe di cui fu incaricato, degli altri titoli e onori avuti nella sua non breve vita». Morì a Roma nel 1482.
         Parlando dei maggiori Jesini del '400, si è anche fatto cenno a Fiorano Santoni, «il vecchio», che partecipò al fallito colpo di mano del 1486. Oltre che per quell'episodio, egli viene ricordato quale uomo insigne per magistratura e ambascerie sostenute in servigio della patria, per preture esercitate fuori, per altissimo ingegno e per molta e svariata dottrina. Una citazione d'obbligo merita anche Antonio Amici, membro di una delle più antiche famiglie della nostra città. Letterato nelle leggi canoniche e nella teologia, fu di gran nome e per le sue virtù fu grandemente amato da Filippo duca di Milano, e fu tanto in grazia di Francesco Sforza che da lui ricevette molti benefici ed onori. Alla corte di Filippo Maria Visconti (duca di Milano) viveva nel 1430. Ricorderemo infine Pietro di Ercolano: nato a Jesi attorno il 1430 e morto tra il novembre del 1480 e il luglio del 1481, lavorava di minuteria e di grosseria; incideva, smaltava e facea figure di rilievo e a perfezione.

La città si espande



LA CITTA' SI ESPANDE

II XV secolo si avviava al tramonto con l'ennesima controversia; questa volta gli Jesini erano in lite con il cardinale di Sant'Angelo ed oggetto della disputa era il castello di Barbara: sebbene quest'ultimo si fosse spontaneamente professato suddito di Jesi, la sua sudditanza veniva ora misconosciuta dall'autorità ecclesiastica. La controversia, iniziatasi nel 1488, si protrasse per più di quattro anni e finì, come al solito, a nostro sfavore. Di che indignati fortemente gli Jesini e non volendo alla sentenza dare esecuzione, furono colpiti d'interdetto.
Altra vertenza i Nostri dovettero sostenerla nel 1495 con Senigallia, ancora a motivo dei lungamente contrastati possessi del Vaccarile e altre Ville.
Intanto nel corso del secolo la nostra città aveva avviato un notevole processo di espansione edilizia. Vero è che la peste del 1456 e quella del 1467 avevano mietuto numerose vittime, ma già la popolazione del pomerio era risultata superiore alle possibilità di ricezione del vecchio perimetro cittadino. D'altra parte le famiglie più illustri ed agiate si andavano costruendo nuovi e più spaziosi palazzi. Il centro storico era ormai sovraffollato, oltre che per il naturale incremento demografico, anche per le continue immigrazioni, che avevano subito una spinta decisiva nel 1450 con l'entrata in vigore dei nuovi Statuti; infatti questi ultimi, che ponevano praticamente fine al vassallaggio, stabilivano che chi voleva entrare a far parte del nostro Comune poteva farlo liberamente con la sua famiglia e fosse considerato libero, cioè non servo di alcuno. Al ripopolamento della città aveva contribuito infine e più recentemente, sia pure in misura relativa, l'arrivo dei Lombardi.
Nel 1476 il Consiglio generale di Jesi aveva deciso di allargare la città nella direzione più naturale e più ovvia, ossia verso Terravecchia, ove cinque secoli prima gli Jesini si erano rifugiati all'epoca del terremoto e dove era stata edificata la chiesetta di S. Maria delle Grazie. Dieci cittadini avevano ricevuto l'incarico di disegnare le strade, dividere le varie aree fabbri­cabili e curare anche la vendita: un appezzamento di terra sulla strada principale era stato quotato 15 bolognini al piede, mentre sulle vie laterali un appezzamento ne costava dieci. Così attorno alla chiesetta delle Grazie cominciarono a sorgere le prime case: non molte, per la verità; anzi occorreranno parecchi decenni e disposizioni piuttosto perentorie prima che in Terravecchia il numero dei fabbricati fosse abbastanza considerevole. Nel 1513, ad esempio, il Comune doveva obbligare ciascun castello del contado a costruirvi una casa a proprie spese entro il termine di sei mesi, e poiché le case ivi sorte erano ancora poche, sempre il Comune, nel 1524, ordinerà ad ogni privato, di città o del contado, di costruire una casa nel borgo di Terravecchia.
Nel XV secolo anche le mura della città avevano subito variazioni notevoli ed erano state opportunamente rafforzate. Se le autorità dell'epoca avevano dovuto affrontare e risolvere il problema ricettivo, quello dell'edilizia militare era motivo di viva preoccupazione per la costante minaccia di guerre e di aggressioni. Nel 1465 — come si è già detto — un tratto delle mura cittadine sul versante Sud-Est era stato spostato più a valle per includere entro la cinta il borgo San Pietro e la preziosa sorgente d'acqua che si trovava in quel borgo. Cinque anni dopo analogo spostamento, sempre verso l'esterno, era stato operato sul versante opposto della città, ove era stata aperta la nuova porta S. Floriano, così come risulta oggi porta Garibaldi.
Nel 1488 l'architetto Baccio Pontelli, su incarico del pontefice, provvedeva a ricostruire la rocca ed il fossato a ponente delle mura cittadine. Nell'occasione, veniva aperta la porta del Montirozzo, che venne chiamata Porta Marina (oggi porta Bersaglieri). La rocca era il baluardo principale a difesa della nostra città. Vi stazionava in permanenza la guardia comunale.
La vecchia rocca era ubicata in quello spazio che è tra il palazzo del Governo fino al principio della discesa verso oriente a tutto quel quartiere di case che sono da piazza Angelo Colocci alla strada stessa chiamata Costa Lombarda. Già per due volte era stata costruita e poi distrutta, sempre in relazione a vicende belliche. Nel 1477, a causa di molti disordini cagionati dai cittadini che vi stazionavano, gli Jesini avevano ottenuto dal papa il permesso di abbatterla. Dopo la sommossa ghibellina del 1486, tuttavia, Innocenzo VIII aveva voluto che fosse ricostruita, e ne aveva affidato appunto l'incarico a Baccio Pontelli.
A questo punto Giovanni Annibaldi nota che, seppure in quel periodo la nostra città fosse senza rocca, non per questo gli Jesini potevano considerarsi alla mercé di qualsiasi aggres­sore. Il loro armamento, infatti, era di primordine, naturalmente in rapporto ai tempi. Di quali armi disponevano gli Jesini verso la fine del XV secolo? Balestre, partigiane, spingarde, mortai, archibugi, corazze, celate ed una buona quantità di nitro e di zolfo. «Quando nel 1486 — riferisce l'Annibaldi — un Lodovico Lozi, commissario del governatore della Marca, chiedeva al nostro Comune 400 pedoni, 100 guastaroli, spingarde, polvere, palle ed altri strumenti bellici ed artiglierie per drizzarle contro Castelleone, i nostri mandarono una bombarda con 24 palle, due spingarde con 65 libbre di piombo in palle, due targoni, 400 verettoni, un barile di polvere, quattro code di spingarda, due paia di ruote da spingarda, una cassa di verettoni ed un sacco».
Nel 1488, dunque, si mise mano alla ricostruzione della rocca, su un punto alquanto più elevato, nell'area cioè che oggi è occupata dal palazzo comunale. Doveva essere un qualcosa di pregevole se a quella costruzione, oggi scomparsa, è sopravvissuto il nome di Roccabella, dato allora ad una via del quartiere.
 CHIESE E CONVENTI
Oltre all'edilizia militare, nel '400 non poco era stato fatto anche nel campo degli edifici sacri. In questo settore, anzi, si erano avute e si avranno, fino ai nostri giorni, le realizzazioni, se non sempre valide sotto il profilo artistico, certo più ricorrenti e numerose. Abbiamo già detto della costruzione della nuova chiesa cattedrale e del santuario di S. Maria delle Grazie. Accenneremo qui ad altre tre fra le maggiori chiese nuove o restaurate nel XV secolo.
CHIESA DI S. MARCO — Nel 1440 i frati minori conventuali avevano abbandonato la chiesa di S. Marco a causa delle cattive condizioni di quel convento; ma non era stato un abbandono definitivo, nel senso che i «minori» continuarono a possederla; infatti, due anni dopo la loro partenza (si erano trasferiti nel convento di S. Floriano, entro le mura), avevano fatto domanda per poterla restaurare con i beni dì San Floriano, cosa che avevano ottenuto dopo dieci anni.
La chiesa di S. Marco, situata sopra un ameno poggio a pochi passi dalla città, è oggi uno dei più antichi e pregevoli monumenti jesini. Il tempio è un notevole esempio di archi­tettura romanica: una costruzione di concezione grandiosa, su una superficie rettangolare di m. 15x41. Allorché vennero eseguiti i lavori di restauro, la facciata fu sopraelevata con l'evidente proposito di conferirle uno slancio maggiore (ancor oggi è ben visibile la linea dell'antica facciata, abbastanza evidente nelle linee di sutura fra il vecchio ed il nuovo muro). Di chiaro stile romanico sono il portale, il rosone (con decorazioni in cotto) ed il cornicione sorretto da archetti intrecciati. La porta che si apre sulla facciata occidentale è composta di marmo statuario, cipollino o grechetto e di breccia veronese; a spalle oblique con quattro colonne sottili a spire ed a trecce uguali tra loro in altezza e diametro, collocate in prospettiva, che sostengono archivolti analoghi e paralleli a quelli dei pilastrini. Nel bellissimo portale, con decorazioni a foglie d'olivo, si vedono sulla sinistra il leone di S. Marco e sulla destra un agnello con la croce sul dorso.
L'interno, che prende luce da finestre con vetrate a vivaci colori, è a tre navate. Quella centrale consta di cinque campate (la prima delle quali, entrando, più piccola) con volte a crociera. I capitelli e le basi dei pilastri non hanno decorazioni. La finestra del presbiterio, ad archi trilobati, è certamente di stile gotico. I quattro affreschi superstiti che si vedono oggi nella chiesa di S. Marco costituiscono indubbiamente una delle principali preziosità della chiesa stessa. Essi risalgono all'epoca francescana e cioè al XIV secolo. L'affresco raffigurante la «Crocifissione», che si trova sopra la bifora del presbiterio in fondo alla navata centrale, è forse il più bello o comunque il più pregevole. Il dramma della crocifissione è reso con notevole efficacia, soprattutto nelle figure della Madonna e di San Giovanni. Il pittore volle inserire nel gruppo d'elle persone ai piedi della croce alcuni suoi illustri contemporanei: si vuole infatti che in almeno tre figure si debbano riconoscere Dante, Petrarca e Boccaccio.
Gli altri tre affreschi rappresentano: "L'Annunciazione", la "Dormitio Virginis" e il co­siddetto "affresco lauretano"; i primi due si trovano nelle due pareti d'angolo in fondo alla navata destra, l'altro sui pilastri a sinistra del presbiterio. Quest'ultimo affresco, che è il più piccolo, sarebbe opera di un allievo diretto di Giotto: rappresenta la traslazione della Santa Casa.
CHIESA DI S. FLORIANO — Questa chiesa nel XV secolo aveva subito un mutamento sostanziale. Nel 1200 (allora era intitolata a San Giorgio) era a croce greca e con una cupola quadrata all'incrocio delle due navate; l'ingresso non era in corrispondenza della navata principale, ma di quella secondaria, in quanto il braccio principale del tempio, con l'altare maggiore, era orientato diversamente, da Est ad Ovest. Dal 1440, con l'arrivo dei padri conventuali provenienti da San Marco, la chiesa di San Floriano era officiata dai «minori», che si erano sistemati nelle casette annesse al tempio. I nuovi arrivati non avevano tardato ad apportare sensibili trasformazioni all'edificio, nell'intento di ampliare la chiesa. Non potendo prolungare le navate, dal momento che il tempio era circondato da strade, l'ignoto progettista risolse il problema «smussando» gli spigoli interni della chiesa all'incontro delle navate in modo da creare un ottagono. Nello stesso tempo i frati avevano provveduto alla costruzione del convento (le attuali scuole elementari), che prese il posto delle piccole case annesse alla chiesa.
CHIESA DI S. FRANCESCO AL MONTE — II 12 ottobre del 1490, dopo una premessa ed un'attesa di oltre vent'anni, era stata posta la prima pietra di una nuova chiesa intitolata a S. Francesco al Monte, ubicata ove è oggi il ricovero dei vecchi.
A quel tempo, secondo quanto riferiscono gli storici, gli Jesini desideravano ardentemente che anche nella nostra città ci fosse un convento di PP. Osservanti e allo scopo avevano interessato i superiori dell'Ordine francescano, giungendo poi anche a supplicare il pontefice. Per convincere gli Osservanti a stabilirsi a Jesi o nelle immediate vicinanze della città, era stato compiuto un primo tentativo il 28 ottobre del 1469. Approfittando del fatto che un legato jesino, Niccolò Colocci, doveva. recarsi a Roma per conferire con le autorità della Chiesa, i Nostri gli avevano affidato anche l'incarico di patrocinare presso papa Paolo II ed i cardinali la venuta a Jesi degli Osservanti. La supplica del messa jesino però non aveva avuto esito. Della cosa si era poi occupato il Consiglio della città, il quale, in data 12 maggio 1471, su proposta di Angelo Ghislieri, aveva deciso di inviare una delegazione direttamente al Capitolo degli Osservanti con la stessa richiesta. Ma anche il secondo tentativo non aveva avuto miglior fortuna del primo.
Si era dovuto attendere, insomma — tra viaggi, incontri, promesse e trattative — altri quindici anni prima che i francescani si dichiarassero disposti (per l'esattezza, il 4 novembre 1489) ad esaudire i voti degli Jesini. Avevano posto, però, come condizione per la loro venuta a Jesi, che fossero loro concessi la chiesa ed il convento di San Nicolò o, quanto meno, la chiesa di S. Maria delle Grazie. Essendo i primi e la seconda regolarmente occupati, era stato raggiunto alla fine un compromesso col quale il Comune di Jesi si era impegnato a concedere — come di fatto concesse — ai frati Osservanti una vasta area sulla collina a Nord di Jesi.
La chiesa di San Francesco al Monte (così chiamata per la elevata posizione del tempio rispetto alla città) aveva annesso il convento, l'una e l'altro costruiti in brevissimo tempo. Forse anche a motivo della rapidità della costruzione, la chiesa non presentava particolari pregi architettonici. Sarà abbellita nella prima metà del XVI secolo con opere di un certo valore, tra le quali il portale scolpito da Giovanni di Gabriele da Como e conservato tuttora nel museo comunale.

Il Palazzo della Signoria



IL PALAZZO DELLA SIGNORIA
Domata la sommossa e ritornata la calma, gli Jesini in quello stesso anno potevano mettere mano, con tutta serenità, alla realizzazione di quell'opera che, come è stata definita dal Magaluzzi, «su tutte le altre si eleva nelle Marche per importanza storica ed artistica»: il palazzo del Governo o della Signoria.
Sulla stessa area ove oggi sorge questo edifico, si elevava anticamente il palazzo del Comune o dei Priori, costruito fra il 1220 e il 1230, forse su progetto dell'architetto Giorgio da Como. Di quell'antico edificio (di cui sopravvive solo qualche tratto di fondazione ) non ci è pervenuta alcuna descrizione ; si sa soltanto che era più piccolo del palazzo attuale e non aveva cortile interno. Venne abbattuto a causa di «deficienze statiche», che lo avevano reso inabitabile. La costruzione del nuovo palazzo era stata decisa nel 1484 e l'incarico di farne il disegno era stato affidato a Francesco di Giorgio Martini (1439-1501), il maggiore architetto senese e tra i più grandi del primo Rinascimento.
Pittore e scultore, Francesco di Giorgio Martini si era dedicato ai problemi di urbanistica, di meccanica, di idraulica e di tecnica delle costruzioni. Come ingegnere, era stato chiamato a Milano per «salvare» il Duomo sulla cui stabilità si nutrivano in quel periodo serie preoccupazioni. Si era occupato anche di ingegneria militare (nel 1495 farà brillare con successo la prima mina). Aveva rivelato, insomma, un'ampiezza di vedute, una umanità ed una versatilità che precorrevano Leonardo. Era nell'architettura, tuttavia, che Francesco di Giorgio Martini aveva maggiormente espresso la sua notevole personalità. Per molti anni aveva lavorato ad Urbino al servizio di Federico da Montefeltro e fu appunto durante il suo soggiorno urbinate che egli aveva progettato il Palazzo della Signoria di Jesi.
Una volta ultimato il disegno, questo venne tradotto in un piccolo modello di legno da Domenico di Antonio Indivini, uno dei più abili intagliatori italiani.
Nel 1486, dunque, si pose mano all'opera. Inizialmente i lavori vennero dati in appalto ai maestri Antonio di Vico e Pietro d'Antonio di Castiglione, architetti lombardi; nel 1493 furono «accottimati» ad un maestro Antonio da Carpi; infine nel 1498, ad altri due maestri lombardi: Giacomo di Beltramo e Cristoforo di Martino da Varese. Nel 1498 (ormai l'edificio poteva considerarsi a buon punto) cominciarono i lavori di decorazione: Michele e Alvise da Milano scolpirono il leone rampante, che è sopra la porta principale; essi stessi e Giovanni di Gabriele da Como fecero i conci delle tre porte della seconda facciata e delle finestre a croce, le due cornici che girano intorno a ciascun piano e il cornicione superiore, le quattro targhe col leone ai quattro angoli della fabbrica; opere tutte, specie i conci delle porte, del più puro e finito stile.
«Terminato il lavoro esterno — scrive il Gianandrea — si diede mano all'interno; e qui altri nomi di artisti prestantissimi ci offrono le scritture del tempo! Andrea Contucci da Monte Sansovito fa nel 1519 il disegno dei due portici o logge, di cui l'opera fu condotta dal sopradetto Giovanni da Como e da altri scultori, lavorando tutto il secondo porticato di stile composito, a pietra d'Istria; Pieramore di Bartolomeo, jesino, allievo dell’Indivini, e un Giovanni fiorentino, chiamato modestamente fabro Ugnarlo, intagliano e lavorano di rilievo i soffitti della sala grande, di quella della cancelleria, della camera del podestà e di altre stanze, e costruiscono similmente di rilievo e d'intaglio il coro per la cappella; Pietro Paolo Agabiti da Sassoferrato dipinge e indora nella cappella stessa il tabernacolo della Vergine; il nostro Andrea da solo e insieme coll'Agabiti e con Ottaviano Zuccari affresca la sala dell'udienza e le logge di sopra e di sotto; Lorenzo Lotto è invitato a dipingere la cona della cappella, quantunque, non si sa perché, fosse allogata poi a Pompeo Persiuti da Fano, da cui fu eseguita.
«La torre fu il coronamento dell'opera, essendo stata condotta a perfezione dal 1548 al 1551: architetto maestro Ansovino di Sebastiano da Camerino; e riuscì veramente degna dell'insigne monumento». Di come fosse la torre originaria abbiamo una descrizione di Tommaso Baldassini: «Aveva tre ordini, ciascuno dei quali era torneggiato da una fascia di finissimo marmo; poscia da vaghissimi e spaziosissimi merli, i quali nella parte esterna sostenevano un'artificiosissima ferrata tutta scartocciata e di vaghe ritorte fabbricata, che non solo rendeva 'estrema vaghezza, ma prestava un sicuro comodo per praticarvi. Nel secondo ordine eravi la campana, nel terzo il pubblico orologio, sopra il quale innalzavasi la gran cupola tutta ricoperta di lastre di piombo».
Purtroppo la torre, divenuta ben presto pericolante, nonostante i restauri, crollerà il mercoledì 21 febbraio 1657 alle 4 ora di notte («me presente — scrisse lo stesso Baldassini — con universale dispiacimento»). Dieci anni dopo, con l'intervento della Camera Apostolica che contribuiva con trecento scudi, veniva costruita la torre attuale, goffa e disadorna. E rimase interrotta «per mancanza di fondi». 
Il Palazzo della Signoria, di forma quasi quadrata, si eleva di due piani oltre il terreno. Le mura, compatte, di mattoni a cortina, hanno sobrie eleganti decorazioni tutte in pietra, le quali, grazie al gioco di luci ed ombre, creano un bellissimo effetto pittorico che non turba affatto l'austera semplicità dell'insieme, di un equilibrio incomparabile. Il portale, dallo stile baroccheggiante (fu fatto eseguire nel 1558 dal terzo governatore della città, il bolognese mons. Lodovico Areni) non armonizza con il palazzo, per cui si ritiene che sia stato realizzato senza tener conto di come Francesco di Giorgio Martini lo aveva ideato. Il cortile non è molto vasto; la cisterna che si vede al centro del cortile è una ricostruzione di Giovanni di Gabriele da Como.
II Palazzo della Signoria è il monumento più bello e rappresentativo di Jesi: «la più lieta ed affascinante casa del Comune sorta in suolo umbro nel '400»; così la definì il Venturi.

venerdì 25 novembre 2016

Conferenza sul "Sacco di Jesi"


 


La conferenza è promossa dalla Associazione Culturale Euterpe e si terrà domenica 27 novembre alle ore 17:30 presso la Biblioteca La Fornace di Moie di Maiolati Spontini (AN).

Sicuramente un evento di interesse per tutti gli appassionati di storia locale che seguono questo blog.

STEFANO VIGNAROLI, RICCARDO CECCARELLI, MARINELLA CIMARELLI e tutto il direttivo dell'Associazione Euterpe vi aspettano per un paio d'ore dedicate alla rivisitazione di una delle pagine più tragiche della storia di Jesi e della Vallesina.


giovedì 24 luglio 2014

IN GUERRA CONTRO ANCONA


IN GUERRA CONTRO ANCONA

Alla peste subentrò nella nostra città, inevitabilmente, una grandissima carestia. Per venire incontro alle precarie condizioni degli Jesini, Pio II, l'11 settembre del 1458, confer­mava loro tutti i privilegi avuti dai precedenti pontefici; successi­vamente, il 29 agosto del 1460, vendeva loro tutti i beni che erano appartenuti alla Camera apostolica nella Curia del castello di Morro.
Pio II, succeduto a Callisto III nel 1458, era il celebre Enea Piccolomini, una delle figure più insigni di umanista e di mecenate del XV secolo. Egli ebbe non poche preoccupazioni a causa degli Anconetani e fu costretto ad interessarsi più volte delle dispute fra Jesini e Dorici. I quali erano appena usciti dalla più terribile delle epidemie che già avevano ripreso la guerriglia.
Gli Jesini, nonostante gli accordi conclusi qualche anno prima, avevano occupato presso il Castello di Camerata alcune terre che il Comune di Ancona aveva donato ad Astorgio Scotivoli, valoroso uomo d'armi al servizio dì Francesco Sforza, ed interdissero agli uomini di Ancona di far le semine, intra­prendendo una grossa scorreria per il contado. Gli Anconeta­ni, che anelavano dal desiderio di vendicarsi della rotta subita ad opera dei Nostri nel 1309, si rivolsero allora a Sigismondo Malatesta il giovane, per combattere gli Jesini. Sigismondo in un primo momento inviò il figlio Roberto, che prese a scorraz­zare per il territorio di Jesi.
I Nostri, informati che il Malatesta si era schierato dalla parte degli Anconetani, ne ebbero gran dolore, in quanto, essen­do ancora la città, per la peste passata, vuota d'uomini, temevano un insuccesso. Il magistrato pose alla guardia di ciascuna porta della città cinquanta balestrieri e studiò il da farsi per tenere testa al nemico anche nel territorio del Contado. Allo scopo, spedì Fiorano Santoni, con duecento villani fatti nelle ville nostre, alla guardia di S. Marcello e Belvedere. Ro­berto Malatesta, che a sua volta era venuto a conoscenza del piano difensivo dei Nostri, puntò verso Musciano (Monsano) e Barbara, deciso a conquistare questi due castelli.
Monsano dipendeva direttamente da Jesi. Barbara aveva fatto parte dei possedimenti del nostro Comune fin dal 1257, ma in seguito aveva riscattato la propria indipendenza ed ora era semplicemente un alleato di Jesi. I Monsanesi, non appena videro comparire l'avanguardia del nemico, si arresero. Gli uomini di Barbara, invece, opposero una tenace resistenza. E poiché gli assedianti disponevano di due pezzi di artiglieria con i quali avevano preso a far fuoco per aprire una breccia nelle mura del castello, costruirono a tempo di record, all'interno delle stesse mura, munite trincee dietro le quali i difensori avrebbero potuto trovare riparo per continuare la resistenza, una volta cadute le mura.
Visti gli sviluppi della situazione, a Jesi si iniziò il reclu­tamento di uomini per inviare aiuti ai Barbaresi e per ricon­quistare Monsano, procurato nel frattanto di raffrenare l’armi dei nemici, i quali, essendosi insuperbiti per aver avuto senza sangue il detto castello, ogni giorno facevano scorrerie per il ter­ritorio nostro e andavano giungendo a volte fin quasi presso le mura della città. Inoltre, con promesse e con doni, cercavano di corrompere gli altri castelli del Contado jesino. Pare anzi che San Marcello fosse sul punto di vendersi al nemico, ma i Nostri intervennero con estrema decisione e minacciarono pesanti rap­presaglie contro gli abitanti di quel castello; i quali, per farsi perdonare il tentato tradimento, dovettero accettare le condi­zioni poste dai Nostri e cioè il pagamento di 450 fiorini d'oro e l'obbligo di venire ad abitare a Jesi.
Intanto si era verificato un fatto nuovo che, nella guerra contro gli Anconetani, doveva avere ripercussioni favorevoli per noi: Sigismondo Malatesta, contro la volontà del papa, invece di portare aiuto ad Ancona (che lo aveva pagato per questo), occupò Pesaro, Fano e Senigallia (che appartenevano alla Chiesa), suscitando le ire di Pio II anche contro Ancona. Cosicché il pontefice inviò in soccorso degli Jesini il bolognese Virgilio Malvezzi al comando di duecento fanti e ottocento cavalieri. A questi si aggiunsero gli uomini che erano stati reclutati nel nostro territorio. Per Jesi era il momento di iniziare la controffensiva.
I Nostri posero ai passi quattrocento uomini e spedirono il Malvezzi, alla testa di duemila fanti, verso Monsano per riconquistarlo. L'occupazione di quest'ultimo, tuttavia, avven­ne senza colpo ferire; Guidone da Urbino, Battista Ambroselli da Verona e Giovanni da Cesena, che presidiavano quel castello per conto del Malatesta, consegnarono le chiavi del paese al Magistrato jesino, il quale, recatosi a Monsano, aprì personalmente le porte del castello, le serrò in segno di legitti­mo possesso e fece porre alla sommità della torre la bandiera del Comune di Jesi, nella quale vedevasi in campo rosso, di seta, effigiato un leone bianco con corona d'oro in testa. Suo­narono subito per allegrezza tutte le campane del luogo e tutto il popolo gridò ad alta voce: «Viva nostro Signore, la Santa Chiesa romana e la Comunità di Jesi!». Il magistrato conse­gnò poi le chiavi a Tommaso di Fiorano, sindaco del Comune, il quale con una comitiva di giovani nobili andò nel castello e al Comune di quello consegnò le dette chiavi, acciocché le custodisse.
Il magistrato ordinò infine che fossero demolite le mura del castello, a spese degli stessi abitanti di Monsano, e che nessuno potesse uscire dalla terra fino a che tale ordine non fosse stato eseguito. Al che i Monsanesi, per evitare che venis­se messo in atto il provvedimento, inviarono ambasciatori al magistrato di Jesi per chiedere perdono del loro tradimento (si erano arresi al Malatesta, come si è visto, senza combatte­re). Il magistrato, con licenza del Consiglio generale, li per­donò a condizione che pagassero quattrocento fiorini d'oro e che i principali del castello venissero ad abitare a Jesi.
I «CAPPELLETTI»
Nel periodo in cui gli sforzi dell'esercito jesino erano con­centrati nella riconquista di Monsano, gli alleati di Barbara avevano continuato la loro coraggiosa resistenza, ma ormai erano allo stremo. Ripetute volte avevano mandato a chiedere rinforzi e vettovaglie agli Jesini, ma i Nostri, impegnati sull'altro fronte, non erano stati in grado di portare un valido determinante aiuto agli assediati. Questi ultimi, allora, per obbligare gli Jesini ad intervenire a loro favore in maniera concreta, sottomisero la terra, le famiglie ed i figliuoli loro sotto la giurisdizione di questa città di Jesi e domandarono come sudditi di nuovo il già domandato aiuto; in altre parole, i Barbaresi da alleati divennero sudditi di Jesi, certi che i Nostri, desiderosi di difendere le cose loro, avrebbero fatto tutto il possibile per liberare gli assediati.
I Barbaresi avevano visto giusto. Infatti gli Jesini armaro­no sollecitamente duecento «cappelletti» con l'incarico di portarsi al più presto a Barbara. I «cappelletti» — così chiamati per via di certi cappelli aguzzi con cui erano soliti ricoprirsi — erano giunti in Italia dall'Albania poco dopo la peste per sfuggire al dominio dei Turchi e, nella nostra zona, si erano stabiliti in campagna, per lo più nelle parti del fiume (pare che vivessero quasi come banditi). Oltre ai «cappel­letti», gli Jesini comandarono che tutti gli artefici atti a por­tar armi dovessero andare in soccorso della Barbara e che ciascuno portasse vettovaglia per vivere per due giorni.
Ma proprio in quei giorni il Malatesta decideva di togliere l'assedio a Barbara. I Nostri, informati dell'itinerario che avreb­bero percorso i malatestiani, pensarono di tendere loro un'imboscata, che però fallì per il tradimento di una spia degli Anconetani.
Sigismondo Malatesta il 2 luglio del 1461 affrontava in cam­po aperto, nei pressi di Castelleone di Suasa, le truppe pontificie comandate dal Malvezzi e da Pier Paolo de' Nardini, infliggen­do loro una pesante sconfitta, tanto che gli Jesini, sorpresi per i successi ottenuti dal Malatesta, il 12 luglio di quell'anno mandarono quelle genti già assoldate dal Malvezzi e rimaste sempre in città, a guardia dei castelli di Morro, Belevedere e San Marcello. Tuttavia, nonostante le misure di emergenza adottate dai Nostri, sul versante destro dell'Esino l'esercito del Malatesta predò e ruinò una parte del territorio nostro e spianò alcune sontuose abitazioni fatte nelle colline vicine dai nostri gentiluomini; sul versante sinistro, invece, i Nostri sostennero alcuni scontri con gli Anconetani: la sorte ci fu sì favorevole che, non solo i Nostri restarono superiori nella battaglia ma anche signori del loro stendardo. Onde si vedeva­no nelle logge del nostro palazzo, con gran festa del popolo, le loro insegne in guisa di un trofeo, rovescie; e vi si scorgeva­no insieme i padiglioni che l'anno 1309 erano stati tolti pure a loro.

Ai primi del 1461 era giunto nella Marca il cardinale Alessandro Oliva con l'incarico, avuto da Pio II, di mettere fine alle lotte fra Jesini e Anconetani. Il cardinale Oliva, nativo di Sassoferrato, dopo essere stato generale dell'ordine agostiniano cui apparteneva, aveva ricevuto la porpora cardinalizia l'anno prima, anche in riconoscimento dell'opera di pacificazione da lui svolta in Toscana e nell'Umbria.
Già prima di affidare al cardinale Oliva la missione di mediatore, il pontefice aveva rivolto inutilmente tutte le sue cure alle annose questioni fra le due città della Marca nel tentativo di ristabilire la pace e l'armonia; a questo scopo ave­va indirizzato due lettere agli Anconetani ed agli Jesini, rim­proverando ai primi di essersi rivolti per aiuti al Malatesta ed ai secondi di aver osato compiere scorribande nelle terre degli Anconetani.
Ora, mentre le due città si davano battaglia, il cardinale Oliva svolgeva con successo la sua opera di pace in Ancona, successo favorito anche dal contegno del Malatesta che, indisponendo gli Anconetani, iì rese più arrendevoli e propensi ad accordi. Verso la fine di febbraio, in un incontro in Osimo tra ambasciatori anconetani e jesini, la pace sembrò raggiunta.
Ma non fu che una pace apparente. R. Elia ne addossa la colpa agli Jesini, «rei» di essersi appellati al papa contro la sentenza dello stesso Oliva. Per questa ragione Pio II, con Breve dell'11 aprile, ordinava agli Jesini di astenersi dal dan­neggiare gli Anconetani e dal fare innovazioni nei territori di Monsano e di Chiaravalle. Altra intimazione simile faceva il 19 maggio.
LA RESA DEL MALATESTA
Si andò avanti così per altri mesi, finché il papa, deciso a farla finita con i disordini nelle Marche, stabilì che il primo passo da fare in questo senso era quello di liquidare per sempre Sigismondo Malatesta. Gli inviò contro Federico di Urbino, il quale, il 12 agosto del 1462, gli infliggeva una dura sconfitta, tanto da costringerlo a riparare in Puglia (rientrerà a Rimini l’anno seguente, dopo essersi riconciliato con la Chiesa). Pio II concentrò poi i suoi sforzi per porre fine alla rivalità fra Jesini e Anconetani, tutt'altro che riappacificati nonostante gli sforzi del cardinale Oliva. Infatti, il 17 luglio 1463 gli Anco­netani avevano occupato il castello di Montemarciano, che era stato invece assegnato dal papa agli Jesini con bolla del 30 aprile 1461 a titolo di compenso per i danni che i Nostri avevano subito dagli Anconetani.
«II legato del papa, cardinale di Trani (Nicolò Forteguerri) — scrive il Natalucci — chiese agli Anconetani la restituzione di Montemarciano e di altri castelli che tenevano ancora occupati. E poiché la comunità oppose un rifuto, il papa, indi­gnato, scagliò l'interdetto contro la città e fu dato ordine a Federico di Urbino di marciare contro Ancona. Sotto la minac­cia di un'azione militare, la comunità inviò il suo ambasciatore al legato per la restituzione di Montemarciano e per rimettersi, in quanto agli altri castelli, al beneplacito di Pio II. Il papa, in un Breve del 1463, considerando le stragi, le rapine e le altre calamità avvenute nel territorio ecclesiastico a causa della guerra, invitava i cittadini alla pace, che fu conclusa il 12 otto­bre del 1463 con la restituzione da parte di Ancona delle terre occupate. Di Montemarciano Pio II fece un feudo per il nipote Giacomo Piccolomini e per i suoi discendenti».